Luminoso Natale ‘apocalittico’: il Messaggio di Avvento-Natale del Vescovo Padre Mauro Maria

Luminoso Natale ‘apocalittico’

Messaggio di Avvento-Natale del Vescovo Mauro Maria Morfino

Questo Natale del Signore 2020 è incastonato in un vero, denso, inimmaginabile tempo apocalittico. Intendo il termine apocalisse precisamente nella sua accezione letterale: apōkalýpsis come rivelazione, disvelamento, caduta di maschere, risoluzione di ambiguità, decifrazione di simboli, superamento della mimetizzazione, possibilità di nitida visione. Le tante – e quanto variegate – situazioni contraddittorie culturali, esistenziali, relazionali, sociali, spirituali, sanitarie, economiche, politiche, ecclesiali, pastorali e comunitarie, impietosamente evidenziate dalla pandemia di COVID-19, sono sotto gli occhi di tutti. Nessuno può più dichiararsi ignaro. Neppure ai più indulgenti o distratti, neppure ai più invischiati o ammanicati, neppure ai più negazionisti o conniventi, è possibile sminuire la portata apocalittica, vale a dire rivelatoria, che questo flagello ci costringe a guardare in faccia.

E questo Natale apocalittico, appunto, nulla perde della sua luminosità perché anche questo tempo, per noi credenti, è tempo abitato da Dio:

“È apparsa infatti la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini e ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà, nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo. Egli ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formare per sé un popolo puro che gli appartenga, pieno di zelo per le opere buone (Tito 2,11-14)”.

E’ con queste parole sante e grondanti luce, che squarciano il nostro intimorito e accartocciato orizzonte, che indicano l’inattesa possibilità di essere avvolti e interiormente con-vinti dall’eccedenza dell’amore di Dio disvelata in Gesù – Lui la Grazia –, parole anche gravide di scelte che non si possono più procrastinare e di responsabilità da non più delegare, che vi raggiungo tutti e ciascuno, ognuno lì dove si tesse il filo dei giorni, lì dove scorre il fluire quieto e tumultuoso della vita, lì dove tentiamo di umanizzare, insieme ai compagni e alle compagne di viaggio che il Signore ci dona, quella manciata di anni che, inanellati l’uno all’altro, fanno il mistero affascinante e tremendo della nostra vita vissuta nella carne.

La “grazia di Dio”, quella benevolenza eccedente e non preventivabile, immeritata e interamente gratis data, è capace di raggiungere “tutti gli uomini”. Tutti. E’ questa l’inconfondibile, dolcissima carezza di Dio che – solo! – può prendersi il lusso, proprio perché eccedenza di Amore, di non privilegiare categoria alcuna e di “non fare preferenze tra persone” (cf At 10,1-14; 33-44; Mt 5,45; Lc 15,11ss…). Gesù, che appare nella carne, è la nitida firma del Padre che sancisce per tutti e per ciascuno come Colui che lo invia, proprio in Lui, nel Figlio, ama solo e sempre sovrabbondantemente, esageratamente, eccessivamente, sproporzionatamente.

Nella santa notte, diventata, così, tenebra incandescente per il dono della Parola e per il Corpo santo del Signore, la Comunità cristiana viene rievangelizzata: la cercata prossimità del Padre, nel Figlio, “è apparsa/epepháne”: è un bene che non appartiene al mondo degli uomini e investe – tutti! –  con la sola forza della gratuità. Non è frutto di ricerca. Non è legata al merito. Non prevede possessi esclusivi ed escludenti.

Pervasi, allora, gratuitamente dalla Grazia, è lecito sperare cambiamento. E’ doveroso sognare altre movenze di vita. E’ certa sensatezza altra nell’intrico dei giorni. Perché? La Grazia apparsa, che si dice nella carne di Gesù di Nazaret, Maestro e Signore, svolge, per ogni umano, il servizio più necessario, anzi quello indispensabile perché scorra la vita, perché possa permanere l’umano vero e che questo giunga alla sua piena fioritura, senza contraffazioni.

Credo che questo Natale in tempo virale, possa essere un tempo benedetto e opportuno di cambiamento, di conversione, di rivisitazione saggia e responsabile di quegli stili di vita che non danno più vita alla vita, che impediscono lo scorrere della gioia, del sapore e del senso. Intimamente, tutti, ne sentiamo la necessità e l’urgenza. Si vive se si cambia. Si vive se si dismettono abitudini logore e logoranti, maquillage esistenziali, contraffazioni relazionali, letali miscele affettive. Si vive se si dà vita ad altri, se ci ri-conosciamo figli dello stesso Padre e fratelli tra noi.

Vogliamo accogliere la luminosità di questo Natale apocalittico a partire, ancora e sempre, dalla contemplazione dell’irruzione dell’amore irragionevole e gratuito di Dio, quel Padre sempre che, nella Quaresima passata, in piena emergenza COVID-19, ci ha permesso di riconoscerci, tutti, sempre figli.

Certo, tutto possiamo rinfacciare a questo tempo avaro di vita, di tutto possiamo accusarlo, infinite atrocità possiamo addebitargli, ma non possiamo non riconoscere la sua rara ed eclatante eloquenza. Un tempo crudamente rivelativo. Esattamente apocalittico.

Tempo da abitare per apprenderne toni, richieste, reclami e – beato chi ci riesce! – il non-detto.

Tempo spigoloso e aguzzo, ma che ci viene incontro come affidabile suggeritore per far memoria delle battute fondamentali della vita. Quelle umane. Quelle battute di cui, in momenti come questo, sentiamo necessità e nostalgia.

Tempo che, tragicamente, potrebbe rieditarsi e ancora impazzare nelle vite e nelle storie di coloro che lo hanno semplicemente maledetto e demonizzato, senza, tuttavia, ascoltarlo.

Sì, come direbbe Papa Francesco, “peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla”. Questo Santo Natale 2020, ancor più luminoso, forse, proprio perché ‘apocalittico’, come cristiani vorremmo proprio non sprecare.

 

Tra noi

In questi dieci anni passati come vescovo di questa santa Chiesa, proprio in questo stesso tempo e attraverso questo stesso mezzo, ho tentato con voi e per voi, di cogliere, dalle divine Scritture, tutti quei segni di fragilità scelti da Dio per dirsi e per darsi a noi, senza equivoci, senza fraintendimenti. Segni scelti per raccontarci l’incondizionata gratuità del suo venire verso di noi, per essere Dio-con-noi. Segni di una fragilità eletta, voluta, attuata e decisamente orientata ad abitare la storia e a sottomettersi a tutti gli inevitabili “inconvenienti” di chi la abita: la carne; le fasce; la stalla; la mangiatoia; i pastori; la stranierità; la povertà; il censimento; il rifiuto; il viaggio; la fuga…

Ma non possiamo nascondercelo: anche tra noi cristiani, la fragilità scelta da Dio non è poi così apprezzata: quando si tratta di preferire, nelle scelte grandi o piccole della vita, gli stili fragili al posto degli stili mondani – appariscenti, roboanti, impositivi – per “natura” o per abitudine (o forse, più realisticamente, perché li sentiamo più sicuri e vincenti), volentieri optiamo per i secondi.

In questo Natale ancora pervaso dalla virulenza della viralità, tutti quei preziosissimi e santissimi tasselli del volto umano di Dio in Gesù, trapuntati di fragilità, ci spingono, ancora una volta, ad eleggere anche per noi, per le nostre comunità, questa modalità cristiana di decifrare la storia e di abitarla.

Sarà il sentirci fragili tra fragili, alla fine, ad abilitarci a riscoprire gli altri come fratelli e sorelle e Dio come Padre. Non ci sono altre possibilità. Augurarci vicendevolmente di eleggere per noi, decisamente, gli stili fragili di Dio, in questo tempo, mi pare un augurio davvero cristiano perché veramente umano!

Qualcuno, quest’anno, potrebbe rimanere (forse) meravigliato leggendo queste mie righe di augurio e avendo nella memoria quelle degli anni passati. Il motivo è semplice: i segni della fragilità, il dolore, la malattia e la morte, per COVID-19, sono giunti e sono ancora tra noi. Tra gli oltre 1,52 milioni di morti e 66 milioni di contagiati – numeri ogni giorno in lievitazione – ci sono persone a noi care. Tra i 42,4 milioni di guariti, tanti nostri amici e amiche si stanno riaffacciando alla vita timorosi, indeboliti o irreversibilmente segnati dall’uragano che li ha travolti. Tra i miliardi di persone esposte agli effetti economico-sociali della pandemia, ci siamo anche noi.

Non posso, non voglio, non devo glissare su tale nostrano dolore umano.

Non mi pare inutile ripetere ciò che, da più parti e a mo’ di ritornello, ascoltiamo: stiamo vivendo una condizione nuova, inedita; c’è confusione nei cuori e nella mente; ci attanaglia la paura dell’oggi e il timore per domani; ci stordisce il forte disorientamento che ci costringe ad emigrare dalla nostra realtà ben nota e familiare ad un’altra ignota, inattesa e destabilizzante. I parametri inossidabili, che reggevano baldanzosamente scelte e stili, paiono essersi sbriciolati e, comunque, non più validi né sicuri. Pare essere saltata quella sicurezza regale nei riguardi della propria vita, degli altri, del mondo, della natura, che sembrava ormai corredo intangibile fino all’affacciarsi del virus… coronato (quello sì!). Ci siamo scoperti molto più fragili di quanto pensassimo di essere. E questo, francamente, lo colgo come un guadagno in umanità di inestimabile valore! “La fragilità umana è portatrice di riflessione e può regalarci un diverso punto di vista sulla vita: riconoscerla ci permette di comprendere l’esistenza di una prospettiva più sana e ci apre alla capacità di trasformazione. L’apparente solidità precedente alla pandemia era il grande autoinganno secondo cui tutto si tiene, tutto è comprensibile, tutto è al suo posto; e se non lo è, saremo sicuramente capaci di riparare. Ma ricomporre i frantumi della fragile realtà richiede pazienza ed impegno, non certezza” (B. Carucci Viterbi).

La testimonianza e le parole di un medico degli Spedali Civili di Brescia, specialista di malattie infettive, alla chiusura del suo reparto dopo quel terremoto che è stato il primo lockdown, induce a seria riflessione: “Ci siamo ripetuti che ne saremmo usciti diversi, cambiati, migliori. Forse in parte è stato così, ma l’impressione ultima è che non siamo più in grado di ammetterci impotenti di fronte a qualcosa. Non siamo abituati all’idea che esistano eventi capaci di sfuggire al nostro controllo, terrorizzati come siamo dal vederci privati della nostra ‘normalità’, del riconoscerci fragili e fallibili. Se le cose vanno male la colpa deve essere per forza di qualcuno e la soluzione non può che essere a portata di mano; eppure basterebbe spingere un po’ più in là lo sguardo per accorgersi di quanto questa nostra egocentrica visione del mondo sia assolutamente minoritaria, di quanto quella che noi ci ostiniamo a considerare normalità sia soltanto un mucchio di immeritati privilegi” (Dr. G. Zambolin).

Credo sia giunto, per l’umano, per ogni umano e, soprattutto, per noi, qui ed ora, il tempo di smetterla di frequentare la banalità e di giocare ad addomesticatori del reale, infilandogli in bocca, a forza, parole di comodo, parole taroccate, parole false o strozzarne la voce – comunque inestinguibile! – con l’indifferenza.

Nessuno di noi, è certo, avrebbe immaginato di vivere un’esperienza di tale devastazione, di tali dimensioni e di tale ingestibilità. Nel primo lockdown, neppure noi, in questo lembo di Sardegna, potevamo immaginare che sarebbe risuonata, improvvisa e quasi incredibile, una toponomastica ben più familiare a noi rispetto alle lontane o lontanissime Wuhan, Manaus, New York, Madrid, Parigi, Londra, Mumbai… Sentire e leggere – ma, soprattutto, esserci – ad Alghero, Borore, Bosa, Macomer, Montresta, Olmedo, Santu Lussurgiu, Sedilo, Silanus, Tresnuraghes, Villanova Monteleone … e piangerne sorelle e fratelli morti in brevissimo tempo o sopravvissuti ma gravemente debilitati, stringersi ad intere famiglie, vistosamente provate e impaurite, non lo avevamo preventivato. Il dolore che anche noi, nella nostra Chiesa, stiamo vivendo, è grande. Abbiamo perso tante persone care: padri, madri, nonni, nonne, fratelli, sorelle, nipoti; alcune preziose sorelle nella Vita consacrata; moltissimo abbiamo trepidato per don Battistino Mongili, per il quale abbiamo giornalmente invocato il Signore e che, per sua grazia, lo ha restituito, provato ma sanato, al Presbiterio, alla comunità di Sedilo e alla sua famiglia. Quanta apprensione per tante nostre case di riposo! Per gli ospiti, per il personale segnato dalla fatica e, a loro volta, reso fragile o inabile dal contagio; per i familiari preoccupati perché impossibilitati ad avvicinare i loro congiunti. E quanti medici di famiglia e ospedalieri, quanti operatori sanitari, quante équipe delle ambulanze e quanti volontari esausti, talvolta poco equipaggiati, scoraggiati: tutti da apprezzare, ringraziare, benedire! Come anche la fatica diuturna, declinata in mille modi, di tutte le Forze dell’ordine.

Ancora mi faccio prossimo a tutti e a ciascuno toccato nella carne viva, per i più svariati motivi di parentela o di professione, in questi mesi e tutt’oggi. Ad ognuno ripeto l’affetto, ridico la gratitudine e assicuro l’intercessione presso Colui che sa e che ama. Credo di poter dire che, come Comunità cristiana, siamo venuti incontro a tante richieste di aiuto, a tante lacrime, a tante necessità improrogabili, appena abbiamo saputo e potuto.

Invito tutti, di cuore, a non sperperare questo tempo, che resta ancora, in gran parte, da decodificare ma che, ne siamo certi, è tempo di grazia perché abitato dal sempre Veniente Signore.

Non sperperarlo, chiudendoci in noi stessi, dimenticando di posare il nostro sguardo amico su chi abbiamo a fianco: perché a Natale Dio ci ha guardato con un amore così unico da farsi nostra carne.

Non sperperarlo, scandalizzandomi delle mie fragilità e di quelle altrui: in questo Natale Dio ci riconsegna ancora la sua stima incondizionata.

Non sperperarlo, vivacchiando nella fede: proprio a Natale Dio confessa la sua fede nell’uomo.

Non sperperarlo, passando distratto e indifferente, a fianco di chi geme: a Natale Dio che vagisce grida la sua speranza nell’uomo e “conserva nel suo otre ogni nostra lacrima”.

Non sperperarlo, chiudendo la mano verso chi me la tende: perché a Natale Dio stesso si fa dono.

Non sperperarlo, sibilando toni duri, parole taglienti, gesti irrispettosi: a Natale Dio, bambino e privo di parola, nato fuori di casa, rifiutato da chi poteva accoglierlo, tenuto al caldo lì dove gli animali stritolano il loro mangime, annuncia che ogni pre-potente è deposto e che ogni ultimo sarà esaltato.

Non sperperarlo, tentando di emergere, di sgomitare, di primeggiare: perché a Natale Dio guadagna l’ultimo posto perché l’ultimo valga come Dio.

Non sperperarlo, maltrattando chi è povero di beni, di cultura, di simpatia, di amicizie che contano, di virtù: a Natale, infatti, Dio inaugura una passione sconcertante, quella per i poveri, per chi non ha voce, per chi non conta. Le Beatitudini, conservate in cuore, ci siano viatico prezioso!

Non sperperarlo, investendo energie, tempo e cuore in autopromozioni: perché a Natale Dio si fa uomo perché l’uomo diventi – finalmente! –  umano.

Non sperperarlo, snobbando chi è, per qualsiasi motivo, precario: proprio a Natale Dio diventa precario nella carne perché ogni carne venga assunta a tempo indeterminato da Dio stesso.

No, davvero non sperperiamo questo tempo di grazia, di amore che eccede.

Maranatha! Vieni Signore Gesù!

 

Virus spione

Pur nella sua invisibilità, il virus ha scatenato un’emergenza capace di far esplodere tutte le contraddizioni e le ingiustizie dei nostri assetti sociali, che mal compongono i diritti e le esigenze tra i forti e i deboli. Il virus viene a ricordarci che siamo tutti esposti alla fragilità e alla morte.

Oltre che pestifero e mortifero, il coronavirus è stato un potente detonatore: ha fatto saltare il coperchio di tante pentole a pressione, tenute spudoratamente sigillate da silenzi, da connivenze, da sguardi obliqui, da comodità, da irresponsabilità. Dalla filialità rigettata e dalla fraternità tradita. Abbiamo passato un tempo vergognosamente lungo – decenni – a dirci che, nonostante tutto, le piaghe (soprattutto altrui), se erano tali, si potevano anche tollerare. O, forse, non erano proprio piaghe. Se, invece, lo erano, restavano pur sempre le loro piaghe, di altri. Dunque … si salvi chi può.

Non chiamando mai per nome le tragicità e le storture, vicine o lontane; non dando mai nome né a cause né ad ideatori e manovali di esse; non tirando mai in causa se stessi come avveduti o sprovveduti mercenari, siamo diventati, in modo esponenziale, sordi e ciechi, afoni e irresponsabili. Abbiamo zittito il grido della Terra, il grido dei fratelli e delle sorelle. Il grido di Dio. Paradossalmente, abbiamo talmente zittito la Terra e Dio, da esser giunti fino al punto di strangolare il gemito del nostro stesso cuore, annegato nell’insensatezza, nella noia, nell’apatia della sua autoreferenzialità.

Ma è comparso un virus spione e tremendamente imparziale.

La pandemia, certo, non ha creato direttamente le contraddizioni e le ingiustizie per cui patisce la maggioranza della popolazione mondiale. Semplicemente le ha rese da note, notissime. Le ha esposte, svelate, ingigantite e ci ha costretto a posarci, pensosamente, lo sguardo. Sì, le innumerevoli storture e disarmonie, in questo generale e sconvolgente ammaloramento delle condizioni di vita, sono diventate insopportabili, dolgono così tanto che nessun anestetico, nessun palliativo, nessun diversivo riesce più a lenire e silenziare.

– Innanzitutto il dissennato consumismo: ci ha scippato la capacità di valutare tra essenziale e superfluo, tra indispensabile e inutile, tra proficuo e nocivo. Tra ciò che dà vita alla vita e ciò che la deturpa e la spegne. Come ci ricorda la Liturgia della Parola della notte di Natale sopracitata (Tito 2,11-14), la sobrietà è dono natalizio, dono che il Padre ci offre nel Figlio Gesù. In realtà, dall’intera storia della salvezza apprendiamo che la sobrietà è cosa divina: dal primo versetto di Genesi all’ultimo di Apocalisse tutto in Dio trasuda sobrietà. Certo: nella carne del Verbo il sobriamente/sophrónos di Dio non può neppure essere commentato! I Padri avevano coniato l’espressione Verbum abbreviatum, Verbum brevissimum, per raccontare, appunto, la totale eloquenza del Verbo nella sua stessa assoluta sobrietà e abbreviazione! L’avverbio sobriamente indica (anche) la capacità di saper e poter saggiamente gestire quel meccanismo così tipicamente umano, indispensabile e delicatissimo, del desiderio e del desiderare che condotto, invece, non-sobriamente, diventa una macchina infernale, dis-ordinando la vita, creando continuamente bisogni, accendendo desideri o irrealizzabili o deleteri o mortiferi e partorendo, così, miriadi di infelici perché incapaci di soddisfare quei desideri, senza tragicamente riuscire a ri-conoscere e a dar voce a desideri veri, profondi, incoercibili, come quella “cicatrice del divino” che preme in ogni cuore umano. La mentalità consumistica, da queste modalità non-sobrie e scomposte nella gestione del desiderio, trova un propellente pressoché inesauribile.

– Poi l’iniqua esclusività del sistema economico-finanziario fondato sul mercato, le cui regole diventano un capestro mortale per interi popoli che, in forza di tale paradigma di comodo (per pochi), si vedono costretti ad abdicare ai loro diritti fondamentali.

– Che dire ancora dell’insopportabile portata delle disuguaglianze sociali? La pandemia ha ingigantito ed esasperato le differenze tra chi gode di un reddito assicurato e chi ne è privo; tra chi può permettersi di lavorare comodamente da casa e chi deve rischiare salute e vita, giornalmente, per sopravvivere; tra chi attende, disperato, la riapertura della propria attività, senza aver potuto godere di nessuno dei benefici delle politiche sociali e chi, da casa, attinge dai propri conti (e continua a incrementare affari). Per non parlare degli “invisibili”: chi sopravviveva con un lavoro in nero o irregolare e che, ora, diventa, se possibile, ancora più invisibile.

– Infine, pervasiva e trasversale, la quasi assoluta indifferenza nei riguardi dell’inquinamento e dei cambiamenti climatici. Fa impressione il “fastidio” suscitato in troppi dal solo sentirne parlare. Certo, il senso di disinteresse e l’irresponsabilità con cui stiamo assistendo allo smantellamento della nostra casa comune – l’unica! – sgomenta.

Faccio mie, volentieri, alcune parole dell’amico Vescovo Roberto Filippini: “Facciamo però attenzione a evitare una tranquilla, quanto superficiale assoluzione generale, che ci permetta di uscire dall’arca di Noè dopo la quarantena, per tornare a far tutto come prima, come se niente fosse accaduto. Come se [morti e contagiati] della pandemia, fossero vittime di un fatale uragano primaverile, di cui scordarci presto. Per tornare a considerare la nostra moderna società occidentale – capitalista, neoliberista, tecno-scientifica – come la migliore delle civiltà che la storia umana ha conosciuto e potrà conoscere in futuro […] Siamo sicuri che non ci sia niente da ripensare e rettificare, niente da cui prendere le distanze, niente da cui convertirci? E che non ci siano aspetti del vivere umano, spesso silenziati o marginalizzati, che vadano al contrario riscoperti e promossi, da qui in avanti, e proposti come altrettanti ideali e mete a cui tendere? Gesù, di fronte al cieco nato, risponde ai suoi discepoli che gli chiedono chi ha peccato: Né lui né i suoi genitori ma perché in lui siano manifestate le opere di Dio (Gv 9,1). Non si tratta dunque di colpevolizzarci, ma di riflettere e scegliere modi di vivere più sostenibili, imparando dalla crisi in corso le lezioni giuste”.

 

Doni svelati

Ma questo tempo rivelativo è stato anche svelamento di propensioni, di gesti, di scelte che pensavamo persi per sempre o così rarefatte da essere credute appannaggio di singoli eroi, di campioni solitari o, al massimo, di raggruppamenti molto ben connotati e, in qualche modo, deputati o votati a tali cause. Nel Natale del COVID-19, scartare con stupore questi doni preziosi e vederli così tanto moltiplicati, così tanto luminosi, così tanto condivisi e così tanto “contagiosi” (!), non può che ridarci le forze del cuore e riportarci alla verità del Natale del Signore, che è, appunto, la festa del dono. Tra i tanti, due mi hanno particolarmente edificato.

 

* Dare vita, dare la vita. Tutti siamo stati testimoni di un sorprendente flusso sociale, trasversale e variegato, di prossimità, animato e movimentato da solidarietà e da gratuità. Una energia buona, non esibita, inesprimibile, ma con la coscienza di dover condividere l’attuale medesima vulnerabilità. I tratti della incondizionatezza del dono, il bando di ogni calcolo e tornaconto personale, il dis-interesse del dono colpiscono, scuotono, commuovono e cambiano “dentro”. Ciò avviene quando si diventa ospitali dell’altro, cioè quando qualcuno accoglie qualcun-altro. Senza dover consegnare codici di identificazione, in un puro atto di fede senza garanzie. Un rischio e, insieme, il manifestarsi di una relazione che può assurgere a rivelazione. Ap-prezzare chi è altro-da-me, altro-che-è-con-me, altro che consegna me-a-me-stesso. Altro non come frontiera fortificata, limite invalicabile, estranea ostilità ma altro come soglia che concede passaggio, condizione di rapporto. Quando si disinnesca il pregiudizio dell’altro come ostile-nemico e si inizia ad ac-coglierlo come indispensabile coefficiente per definirsi, allora fluisce la possibilità del dare, del darsi. Solo allora si inizia ad abitare la logica sublime del dono. Gli ultimi tre anni di lectio divina sui primi capitoli della Genesi, ci hanno condotto ad affinare la comprensione del mistero dell’alterità: sappiamo che ‘ish/uomo appare solo dopo che, sulla scena, si materializza ‘ishah/donna. L’uomo inizia a identificarsi tale, solo quando “davanti a sé/di-fronte”, ha l’altra. Così è: senza alterità non si può attivare identità personale! Il volto altrui, irriducibile al mio, mi offre la grazia di scorgere un limen – soglia e confine – che finalmente mi identifica. L’‘ish senza ‘ishah, suggerisce la letteratura rabbinica, si sarebbe … montato la testa! Solo la dualità della relazione strappa dal sentirsi l’ottava meraviglia del creato, salva dalla pretesa di essere assoluti. Quel “non è bene che ‘ish sia solo(Gn 2,18), possiamo proprio leggerlo come “non è bene che ‘ish sia esclusivo”. E’ proprio l’assenza, subìta o creata, del di-fronte-a-me che genera, nella persona umana, il tarlo mortifero dell’esclusività che, subito, impone esclusione.

Questo frammento luminoso di vera umanità in atto, in fratelli e sorelle capaci di non escludere ma, anzi, da assumere tanto seriamente l’altro da offrirglisi, è uno squarcio vivissimo di speranza in un orizzonte sconfortante e uncinato da infiniti punti interrogativi. La portata di questa martyria, che è giunta a dare la vita, l’abbiamo vista concretizzata in molteplici categorie ma un apice l’abbiamo negli operatori sanitari: 7000 circa i medici morti nel mondo; in Italia 233, oltre i 56 infermieri (cf portale FNOMCeO con nomi e cognomi e Assocarenews). La logica del dono non può essere sottoposta a radice quadrata: la si contempla in silenzio e se ne resta interiormente edificati, ri-costituiti.

 

* La compassione dello sguardo. E’ vero che il “mezzo volto”, che oggi appare dall’uso indispensabile della mascherina, azzera la mimica facciale, tappa la bocca, passaggio-principe di consegna di sé attraverso la parola, varco di introiezione della vita. È vero che gesti familiari, umanissimi e, per noi, indispensabili, come abbracciare, stringere la mano, baciare, oggi ci sono interdetti e ne sono imperati altri di segno opposto: tenere distanza, infilarsi la mascherina, rifugiarsi dietro il plexiglas. È vero anche che queste “mosse tattiche” – ora indispensabili – non danno voce all’esigenza di prossimità che ci preme in cuore (ed è bene fare un sincero mea culpa, per tutte quelle volte che abbiamo dato per scontato questi gesti e li abbiamo usati e/o abusati).

Ma è anche vero che tutto ciò, pur mancandoci non poco, forse ci ha spinto a … riattivare la prossimità dello sguardo, la compassione degli occhi. Proprio perché il distanziamento è costoso – pensiamo ai tanti operatori sanitari che han deciso, per amore della famiglia e dei pazienti, di vivere senza far ritorno, per mesi, nella propria casa o di quelli che, pur ritornandovi, non possono abbracciare nessuno dei propri cari – stiamo riscoprendo la portata dello sguardo come prossimità, come cura, come compassione. Il “mezzo volto” rende indistinto il profilo e i tratti del viso ma, in compenso, rende più intenso il linguaggio degli occhi. L’esperienza è scolpita nelle parole di una donna che si rivolge ai medici e infermieri che l’hanno salvata, dicendo: “Quando vi incontrerò di nuovo non ricorderò distintamente i vostri volti, ma riconoscerò infallibilmente i vostri occhi” (P. Sequeri, “Lo sguardo oltre la mascherina”, Avvenire 4.4.2020). Nello sguardo c’è già tutto l’amore. Questi lunghi e difficili mesi sono stati una palestra e un tirocinio eccezionale per far parlare lo sguardo. Continuiamo ad avvolgere di sguardi buoni e ristoratori coloro che incontriamo, soprattutto se affaticati. Forse ci siamo resi conto di quanto siano indispensabili sguardi che comunichino una prossimità disponibile, consegnando, insieme, la nostra umanità vulnerabile ed essa stessa disponibile. Con lo sguardo si può abbracciare. Anzi, lo sguardo è il vero contrasto al distanziamento!

 

Doni desiderati

In questo Natale “luminosamente apocalittico”, oltre i “Doni svelati” e già nostri, desidererei qualche altro dono prezioso di grazia. Lo chiederò insistentemente al Padre di ogni dono perfetto, per voi e per me, nell’Eucarestia di Natale. Di questi doni, domando a Lui che sa e che ama, a Lui che nel Figlio ci ha colmato di ogni bene. Domando a Lui, sì, perché so che, realmente, possono esserci solo donati. Devo confessarvi che, di questi doni, ne colgo l’indispensabilità e l’urgenza: a partire dalla mia vita personale di uomo e di ministro del Vangelo, e per il variegato e movimentato proscenio che è la vita che stiamo vivendo.

 

* Silenzio. Immersi in una marea crescente ed assordante di parole, di opinioni, che veleggiano (quasi) subito verso guerriglie verbali, con immediata contrapposizione di vedute, di teorie, di soluzioni; strattonati da un isterico parapiglia mediatico, che tante volte si risolve in autentiche zuffe (non solo, ahimè, di pensiero e di posizioni); atterriti da programmi culturali o leggeri (ma talvolta tanto pesanti) in cui ci assalgono orde di vocali e di consonanti più o meno apparentate tra loro, dove la miscelazione tra show, pubblicità, opinioni, diagnosi e ospiti più o meno decorativi producono un frappè di umanità di difficile catalogazione … in tutto questo, prepotentemente, insistentemente, si affaccia imperioso un insopprimibile desiderio di silenzio! Ma si sa: “Le cose grandi maturano nel silenzio […]. Le forze che non fanno strepito sono quelle che realmente valgono”. (R. Guardini). Natale senza silenzio non è Natale cristiano. La gioia del Natale è direttamente legata alla contemplazione del mistero del Natale stesso del Signore. Silenzio e Parola di Dio sono un binomio inseparabile. Non qualunque cuore e non comunque il cuore, però, accede all’incontro con il volto del Signore e con la sua Parola. Anche in questo Natale. Soprattutto in questo Natale. La grande tradizione biblica, giudaica, patristica, monastica, ecclesiale e ogni sana antropologia ci insegna che vi è un grande segreto da porre come premessa, come stile, come habitat e come clima per godere della grazia dell’incontro. C’è un silenzio e una sobrietà cordiale entro cui passare, di cui rivestirsi e di cui desiderare l’ampliamento degli spazi. Non si tratta di un silenzio qualunque. È quel tacens loquetur, quel “silenzio eloquente” di cui fa esperienza il profeta Elia sul monte Horeb, dove ascolta una “voce di silenzio sottile”, (1Re 19,12), dove scorgerà quelle tracce del divino che vento, terremoto, fuoco – i segni di ogni precedente manifestazione di Dio – non riuscivano più a manifestargli. In questo silenzio-che-parla non si entra automaticamente. E in certi giorni è molto duro riuscire ad abitarlo. È necessario una lunga educazione e un lento e voluto adattamento ma, certamente, la voce di silenzio sottile è l’unica strada per ascoltare davvero. A questo silenzio non semplicemente tecnico ma “cordiale”, a questo incontro di Volti si accede attraverso una triplice porta: il decentramento da sé; il non identificarsi con i propri problemi; la capacità di (ri)affidamento al Signore.

Questo iter per accedere al vero incontro è tanto più necessario oggi per i ritmi e gli ambienti di vita che noi tutti viviamo. Talvolta facciamo esperienza della vita come luogo di agitazione, di strattonamenti esistenziali e di frustrante appariscenza. Una quasi-commedia. Ma ognuno, in alcuni particolari momenti del vivere, sente pungente l’insopprimibile desiderio di autenticità. Ognuno brama “vedere Dio” e ascoltare quella “voce di silenzio sottile”. Ognuno perviene all’indispensabilità di strapparsi da quel chiacchiericcio assordante capace di consumare la vita. Ognuno, forse senza saperselo dire, reclama l’entrata in una feconda disciplina ritmata da un silenzio non mortifero ma abitato e denso di Presenza. Ognuno, forse remotamente, attende di entrare in un silenzio che è “oblio di tutto ciò che in noi è ancora toccato dalla vanità, dall’egoismo, dalla sensualità, dall’angoscia e che ci impedisce di esprimerci totalmente davanti a Dio. Questo mondo estraneo e disordinato, con il quale ci identifichiamo troppo facilmente, deve essere costantemente sorvegliato” (A. Louf). Silenzio esteriore e silenzio del cuore devono sempre di più agire e re-agire l’uno sull’altro, l’uno nell’altro. Solo se il silenzio esteriore è serio e vero, si può giungere al silenzio del cuore, che ci fa nascere a Dio e a noi stessi. Per questo l’ascolto meditativo della Parola deve andare di pari passo con il silenzio. Un silenzio non impregnato dalla Parola non solo è vano ma è mortifero.

Dedicarsi un po’ di più al silenzio, resta la via privilegiata per esprimere l’accettazione di ciò che accade. Non le nostre parole su ciò che accade partoriranno una comprensione profonda degli eventi, quanto piuttosto il nostro silenzio che accoglie l’accadimento. Quello che ci sta accadendo è difficile da digerire. Senza darci uno spazio reale di silenzio riflessivo, non possiamo cogliere il senso di ciò che ci sta dolorosamente investendo.

Desidero questo dono per me e per voi. Lo chiedo al Padre, in questo Natale, per me e per voi. Per tutti.

 

* Prossimi e distinti per riabitare la casa. Il filosofo Arthur Schopenhauer, nella sua opera intitolata Parerga e paralipomena scrive: “Una compagnia di porcospini, in una fredda giornata d’inverno, si strinsero vicini, per proteggersi, col calore reciproco, dal rimanere assiderati. Ben presto, però, sentirono il dolore delle spine reciproche; il dolore li costrinse ad allontanarsi di nuovo l’uno dall’altro. Quando poi il bisogno di scaldarsi li portò di nuovo a stare insieme, si ripeté quell’altro malanno; di modo che venivano sballottati avanti e indietro tra due mali: il freddo e il dolore. Tutto questo durò finché non ebbero trovato una moderata distanza reciproca, che rappresentava per loro la migliore posizione.” (Capitolo XXI). E’ un’immagine che dice bene la complessità dei rapporti umani e la continua ricerca della giusta vicinanza-distanza da tenere con gli altri. Nelle nostre relazioni sociali, ognuno di noi ha necessità di legami affettivi veri e caldi ma non soffocanti, sì da liquidare la nostra individuale unicità. Trovare il giusto equilibrio non è facile e non è possibile siglarlo una volta per tutte. Le spine del porcospino, fuori di metafora, sono tutto ciò che, in situazioni di eccessiva vicinanza o di lontananza affettiva, può causare danni e ferite e incrinare o rompere il rapporto.

Ognuno di noi deve affinare la capacità di viversi come prossimo e insieme distinto, non-confuso rispetto all’altro. Il collocarsi come vicini e come distinti è la sola possibilità che conduca ad esperire l’infinito con cui è impastato il proprio e il volto di fronte. Ma ciò esige la separazione: ogni con-fusione, assorbimento e risucchio dei tratti di unicità dell’altro, ogni fagocitazione (pressoché infiniti e molto spesso indefiniti sono i modi di “idrovorizzare” l’altro) ha come effetto l’impossibilità di un vero incontro e conduce al naufragio della relazione. Com-unione e con-fusione fanno, linguisticamente rima ma, esistenzialmente, anche un incalcolabile danno. Il volto che dà vita a relazioni autentiche è quello che né si distanzia difensivamente dal suo omologo, né si rintana nel suo comodo (?) cantuccio. Entrambi i casi non sono che la cancellazione dell’altro in quanto altro. Privato di questa ossigenante autonomia, il volto avvizzisce esistenzialmente e il faccia-a-faccia, da esperienza gioiosa del fluire della vita, si tramuta in dolente esperienza di rapina.

Il mantra massmediatico che ci ha trapanato le orecchie (e continua) è: “state a casa!”. A ben pensarci, in un tempo come il nostro, così complesso, frammentato, globalizzato e movimentato, dove l’imperativo non-detto (ma quanto mai indiscusso e indiscutibile!) è uscire da casa, andare fuori, ci viene, al contrario, ripetuto in tutti i modi che, per vivere, è necessario restare in casa. Non più uscire/fuggire ma abitare/dimorare. Non più estroflettersi ma con-venire/co-esistere. Una cosa è certa: bisogna rifarsi compagni, vale a dire “condividere-insieme-pane”, ogni pane, ogni nutrimento, ogni cosa che ri-crea, che dà vita, che sazia passa per condivisione. E questo dentro una casa che non è, e non può essere, albergo, ristorante o convivialità part-time. Una famiglia non può vivere di rapporti limitati da un andirivieni senza sosta e senza senso. Dimorare e abitare, nel senso appena detto, può spingerci tutti a ripensare gesti, comportamenti, spazi, prossimità e distanze della nostra comunicazione, sia verbale che non verbale. Questa nostra generazione, credo, è chiamata a creare nuove modalità di vicinanza, di cura, di co-abitazione tra genitori, figli, fratelli, partner. Il lascito buono di un virus cattivo è semplice: ridiventare “com-pagni” condividendo il pane della vita, come rinvenimento di quel calore che è fonte sorgiva di ogni altro genuino calore.

Anche questo è un dono che chiedo al Signore per la nostra Chiesa, per il nostro Presbiterio, per ogni comunità parrocchiale, per ogni famiglia, per ogni relazione. Ne vedo l’indispensabilità e ho toccato con mano l’amarezza di tanti quando questa prossimità-distinta viene infranta o manipolata o resa caricaturale.

 

Nella santissima notte di Natale del Signore, nell’Eucarestia presieduta dal vescovo nella ecclesia mater, nella cattedrale in Alghero, tutti sarete ricordati, accolti, abbracciati e affidati al sempre Veniente. Nessuno mancherà. Nessuno verrà escluso. Di ciascuno si farà memoria grata. A tutti e a ciascuno un abbraccio colmo di affetto

 

✠ padre Mauro Maria Morfino
Vescovo di Alghero-Bosa