Carne di luce: il Messaggio di Natale del Vescovo Mauro Maria

Pubblichiamo di seguito il testo integrale del Messaggio di Natale 2018 di Padre Mauro Maria Morfino, Vescovo di Alghero-Bosa. 

Carne di luce

In principio era il Verbo,
il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.

Egli era in principio presso Dio:
tutto è stato fatto per mezzo di lui,
e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste.
In lui era la vita
e la vita era la luce degli uomini;
la luce splende nelle tenebre,
ma le tenebre non l’hanno accolta.

Venne un uomo mandato da Dio
e il suo nome era Giovanni.
Egli venne come testimone
per rendere testimonianza alla luce,

perché tutti credessero per mezzo di lui.
Egli non era la luce,
ma doveva render testimonianza alla luce.

Veniva nel mondo
la luce vera,
quella che illumina ogni uomo.

Egli era nel mondo,
e il mondo fu fatto per mezzo di lui,
eppure il mondo non lo riconobbe.

Venne fra la sua gente,
ma i suoi non l’hanno accolto.
A quanti però l’hanno accolto,
ha dato potere di diventare figli di Dio:
a quelli che credono nel suo nome,
i quali non da sangue,
né da volere di carne,
né da volere di uomo,
ma da Dio sono stati generati.

E il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi;
e noi vedemmo la sua gloria,
gloria come di unigenito dal Padre,
pieno di grazia e di verità.
Giovanni gli rende testimonianza
e grida: «Ecco l’uomo di cui io dissi:
Colui che viene dopo di me
mi è passato avanti,
perché era prima di me».
Dalla sua pienezza
noi tutti abbiamo ricevuto
e grazia su grazia.
Perché la legge fu data per mezzo di Mosè,
la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.
Dio nessuno l’ha mai visto:
proprio il Figlio unigenito,
che è nel seno del Padre,
lui lo ha rivelato.

Santissima pazienza

Nel giorno del Natale del Signore, la comunità cristiana raccolta in preghiera per l’Eucarestia, è pervasa dalla luminosità quasi abbagliante del Prologo del Vangelo secondo Giovanni (Gv 1,1-18), la cui incandescenza “penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore” (Eb 4,12).

La prima pagina del quarto Vangelo è un’esplosione innica che canta l’opera di Dio nell’universo: da quell’in-principio/en-arché della creazione fino al suo rendersi presente nel mondo attraverso la sua Parola/Lógos che si fa Carne/Sárx umana, proprio umana, tutta umana, incredibilmente umana.

In una assemblea liturgica, in piedi e gioiosamente tesi verso l’ambone – da dove si proclama la Buona notizia di questo divino, inesauribile incipit, offrendole l’obbedienza della fede – veniamo come avvinti e domiciliati in quell’habitat dove eternità e storia, spazio (infinitesimale!) dell’umano e non-spazio (incommensurabile!) di Dio, si incontrano, si toccano, si adattano. Si com-prendono. E lì, proprio lì, in questo ravvicinamento donato e non estorto, nell’altrimenti incomponibile incontro tra eterno e tempo, tra Dio e uomo, tra finito e infinito, che tutto ciò prende volto. Il volto di Gesù, Cristo e Signore. L’assemblea che ascolta viene come immersa in una cascata di indicatori luminosi che additano ciò che Dio ha privilegiato e scelto per entrare nella storia: la carne umana. Prendere volto, sguardo, espressione, cuore, mani e piedi. Carne. Gesù di Nazareth, vero Dio e vero Uomo, tutto Dio e tutto Uomo.

Il Prologo ci colloca in quell’ “in-principio” che ci strappa dalla transitorietà e ci fa coevi dell’Eterno, cittadini dell’Oltre, spalancandoci una feritoia attraverso cui possiamo intravedere il sorriso di Dio e ascoltarne lo stesso battito del cuore. E i valori pressori del cuore di Dio, che il Prologo ci dà grazia di auscultare, ci consegnano un tracciato che fa bene al nostro cuore: la frequenza cardiaca ritmata dalla persistente compassione; il tessuto del miocardio insanabilmente comunionale; l’irriducibile vasocostrizione dell’arroganza e la totale, irrimediabile vasodilatazione della pazienza. Santissima pazienza. È solo accorgendoci di questa smodata pazienza che riusciamo a leggere la storia umana non come l’inconfutabile storia dei “fallimenti di Dio”, ma come la storia della sua eccedente e sproporzionata pazienza, di quell’amore che è tale perché sa attendere. Se innumerevoli sono i tentativi di dialogo accesi da Dio con l’umano, altrettante sono le disconnessioni sul nostro versante. Tuttavia se l’umano appare disinteressato a poggiare l’orecchio sul cuore di Dio, su ciò che vi abita e su ciò che lo spinge alla fedeltà, all’incontro e alla prossimità, alla tenerezza, Dio non muta il suo cuore davanti alle resistenze umane. Davvero santissima pazienza!

È da questo cuore che fuoriesce quel Verbo che dà vita alla vita: “Tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste” (Gv 1,3). E il Verbo tutto pervade. E lo fa schiodandosi dall’anonimato e schiodando così ogni cosa dall’anonimato. E proprio perché non più anonima, questa Parola, una volta pronunciata, non si riconsegna al suo impenetrabile silenzio: nomina, crea dialogo, si ri-volge ad altro-da-sé, attende risposta, invoca comunione. E l’umano, ogni umano, diventa – in questo modo – l’insostituibile sua metà.

Il Prologo è il racconto dell’Emmanuele, del Dio-con-noi che in Gesù il nazareno si disvela come Colui che, fin dall’ “in-principio”, condivide il faticoso viaggio dell’uomo, tappa dopo tappa, non smarcandosi né latitando neppure davanti alla disastrosa tappa che è la morte. Anzi, sarà proprio nell’abisso indecifrabile della morte in croce di Gesù, nel fallimento dei fallimenti, che Dio è smascherato: lì apprendiamo l’inconfondibile tracciato del cuore di Dio, ne scopriamo i tratti, ne impariamo lo stile. “Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv 1,18). È solo l’inequivocabile ma non sfrontata gloria di Dio che rifulge nel Figlio Crocifisso, “pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14), che ci riposiziona senza fine in quell’ “in-principio” che è il cuore di Dio. Da qui ogni carne umana, ormai liberata dalla paura, riprende il dialogo con Dio, inizia a dargli del tu e assapora tra le labbra quel vocabolo di inaudita tenerezza – esclusivo dell’Unigenito! -: Papà.

«Quale stupore mi invade! Quale grandezza dei doni di Dio! Abbandonando, nella sua grande e ineffabile bontà, ciò che nel mondo è saggio, forte e ricco, Dio ha scelto ciò che è debole, insensato e povero […] Fra gli uomini, pressoché tutti rigettano quasi con disgusto i deboli, i poveri: un re terrestre non ne sopporta la vista, i grandi li schivano, i ricchi li guardano dall’alto in basso; quando li incontrano camminano discostandosene, fingendo che non esistano; nessuno invidia la loro compagnia […] Ma Dio al cui servizio stanno innumerevoli potenze, che tutto sostiene con la potenza della sua parola e di cui nessuno può sopportare la maestà, si è fatto padre, amico, fratello di questi reietti. Anzi ha voluto prendere carne per divenire nostro simile in tutto, eccetto che nel peccato, e renderci partecipi della sua gloria e del suo regno» (Simone il Nuovo Teologo, Cat. II).

 

Attendamento nella carne

 E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi (Gv 1,14). Nella carne del Verbo avvengono i veri, solenni, definitivi sponsali di Dio con la creazione: egli fuoriesce dal seno del Padre e sconfina nel tempo attendandosi nella carne. In questa skené/tenda diventa adam tratto dalla adamah, terrestre tratto dalla terra e dà voce al Padre: “Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo. Questo Figlio, che è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza e sostiene tutto con la potenza della sua parola, dopo aver compiuto la purificazione dei peccati si è assiso alla destra della maestà nell’alto dei cieli, ed è diventato tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato” (Eb 1,1-4). Il Verbo che era fuori del tempo si è fatto frangibile e mortale, un uomo “nato da donna” (Gal 4,4), che si poteva vedere, ascoltare, toccare (cf 1Gv 1,1) e perfino uccidere. Certo è che dal «concepimento di Gesù nell’utero di Maria, Dio è un uomo e un uomo è Dio! Così avviene l’ammirabile scambio (“O admirabile commercium”, come canta un antico testo liturgico); così è avvenuta la rivelazione totale del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe nella nostra carne; così Dio si è donato a noi, si è dato all’umanità, si è unito alla creazione, perché l’aveva creata per amore, un amore mai venuto meno, ma sempre rinnovato in tutta la storia. E la vita di Gesù […] sarà l’esplicitazione di ciò che è annunciato qui nel Prologo: Gesù è la vita del mondo (cf Gv 11,25), è “la luce del mondo” (Gv 8,12),
è il racconto, la rivelazione del Dio che nessuno ha mai visto, come il Prologo si conclude» (E. Bianchi).

E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi (Gv 1,14). La predilezione di Dio per la carne ci sconcerta. Sempre. Dio vestito di carne! Una “mise” inappropriata, imprevista e quasi inquietante. Un “ibrido” che se ci avesse visti ideatori del progetto, avremmo diligentemente eluso ed escluso perché meticciato premonitore di troppi imbarazzi… Vi scrivevo qualche anno fa, in questa medesima occasione, che Gesù che appare nella carne è la nitida firma del Padre che sancisce, per tutti e per ciascuno, che Colui che lo invia, proprio in lui, nel Figlio, ama solo e ama sempre: sovrabbondantemente, esageratamente, eccessivamente, sproporzionatamente. Ancora dobbiamo registrare, purtroppo, che le distinzioni e le classifiche che prolificano dal versante umano sull’altro, non hanno varco attivo…

E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi (Gv 1,14). Come l’evangelista, anche noi osiamo immergere il nostro sguardo nell’eternità, in quel non-spazio impraticabile per noi umani, forti solo della nostra fragilità e ricchi della brevità dei nostri giorni. Eppure proprio lì sconfina il nostro sguardo, lì dove: “il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”, lì dove si spalanca per noi l’amabile abisso del mistero dell’umiltà di Dio. Dio umile che predilige la precarietà instabile della carne umana, la sua provvisorietà fugace e la sua ineloquenza e se ne riveste coniugando la carne perché ancora e ancora nasconda e palesi in essa la sua parola creatrice, la sua parola di amore. Dio umile che in Gesù impara dalla carne il linguaggio della carne, per riuscire a confidare alla carne il linguaggio dello Spirito. Dio umile che, nel più che feriale trentennio dell’anonima carpenteria nazaretana,  apprende ad essere uomo.

E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi (Gv 1,14). È il più inconcepibile dei movimenti: Dio, con la sua Parola eterna e creatrice, residente fuori del tempo, tutta rivolta verso Dio e, di più, sua Parola, che decide di travalicare e di esternarsi per condividere la sfacchinata imprevedibile e la finitezza non troppo entusiasmante di ciò che noi chiamiamo “vita”, ci suona inconcepibile. Quell’ac-con-discendenza, che nella carne di Gesù ci consegna lo stile di Dio, ci scandalizza e ci irrita. Possibile che Dio sia un Dio che si deporta da se stesso per rimpatriare proscritti non amabili e indomabili riottosi? Che Dio sia un Dio che nulla architetta per non dimostrarsi mortale in Gesù? Quanto invece, da “credenti miscredenti”, abbiamo architettato (e continuiamo imperterriti ad architettare) pensieri e atteggiamenti per occultare, o camuffare, o contraffare l’umanità vera e reale di Gesù Cristo! Ancora oggi, con la parresìa che ci viene dallo Spirito, confessiamo che Gesù è venuto nella carne e con il sangue (cf 1Gv 5,6-8), è venuto “imparando l’obbedienza dalle cose che patì” (cf Eb 5,8), è venuto come il prototipo dell’uomo: Ecce homo! (Gv 19,5). «Potremmo parafrasare le parole dell’Apostolo Paolo (cf 1Cor 1,22-24): “Mentre i giudei cercano manifestazioni di un Dio onnipotente e le genti manifestazioni di Dio nei ragionamenti intellettuali, noi predichiamo che Dio è umano, umanissimo, è un Dio che si è fatto vedere in Gesù, uomo mortale, ma capace di dare la vita per gli altri (cf Gv 10,10; 15,13), uomo fragile e limitato ma capace di vincere le forze del male. Un uomo che è nato dall’utero di una madre, che si è fatto peccato assimilandosi ai peccatori (cf 2Cor 5,21), morto come uno schiavo e un malfattore, sepolto nella terra, disceso agli inferi tra i morti, come ogni figlio di adam: dunque un Dio che si è sprofondato nella creazione, come avviene per ogni umano che viene al mondo, vive e muore. D’altra parte, Gesù è stato un uomo unico nell’amare gli altri, nel dare se stesso agli altri, nello stare dalla nostra parte davanti a Dio: questa la sua unicità umana così affascinante e, potremmo dire, così divina…» (Idem). Eppure, contemplare l’umanità di Gesù Cristo senza rifuggire di fissare i nostri occhi sul suo volto, resta l’unica via di accesso per celebrare l’incarnazione del Verbo. È in questo santo mistero che lo sguardo credente rintraccia l’indissolubile legame nell’unica persona di Gesù: quello tra Dio e l’umano. È solo l’uomo Gesù che è Dio fattosi carne, a rivelarci il Padre, a “spiegarcelo”, a darne la vera e unica esegesi possibile (proprio il termine exeghésato è impegnato in Gv 1,18). La persona e la parola di Gesù ci hanno raccontato compiutamente chi è Dio: amore (cf 1Gv 4,8.16). Quando noi, donne e uomini, intessiamo la vita con i sentimenti del Figlio e scegliamo per noi e tra noi i suoi stili e i suoi gusti, noi, così, siamo figli di Dio. Anche quest’anno, il mistero dell’incarnazione ci ricorda che il sogno di Dio sull’umanità è un sogno già realizzato in Gesù e che ognuno di noi, in quel sogno, scopre la sua più intima e irrinunciabile verità.

 

E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi (Gv 1,14).

«Venne nella forma di servo il Signore di tutte le cose, rivestito di povertà, perché la preda, intimorita, non gli sfuggisse. Scelto per nascere l’incertezza di un campo indifeso, è partorito da una vergine povera, nella povertà più assoluta, perché, nel silenzio, potesse andare a caccia degli uomini per salvarli.

Se fosse nato nello splendore e si fosse circondato di grandi ricchezze, gli increduli avrebbero detto che l’abbondanza di ricchezze aveva operato la trasformazione della terra.

Se avesse scelto Roma, la città allora più potente, avrebbero creduto che la potenza di essa aveva cambiato il mondo.

Se fosse stato figlio di un legislatore lo avrebbero attribuito ai suoi ordinamenti.

Cosa fa invece? Sceglie tutto ciò che è povero e senza alcun valore, modesto e oscuro ai più, perché fosse chiaro che solo la Divinità ha trasformato il mondo. Proprio per questo sceglie una madre povera, una patria ancor più povera e lui stesso si fa poverissimo.

Questo ti dice il presepe: non essendoci un letto in cui possa essere adagiato, il Signore è posto in una mangiatoia e l’indigenza delle cose più indispensabili diviene la prova più credibile delle precedenti profezie.

Fu posto in una mangiatoia per indicare che veniva espressamente per essere cibo, offerto a tutti, senza eccezione. Il Verbo, Figlio di Dio, scegliendo la povertà e giacendo in una mangiatoia, trae a sé ricchi e poveri, colti e incolti.

Vedi dunque come l’indigenza di ogni cosa ha adempiuto le profezie e la povertà ha reso accessibile a tutti Colui che, per noi, si fece povero. Nessuno rimase intimorito dinanzi alle grandiose ricchezze di Cristo, nessuno si arrestò dinanzi alla potenza del suo dominio: egli apparve uomo come tutti gli altri e, povero, offrì se stesso per la salvezza di tutti.

Per mezzo dell’umanità assunta, il Verbo di Dio si mostra in una mangiatoia, perché a tutti gli esseri ragionevoli e irragionevoli fosse aperta la possibilità di partecipare al cibo della salvezza…

Ma chi era colui che arricchiva? E chi arricchiva? E in che modo si fece povero per noi? Chi dunque pur essendo ricco, si fece povero per riguardo alla mia povertà? Colui che apparve uomo? Ma questi non diventò mai ricco: nato da stirpe povera rimase sempre povero. Come dunque era ricco e chi arricchiva colui che per noi si fece povero?

Dio arricchisce la creatura. È dunque Dio che si fece povero, assumendo la povertà della creatura umana attraverso la quale si manifestava: ricco della sua divinità, si fece povero con l’assumere la nostra umanità». (Teodoto di Ancira, Discorso nel giorno della Natività del Salvatore).

 

Cifra che decifra

“Tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste” (Gv 1,3);Il Verbo del Padre, Gesù Cristo, è il principio vitale inscritto “in tutte le cose”. Egli è la Parola che ha creato ogni realtà e ogni umano. Ciò vuol dire che Lui è il segreto della vita di ogni creatura, il segreto delle personali e comunitarie situazioni di vita, il cammino stesso della Chiesa. È la chiave di volta della storia delle vicende di ogni realtà e in ogni tempo. È la cifra che decifra il mistero che ognuno di noi è, quell’unica Parola capace di svelare all’umano la sua vera identità, rendendolo cosciente della sua provenienza, del suo esserci qui e ora, del come esserci, del suo perché, del proprio fine. È l’unica possibilità di imparare la valenza della nostra unicità e irripetibilità, della nostra insostituibilità e indispensabilità, delle nostre inconsistenze e delle cose prodigiose (cf Sl 51,7 e Sl 138,14) di cui tanto spesso siamo vettori incoscienti. Possiamo essere possessori della più straripante delle casseforti, ma senza la combinazione, senza la cifra segreta ed indispensabile, non si può accedere al tesoro, non se ne può fruire, non se ne può godere.

Che festa può esserci senza godere a piene mani della ricchezza che sono e che possiedo?

È nell’incontro con Gesù che in ciascuno di noi si compie quello che è il più pungente desiderio che preme nel cuore di ogni creatura, quella “cicatrice del divino” che mai si rimargina: essere veri ed essere liberi – “Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (cf Gv 8,31-32). La verità è la vita di Dio in quanto pienezza di amore che Dio desidera condividere con l’umano. Questa verità è data e detta nel Figlio. Perciò l’incontro nella fede con lui apre alla conoscenza della verità, quella di Dio, quella di se stessi, quella dell’altro. La libertà di cui parla Gesù ha una connotazione ben chiara: è libertà riguardo alla menzogna e alla morte (cf Gv 8,24.51) ed è dilatazione del cuore a vivere “in pienezza” (cf Gv 10,10) nella comunione del Figlio e del Padre (cf Gv 17,3). La stessa venuta di Gesù nello Spirito ha come scopo la proclamazione della liberazione ai prigionieri (cf Lc 4,16-30), il restituire loro dignità, una dignità che può permanere solo con lo stabilirsi saldamente nella libertà offerta dal Figlio: “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi” (Gal 5,1). L’umano, in questa visuale di dono ricevuto ma che mai automaticamente si mantiene, è spinto così a “liberare la propria libertà” dalle false libertà che così fatalmente degenerano in schiavitù. Essere liberi è, allora, esser capaci di assumere le proprie responsabilità per rimanere nella libertà. La libertà dataci da Gesù è quella di non peccare. Dunque liberi da ma soprattutto, liberi per. Liberi per impegnarsi verso i valori che devono essere realizzati, verso i compiti che devono essere condotti a termine, verso le persone da amare, verso la vita da intessere con altri e renderla un capolavoro.

Che festa può esserci senza approdare alla verità e senza libertà?

Se riflettendo sull’umano giungiamo ad affermare serenamente che la mia personale identità non risiede solo e tutta in me, ma è inscritta e rintracciabile anche nelle relazioni che vivo, allora, da cristiani, confessiamo che nella nostra relazione con la persona di Gesù Cristo, Verbo del Padre, scorgiamo la fonte del nostro senso, la cifra del nostro mistero, il Tu che permette all’Io, a me, a noi, di essere, di vivere e di amare.

Che festa può esserci quando non so di Dio, non so dell’altro, non so di me?

«È precludersi non solo la possibilità di decifrare, di comprendere, di perdonare, di accogliere, di amare, ma anche di decifrarsi, di comprendersi, di perdonarsi, di accogliersi, di amarsi. La possibilità, da credenti, di accedere a sé e di darsi con amore per qualcosa, per qualcuno. Da credenti, quando ci distanziamo dalla Parola o non coltiviamo più una reale familiarità con essa, in noi e con gli altri, si rivive l’angosciante esperienza dell’anonimato e quella, non meno tragica, di Babele. Anche nella nostra Chiesa percepisco l’indispensabilità di comunicarci tra noi anzitutto il mutuo dono della Parola: “La parola di Cristo dimori tra voi abbondantemente” (Col 3,16). La comunione esige questa comunicazione. È con la Parola e nella Parola che una comunità diventa credente e solo così ci si co-edifica vicendevolmente nella fede. Quando salvaguardiamo e promuoviamo in noi e nei fratelli il rapporto assiduo e familiare con la Parola, edifichiamo sempre su un basamento incrollabile: “Chiunque  ascolta queste mie parole e le mette in pratica, è simile ad un uomo saggio che ha costruito la casa sulla roccia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa non cadde perché era fondata sulla roccia” (Mt 7,24-25). Ma tale salvaguardia e promozione è anche difendere l’umano, l’autenticità delle sue relazioni, gli spazi della sua espressività, i suoi mai sazi orizzonti di senso» (M.M.Morfino, “La fede viene dall’ascolto” (Rm 10,17). Obbedire alla Parola per crescere nella fede, Alghero 2012).

Che festa può esserci per noi cristiani quando continuiamo ad evadere – Natale compreso – l’incontro con la Parola del Padre, attraverso cui “tutto è stato fatto”?

 

Auguri scomodi

Pensavo a come, anche tra noi che ci identifichiamo cristiani – vale a dire di Cristo, cioè suoi – si vive la festa del Natale.

Ma la festa del Natale è accessibile solo attraverso la fede: quella di Maria nell’Annunciazione e quando custodiva e meditava nel suo cuore il ricordo degli avvenimenti; quella dei pastori che accorrono colmi di stupore per vedere ciò che è accaduto ed è stato loro rivelato; la fede di Giuseppe giusto che fa la cosa giusta, fidandosi della spiegazione ricevuta; la fede dei Magi che preferiscono dare credito alle brillanti stelle del cielo piuttosto che a quella opaca stella che sedeva in trono a Gerusalemme, Erode il Grande.

Chi non accoglie nella fede la nascita del Figlio di Dio, della sua Parola-per-me, che fissa un inizio inedito della storia umana, dando vita ad un prodigioso evento creativo, perché nasce una nuova umanità intrisa della misteriosa Presenza divina, non può far festa. Non riesce a far festa. Non ha alcun motivo di fare vera festa. Non esiste forzatura più forzata di questa: far festa senza festeggiato. Che festa può esserci quando la festa stessa diventa nauseante e insulsa perché non si sa chi sia il festeggiato o se n’è scordata l’identità?

Chiunque non abbia fede o non abbia accolto la testimonianza dei Vangeli e tramandata dopo l’incontro con il Risorto, può solo sorridere di questi eventi, o leggerli come l’infantile favola di Gesù Bambino (favola, preferibilmente, da non raccontarsi neppure ai piccini). Se il Natale non attinge più il suo significato dall’autentico annuncio evangelico non può più essere motivo di festa; si imbarbarisce, si mondanizza, tramutandosi allora, e per davvero, in leggenda. In altro dal Natale del Signore Gesù.

Molti tra noi “cristiani”, non avendo come Maria “meditato dentro di sé” i fatti accaduti alla luce della Parola annunciata da Gesù e confermata dalla sua morte e risurrezione, non riescono a vivere il Natale come festa, come nuova Presenza di Dio nelle proprie vicende di vita, Presenza capace di dare una spinta decisiva e positiva al peregrinare nei sentieri del tempo. Perciò, l’unico assente è Colui di cui si festeggia la nascita, Gesù Cristo.

Che festa può esserci quando non riesce più a sfiorarci lo sconcerto per l’interscambio pacifico (!) tra gli “attesi”: che sia Babbo Natale con la quadriga delle sue renne o la Parola unica e ultima del Padre per un’umanità sfinita che attende altro dai pacchetti scintillanti, cosa cambia?

Che festa può esserci quando i doni scambiati sono diventati un’abitudine così ripetitiva, corrosa e sfilacciata – condita dalla sottile ansia dicembrina di non saper più cosa regalare e a chi! – perché ormai abbiam perso la memoria sorgiva di quel primo dono, vero dono, unico dono che è lo Shalom, Pace e Salvezza che ci può giungere solo dall’Alto?

Che festa può esserci quando i simboli della festa sono totalmente slegati da Colui che i simboli simboleggiano, richiamano, indicano, invocano? Altro che festa: è fonte piuttosto di non poca tristezza vedere come la commercializzazione globale, impegna, usa e abusa, stravolge e capovolge i simboli e i segni del Natale, svuotandoli, prosciugandone il senso primo e vero e servendosene per incentivare vendite di prodotti di consumo. Festa?

Che festa può esserci quando ciò che tanto ci avvolge è solo un ingenuo pietismo dove il nostro animo si increspa per le tradizionali, struggenti nenie, evocative dei bei tempi che furono e di un buonismo che, proprio cronologicamente, dura da Natale a Santo Stefano?

Che festa può esserci quando cuori e porte restano sigillati a coloro a cui la vita ha imbandito un banchetto dove l’unica portata è la povertà (abbondante!), condita con la spezia (amara) della solitudine e servita sul vassoio (fragilissimo) dell’incertezza?

Che festa può esserci quando, scambiandoci gli auguri di “buon Natale”, alludiamo in realtà a vacanze fuoriporta, a banchetti scassafegato, a tours esotici… È vero, i “ponti” si moltiplicano e prolungano la sospensione dal lavoro: più ferie ma più festa? Ma un “buon Natale” ci sarà se si compie l’accoglienza di Gesù Cristo, la sua persona e i suoi stili di vita.

Che festa può esserci quando l’orizzonte della vita è il proprio ombelico, i propri pallini, le proprie pretese e la trama dei giorni si accartoccia su se stessa in un esasperante, tragico autoavvitamento neppure per caso scalfito dall’ad-ventus del Signore nel suo Natale?

Sigillo questi miei auguri affettuosi, per tutti e per ciascuno, con le parole del Servo di Dio Tonino Bello, vescovo. Le faccio mie. Vi invito a farle vostre, così che diventino nostre, terreno comune, visione condivisa, prassi ecclesiale, patto fecondo:

«Non obbedirei al mio dovere di Vescovo, se vi dicessi “Buon Natale” senza darvi disturbo… Tanti auguri scomodi allora!

Gesù che nasce per amore vi dia la nausea di una vita egoistica, assurda, senza spinte verticali. E vi conceda la forza di inventarvi un’esistenza carica di donazione, di preghiera, di silenzio, di coraggio.

Il Bambino che dorme sulla paglia vi tolga il sonno e faccia sentire il guanciale del vostro letto duro come un macigno, finché non avrete dato ospitalità ad uno sfrattato, ad un marocchino, ad un povero di passaggio.

Dio che diventa uomo vi faccia sentire dei vermi ogni volta che la carriera diventa idolo della vostra vita; il sorpasso, progetto dei vostri giorni; la schiena del prossimo, strumento delle vostre scalate.

Maria che trova solo nello sterco degli animali la culla dove deporvi con tenerezza il frutto del suo grembo, vi costringa con i suoi occhi feriti a sospendere lo struggimento delle vostre nenie natalizie, finché la vostra coscienza ipocrita accetterà che lo sterco degli uomini o il bidone della spazzatura o l’inceneritore di una clinica diventino tomba senza croce di una vita soppressa.

Giuseppe, che nell’affronto di mille porte chiuse è simbolo di tutte le delusioni paterne, disturbi le sbornie dei vostri cenoni, rimproveri i tenori delle vostre tombolate, provochi cortocircuiti allo spreco delle vostre luminarie, fino a quando non vi lascerete mettere in crisi dalla sofferenza di tanti genitori che versano lacrime segrete per i loro figli senza fortuna, senza salute, senza lavoro…

I poveri che accorrono alla grotta, mentre i potenti tramano nell’oscurità e la città dorme nell’indifferenza, vi facciano capire che se anche voi volete vedere “una grande luce”, dovete partire dagli ultimi…

I pastori che vegliano nella notte, “facendo la guardia al gregge” e scrutando l’aurora, vi diano il senso della storia, l’ebbrezza dell’attesa, il gaudio dell’abbandono in Dio. Vi ispirino un desiderio profondo di vivere da poveri; che poi è l’unico modo per morire ricchi.

Sul nostro vecchio mondo che muore, nasca la speranza».

 

Un cristiano Buon Natale!

 

 

+ padre Mauro Maria Morfino
vescovo di Alghero-Bosa