Nella Grazia apprendiamo gli stili di Dio

Pubblichiamo di seguito il messaggio del Vescovo Mauro Maria per l’Avvento e Natale 2016 presente nel n.23 del periodico diocesano Dialogo

È apparsa infatti la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini e ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà, nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo. Egli ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formare per sé un popolo puro che gli appartenga, pieno di zelo per le opere buone (Tito 2,11-14)”.

È con queste parole sante e grondanti luce, che squarciano il nostro intimorito e accartocciato orizzonte, che indicano l’inattesa possibilità di essere avvolti e interiormente con-vinti dall’eccedenza dell’amore di Dio disvelata in Gesù – lui la Grazia – ma anche parole gravide di scelte che non si possono più procrastinare e di responsabilità da non più delegare, che vi raggiungo tutti e ciascuno, ognuno lì dove si tesse il filo dei giorni, lì dove scorre il fluire quieto e tumultuoso della vita, lì dove tentiamo di umanizzare, insieme ai compagni e alle compagne di viaggio che il Signore ci dona, quella manciata di anni che, inanellati l’uno all’altro, fanno il mistero affascinante e tremendo della nostra vita vissuta nella carne.

Sono le parole così densamente abitate dallo Spirito del Signore, ispirate appunto, che vengono proclamate come seconda Lettura nella santissima notte di Natale, perché diventino per ogni credente in Cristo e per ogni uomo e donna di buona volontà, via, viatico, bussola e, insieme, ferita nella carne, feritoia nel cuore e consolazione senza ammanchi nell’anima.

Chi agisce è la “grazia di Dio/cháris tû Theû”, quella benevolenza eccedente e non preventivabile, immeritata e interamente gratis data, capace di raggiungere “tutti gli uomini”. Tutti. È questa l’inconfondibile, dolcissima carezza di Dio che – solo! – può prendersi il lusso, proprio perché eccedenza di Amore, di non privilegiare categoria alcuna e di “non fare preferenze tra persone” (cf At 10,1-14; 33-44; Mt 5,45; Lc 15,11ss…). Gesù che appare nella carne è la nitida firma del Padre che sancisce per tutti e per ciascuno che Colui che lo invia, proprio in lui, nel Figlio, ama solo e sempre sovrabbondantemente, esageratamente, eccessivamente, sproporzionatamente.

Nella santa notte diventata, così, tenebra incandescente per il dono della Parola e per il Corpo santo del Signore, la Comunità cristiana viene rievangelizzata. La cercata prossimità del Padre, nel Figlio, “è apparsa/epepháne”: è un bene che non appartiene al mondo degli uomini e investe – tutti! –  con la sola forza della gratuità. Non è frutto di ricerca. Non è legata al merito. Non prevede possessi esclusivi ed escludenti.

Pervasi gratuitamente dalla Grazia è lecito sperare in un cambiamento. È doveroso sognare altre movenze di vita. È certa sensatezza altra nell’intrico dei giorni. Perché? La Grazia apparsa, che si dice nella carne di Gesù di Nazaret, Maestro e Signore, svolge per ogni umano il servizio più necessario, anzi quello indispensabile perché scorra la vita e perché possa permanere l’umano vero e che questo, anzi, giunga alla sua piena efflorescenza senza contraffazioni. Quella Grazia educa. Quel “ci insegna” che sentiamo risuonare nella seconda Lettura della Messa di mezzanotte, ci porta alla paidèia, all’arte di educare.

La Comunità dei credenti non è sola, nessuna persona è abbandonata a se stessa nell’imparare a vivere la vita, nell’inventarsene un qualsivoglia senso (più o meno taroccato…), nell’umanizzarla, nel renderla sempre più bella e sempre più significativa. In un tempo di paurosa rarefazione di maestri e di agghiacciante moltiplicazione di orfani; in un tempo dove “pensieri deboli” e “pensieri forti” collidono, si miscelano e si disintegrano; in un tempo ove la nostalgia dell’autorevolezza è talmente lancinante da toglierci il respiro, ci colma di gioia il rassicurante impegno di Dio, che in Gesù, ci educa ed educandoci ci fa nascere a verità e fatti veri in Lui, ci libera.

Questa è la Grazia che verrà proclamata in ogni nostra chiesa, dalla Cattedrale alla più piccola cappella: una Grazia, Gesù, tutt’altro che eterea, impalpabile e ininfluente. I suoi stili di vita, la sua parola, le sue scelte, il suo decidere di rimanere Figlio del Padre abban-donandosi interamente a noi e diventare nostro fratello abban-donandosi tutto nelle mani del Padre. Il suo nascere, il suo vivere e il suo morire per risorgere primizia assoluta di vita nuova… Lui Grazia e paidèia del Padre! Lui ci strappa da quell’errare, vagando stancamente. Mortalmente. Lui ci concede di sfilarci le maschere di tante fatture e di vivere a volto scoperto, di impersonare se stessi senza infingimenti. Lui squarcia le infinite corazze che sopravvestiamo e sventra le alienazioni di ogni colore che tuttavia, immancabilmente, derubano la vita.

Lui Grazia educante apparsa, fa brillare sotto i nostri occhi assetati di novitas, il primo grande dono di Natale: l’effettiva possibilità di smettere di amoreggiare con “l’empietà e i desideri mondani”. Come è possibile? Perché in Gesù il Padre non dona qualche cosa di Sé. Dona se stesso. Tutto.

La Grazia educante apparsa, Gesù venuto nella carne, non è una lezioncina dotta del divino consegnata con piglio didascalico all’umano; non è affatto una giustapposizione né morale, né sacrale e tantomeno decorativa; neppure è un piccolo prezioso saggio del mondo di Dio concesso graziosamente. No.

Nella nostra carne, attraverso la carne del Verbo Gesù, irrompe il tutto di Dio, il tutto della sua vita, il tutto della sua forza, il tutto della sua novità, il tutto di lui Amore. L’umano viene investito e ri-creato, ricevendo realmente in dono tutti quegli stili di vita – e va ridetto: divini! – che salvaguardano la vita stessa, la rendono bella, vivibile, spendibile. Che ne fanno un dono ed un impegno che rifugge ogni sciupìo, ogni contraffazione, ogni posa dilettantesca e irresponsabile.

Con il sorprendente primo dono natalizio – ricevuto nel cuore dell’Eucarestia ben prima di scartare i doni (attesi e sempre belli) sotto l’albero di casa – di poter fuggire “l’empietà e i desideri mondani”, perché resi sapienti da Gesù, Grazia educante apparsa, potendo ormai vivere come lui perché ri-creati dalla sua Parola e dal suo Corpo, ci vengono donati altri tre doni che rendono storico e raccontabile nel tempo lo stile di Dio: l’atteggiamento di “sobrietà/sophrónos”, di “giustizia/dikáios” e di “pietà/eusebôs”.

Nell’intera storia della salvezza apprendiamo che la sobrietà è cosa divina: dal primo versetto di Genesi all’ultimo di Apocalisse tutto in Dio trasuda sobrietà. Certo: nella carne del Verbo il sobriamente/sophrónos di Dio non può neppure essere commentato! I Padri avevano coniato l’espressione Verbum abbreviatum, Verbum brevissimum per raccontare appunto la totale eloquenza del Verbo nella sua stessa assoluta sobrietà e abbreviazione!

L’avverbio sobriamente indica qui la capacità di saper e poter saggiamente gestire quel meccanismo così tipicamente umano, indispensabile e delicatissimo, del desiderio e del desiderare che condotto invece non-sobriamente, diventa una macchina infernale,
dis-ordinando la vita, creando continuamente bisogni, accendendo desideri o irrealizzabili o deleteri o mortiferi e partorendo così miriadi di infelici perché incapaci di soddisfare quei desideri, senza tragicamente riuscire a ri-conoscere e a dar voce a quei desideri veri, profondi, incoercibili come quella “cicatrice del divino” che preme in ogni cuore umano. La mentalità consumistica, da queste modalità non-sobrie e scomposte nella gestione del desiderio, trova un propellente pressoché inesauribile. Come ricorderete, la Quaresima-Pasqua del 2015, a partire dalla pericope della Samaritana, ha visto l’intera nostra Chiesa tutta tesa nel cogliere l’autentica dimensione umana e teologica del desiderio.

Essere educati dalla Grazia apparsa da Gesù nella carne, a vivere di “giustizia/dikáios” richiama ancora lo stile di Dio reso noto nel Figlio e per noi possibilitato dalla sua che è nostra carne: la sua ac-con-discendenza, il suo rispetto verso tutti e tutto; il suo essere responsabile verso il proprio essere Figlio del Padre e fratello di ogni umano. Dio giusto. Gesù giusto. Anche quando la giustizia ha esigito l’apice della responsabilità e la scelta è diventata agonica e mortale (cf Lc 22, 40-46). Il compiere la giustizia, con il suo rispetto per i diritti di tutti e l’adempimento reale dei propri doveri mette, chi la compie, in rapporto con il Dio dell’alleanza e crea un autentico collegamento vitale, comunionale, di amore e non solo giuridico.

Essere educati dalla Grazia apparsa da Gesù nella carne, a vivere di “pietà/eusebôs”, anche questo è vero stile di Dio. La pietà da praticare in questo nostro mondo non è altro che la risposta a Dio che ci interpella, ci parla, ci chiama. Pensati per la responsorialità, ogni
non-risposta, ogni dismissione di responsabilità, ogni rimando di decisione o, ancora peggio, la decisione di non decidere nulla, di girare la faccia dall’altra parte e di scaricare sempre su altri e su altro, ci rende empi, non cor-rispondenti a Colui che ci ha pensato, invece, proprio per la cor-rispondenza. L’Incarnazione e la vita e la passione e la morte e la risurrezione di Gesù è l’unico, vero, pieno e autentico modo del Figlio di essere eusebôs, di avere la giusta “pietà” verso il Padre. Di offrirgli pienezza di ascolto e di dargli la giusta risposta.

Non è difficile convincerci che tutto, in questa pagina biblica proclamata nella liturgia di Natale, evoca quella novitas, quel davvero altro, quel davvero dono che imprime la differenza e crea possibilità di mutamento. Nessuno sforzo della volontà, per quanto strenuo e indefesso, sincero e costante, può sortire l’effetto sperato di ricevere il Dono insperato, insperabile e sempre incommensurabile dell’essere amati e del poter amare. Solo se mi viene incontro Qualcuno che mi fa accomodare nella sua sala più bella senza condizioni previe e dispone di regolarizzarmi nel suo stesso stato di famiglia senza l’obbligo di esibire antecedentemente certificazioni identitarie, resoconti morali e benemerenze di casta, di ruolo e di virtù, io apprendo gli stili di chi mi sta dando spazio, di chi mi fa abitare nella sua casa. Così l’umano apprende gli stili di Dio: sobrietà, giustizia, pietà. E tutto ciò che è divino, l’umano ha imprescindibile necessità di impararlo proprio per essere tale, proprio per essere umano.

Anche questo Natale, come ogni (santo) Natale fa paurosamente traballare la nostra “teologia”, quell’idea mondana che camuffa tragicamente il Dio raccontato dalle Scritture e reso visibile in Gesù di Nazaret. Ogni Natale frantuma in cuore l’idea che Dio non possa uscire dal suo paradiso e rischiare la banalità delle nostre giornate. Ogni Natale smentisce che ciascuno deve rimanere al suo posto: lui lassù, noi quaggiù.

Per la carne di Gesù, ogni Natale ci riconsegna il nome inatteso dell’Ineffabile: Dio-con-noi. Ogni Natale riafferma che il qui di Dio è ogni carne, l’altrove di Dio è ogni carne, il futuro di ogni carne è Dio stesso. Ogni Natale rievangelizza anche la nostra Chiesa: l’Onnipotente le si fa incontro nella sovrana sua impotenza di infante. E questo desideriamo annunciarci, con gioia, vicendevolmente.

Varare stili di vita cristiani significa, allora, abitare il Natale senza mai allontanarsene, in una scrizione mai interrotta della storia, della nostra storia personale e comunitaria. Anche con il sangue del dolore. Sempre con il rosso dell’amore.

È alla fine semplicemente la nostra fraternità ad essere il segno credibile e il frutto più saporito di ogni Avvento, di ogni novena, di ogni eucarestia, di tutte le celebrazioni, del Natale stesso del Signore e dell’intera vita cristiana. Di ogni cosa che porta in sé la fragranza buona e sempre saziante del noi e dell’insieme.

“Portate gli uni i pesi degli altri, e così adempite la legge di Cristo” (Gal 6,2) […] Il fardello degli uomini è stato così pesante per Dio stesso, che sotto il suo peso è dovuto andare fino alla croce. Dio ha veramente preso su di sé gli uomini, soffrendo per loro nel corpo di Gesù Cristo. E li ha portati come una madre porta il suo bambino, come un pastore la pecora perduta. Dio prese con sé gli uomini ed essi lo oppressero fino a terra, ma Dio restò con loro ed essi con Dio. Nel sopportare gli uomini, Dio è rimasto in comunione con loro.

È la legge di Cristo, che ha avuto il suo compimento sulla croce. Di questa legge i cristiani diventano partecipi: essi devono sopportare i loro fratelli, ma, ciò che è più importante, ora sono anche in grado di farlo perché la legge di Cristo si è compiuta. […] Ciò che in primo luogo costituisce un peso per il cristiano è la libertà dell’altro. Essa si oppone alla nostra tendenza a primeggiare, e tuttavia noi dobbiamo riconoscerla. Sarebbe facile evitare questo peso, violando la libertà dell’altro, imponendogli l’immagine che noi ci facciamo di lui. Dobbiamo invece lasciare che sia Dio a creare la sua immagine; così rispettiamo la libertà della creatura portando il peso che essa costituisce per noi.

La libertà del prossimo comprende ciò che definiamo come natura profonda, individualità, talenti; comprende anche le debolezze e le stravaganze che tanto esigono dalla nostra pazienza, e tutto ciò che causa tra me e l’altro discordia, contrasti e opposizioni. Portare il peso dell’altro significa dunque sopportare e accettare la sua realtà di creatura, arrivando persino a rallegrarci con essa.

Questo sarà particolarmente difficile in una comunità in cui chi è forte nella fede si trova insieme con chi è debole. Chi è debole non giudichi il forte e il forte non disprezzi il debole. Che il debole si guardi dall’orgoglio e il forte dall’indifferenza. Nessuno ricerchi i propri diritti. Se il forte cade, il debole tenga lontana dal suo cuore la gioia maligna; se è il debole a cadere, il forte lo aiuti con dolcezza a rialzarsi. L’uno ha bisogna di pazienza al pari dell’altro. “Guai a chi è solo! Quando cade non c’è nessuno che lo possa rialzare (Qo 4,10)” (D. Bonhöffer, La vita comune).

Nell’incarnazione di Gesù, Dio si è rallegrato nell’umano e per l’umano, com-patendo l’umano nell’umano e portandone, senza scene, il peso. Libero di liberamente amarne anche le sconsideratezze e le stupidità, le grettezze e le boriosità, le stravaganze e le contraffazioni, egli è diventato l’Amen definitivo del Padre per ogni carne. Che così, rifiorita, può raccontare con l’umano, il divino.

Siamo salvati perché il Figlio ha amato altro da sé, si è fatto compagno di viaggio del dissimile e ha amabilmente amato il non amabile. Siamo vivi perché il Forte non si è assiso nell’indifferenza verso il debole, il Primo tra i viventi ha scelto di non primeggiare tra noi e l’Icona non ha violato l’icona. Un amore libero ci ha liberato; una libertà gratuita ci ha gratificato e il nostro Opposto non ci ha fatto opposizione.

Sì, nel portare liberamente l’altro, noi rimaniamo in comunione con Dio! Una comunione che nessuno e nulla potrà mai spezzare. Ed è nella luce sempre nuova di questa medesima comunione che ripronuncio il vostro singolo Nome, stringo ogni mano tesa, ringrazio per ciò che siete.

Il Veniente si faccia incontro a ciascuno come Pace e a tutti come Libertà.

Pregate sempre per me. Fraternamente.

+ Padre Mauro Maria