Messaggio di Quaresima-Pasqua 2020: “Padre sempre. Sempre figli”

Pubblichiamo di seguito il Messaggio di Quaresima-Pasqua 2020 del Vescovo Mauro Maria Morfino.

Padre Sempre. Sempre figli

Messaggio di Quaresima-Pasqua 2020

 

Quaresima tempo di scandalo

Ci viene ancora incontro, gratis dato, questo tempo santo e abbondante di Quaresima-Pasqua. Condotti dallo Spirito del Signore attraverso la luminosità ri-creatrice della Parola, saremo ancora invitati a non opporgli resistenza. Sarà solo lo Spirito di Dio a spalancarci il cuore, rendendolo capace di gioire del rinnovato scandalo del perdono immeritato. Stupìti, per sua grazia, potremo diventarne stabili residenti. In un tempo e in un clima dove, senza salvacondotti si è irregolari, senza credenziali si è impresentabili e senza carte di credito si è trasparenti, la sorprendente buona notizia dell’immeritato perdono spalanca il cuore alla speranza e ci consegna ad una vera Pasqua di risurrezione. La gratuità dell’amore del Padre che in Gesù si fa perdono, accoglienza e restituzione di vita, rialza e fortifica, sana e rilancia sulle vie tortuose e mai abbastanza illuminate della vita, in compagnia di uomini e donne che, con noi e come noi, tentano di dare volto alla sorprendente novità del Vangelo di Gesù.

Se durante questa Quaresima non inciamperemo nello scandalo del perdono immeritato, dal nostro cuore riarso non potrà uscire neppure una nota intonata dell’Exultet pasquale.

È scandaloso questo Gesù che racconta, con la vita e la parola, che il Padre non aspetta che il peccatore faccia il primo passo, che cambi vita, che produca opere buone, quasi che la salvezza sia la ricompensa dovuta, da Dio, ai propri sforzi. È scandaloso e sorprendente questo Gesù che si fa prossimo ai peccatori senza esigere da loro, previamente, un qualche pentimento.

È scandaloso il perdono immeritato che Gesù offre a chi è ingabbiato nel peccato senza neppure sottometterlo ad un rito penitenziale, come tutti gli inviati di Dio, come lo stesso Giovanni Battista, che ne resta tramortito: “Giovanni […] mandò a dirgli per mezzo dei suoi discepoli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?»” (Mt 11, 3). Il Battezzatore si aspettava – come tanti, come tutti – un Messia castigamatti che, finalmente, punisse i cattivi e premiasse i buoni. Resta stordito, perplesso nel vedere che questo Gesù usa misericordia con tutti. No, non c’è da aspettare un Messia diverso da Gesù. È la nostra attesa a dover diventare diversa: “Gesù rispose loro: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!»” (Mt 11,4).

È davvero scandaloso questo Gesù che si offre a tutti – soprattutto agli sfregiati dalla vita e dal prossimo – come Amico, come segno che Dio li accoglie tra le sue braccia prima ancora che tornino all’osservanza della Legge e pongano gesti conformi all’Alleanza. È scandaloso Gesù che si dona loro come comunione con il Padre, come accesso immediato a lui, accogliendoli così come sono, peccatori: “In verità ti dico: oggi sarai con me in paradiso!” (Lc 23,43).

È il suo perdono senza riserve, assoluto, totale che sconcerta le persone che si sentono moralmente giuste e legalmente corrette. Non comprendono il suo modo di vedere e di parlare di Dio e dell’umano. La tradizione evangelica ha conservato una parola rovente rivolta da Gesù a coloro che presumevano di sé scandalizzandosi di lui: “In verità vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio” (Mt 21,31). Certo è che pubblicani e prostitute, poveri e impuri di ogni specie, peccatori e malandrini di ogni rango lo comprendevano e per loro, la Notizia che quel giovane Uomo dal profumo Divino annunciava, era davvero una lietissima novità.

È scandaloso questo Gesù che guarisce e riconsegna alla vita, sovvertendo schemi intangibili di giustizia retributiva e distributiva: non definisce la trasgressione, non aspetta cenni di rinsavimento, non condiziona il suo amore. Lui, il Figlio di Dio che viene e che preme, conosce e segue, appunto, le strade del Regno “perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie” (Is 55,8). Gesù offre quella sovrabbondanza di perdono, quella sproporzione di cura, quell’eccesso di misericordia che consente a Dio di camminare per le vie dell’umano e a questi di rannicchiarsi, amorevolmente accolto, tra le sue braccia.

È scandaloso questo Gesù che pone tutti e ciascuno, giusti e ingiusti, di fronte all’abisso insondabile del perdono di Dio. Il Figlio, l’unico a conoscere il compassionevole Padre, offre a tutti accoglienza: “Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se no, ve l’avrei detto. Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io. E del luogo dove io vado, voi conoscete la via” (Gv 14,2-4). Chi rimarrà fuori della porta? Solo coloro che, scandalizzati, rifiutano misericordia.

Antecedente ad ogni ritorno, antecedente ad ogni segno di ravvedimento, antecedente ad ogni sforzo c’è, perciò, l’iniziativa di Dio, c’è la grazia, c’è l’eccedenza dell’amore. Ogni dovere da compiersi non può che avere alla sua radice un dono ricevuto. Allora, se primeggia la grazia, il dovere e la legge si possono realmente prendere sul serio.

Davanti a questo Gesù, colui che si stupisce per l’Amore ricevuto senza riserve esulta in Dio e lo loda. Colui che si scandalizza, da arrabbiato, lo taccia di ingiustizia:

Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: Amico, io non ti faccio torto […] io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono? Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi (Mt 20,13.14-16).

C’è gente che mormora scandalizzata. Non si lamenta per la paga, che in fondo era quella concordata, ma è stizzita perché altri, che hanno faticato molto meno, ricevono dal padrone quanto loro. Fuori di metafora: Gesù scandalizza chi è tronfio della propria superiorità morale, spirituale, devozionale e giudica come un affronto agli “evidenti” principi della giustizia, la sollecitudine ingiusta usata da Gesù verso i peccatori che essi cordialmente disprezzano. Il peccatore deve essere rigettato da Dio e dai buoni!

Dunque “tu sei invidioso perché io sono buono?”.

Il nodo dello scandalo è qui: Gesù indica presente nella storia un Dio che offre gratuitamente se stesso e il suo amore a chi proprio non può meritarlo. Per gli scandalizzati è questa eccedenza d’amore che è sbagliata e ingiusta. E quindi è un Dio sbagliato e ingiusto. No, non può essere Dio! Da sempre si sapeva che Dio sta dalla parte dei buoni. Cosa dunque va raccontando questo Nazareno di un Dio “che fa sorgere il sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e gli ingiusti” (Mt 5,45), che si definisce “medico per i malati, non per i sani […] venuto non a chiamare i giusti ma i peccatori (Mt 9,12-13) e per il quale “c’è più gioia in cielo per un peccatore convertito che per novantanove giusti” (Lc 15,7)? E quelle sue frequentazioni strane? Una Samaritana con collezione variegata di mariti, quella Maddalena infestata da demoni, quei sanguisuga di Matteo e Zaccheo. Difficile non scandalizzarsi. Eppure “Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e che arrivino alla conoscenza della verità” (2Tim 2,4).

Dunque “tu sei invidioso perché io sono buono?”.

Il fertilizzante segreto (ma quanto prolifico!) dell’invidia del giusto, è la sua pretesa: la dovuta ricompensa alle proprie opere buone. Ma la salvezza resta puro dono, per tutti, sempre. Gesù, volto del Padre, è tutto e solo pervaso dalla gratuità dell’eccedenza dell’amore. La grazia di Dio non ha bisogno delle nostre opere; ha bisogno del nostro af-fidarci a lui, del nostro abban-donarci al suo amore:

Ora invece, indipendentemente dalla Legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla Legge e dai Profeti: giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono. Infatti non c’è differenza, perché tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù. È lui che Dio ha stabilito apertamente come strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue, a manifestazione della sua giustizia per la remissione dei peccati passati mediante la clemenza di Dio, al fine di manifestare la sua giustizia nel tempo presente, così da risultare lui giusto e rendere giusto colui che si basa sulla fede in Gesù. Dove dunque sta il vanto? È stato escluso! Da quale legge? Da quella delle opere? No, ma dalla legge della fede. Noi riteniamo infatti che l’uomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della Legge” (Rm 3,21-28).

 Tutta quella gente strana, moralmente sfatta, imbroglioni e malviventi, tutti “giustificati per la fede, indipendentemente dalle opere”. Tutti! Dio chiama e attende e accoglie proprio tutti nella sua vigna!

Sembra paradossale affermarlo ma è la misericordia che ci spaventa. Realmente sovverte e rovescia il pensiero “comune” dell’umano e scandalizza in modo unico chi si sente giusto.

Ci sia data la grazia di inciampare, pesantemente, sullo scandalo evangelico del perdono immeritato di cui le vie della Quaresima cristiana sono giornalmente disseminate!

 

Padre prodigo

L’evangelista Giovanni, concludendo il Prologo del quarto Vangelo – testo che ci ha riscaldato il cuore e accompagnati nell’Avvento-Natale 2018 –, dice: “Dio nessuno lo ha mai visto, ma il Figlio Gesù ce ne ha fatto la narrazione” (Gv 1,18). Gesù, Figlio unigenito del Padre, ci racconta, disvelandolo, l’invisibile Padre: attraverso i suoi stili di vita, le sue scelte, il suo modo di vivere affetti, relazioni, fraintendimenti, minacce, tradimenti. Vita e morte. E attraverso la sua Parola.

L’intero capitolo 15 del Vangelo di Luca, con l’apice dei versetti 11-32, racconta il Padre, racconta che il Padre di Gesù è sempre Padre, ne consegna i tratti caratteristici e, diversamente, irrimediabilmente silenziati. Racconta anche che i figli, per Lui, restano sempre tali: anche quando loro stessi, per sopravvivere, propongono il declassamento di sé a domestici prezzolati; anche quando l’ingiustizia da loro commessa spinge tutti, proprio tutti – ma mai il Padre – a sentenziare un’estromissione senza appello; anche quando, nella loro intangibile libertà, feriscono il Padre ferendo se stessi.

Non fa dunque meraviglia che i Padri della Chiesa osino indicare la parabola del Figlio ritrovato (o del Padre prodigo di amore) come “il Vangelo nel Vangelo”: dell’intera Buona notizia, è la Buonissima notizia, il cuore incandescente e il motivo di inevitabile vertigine.

Accostarsi a questa parabola significa lasciarsi catturare da un volto: «da qualsiasi angolatura si guardi questo racconto, ci si accorge che al centro c’è la figura del Padre: lui davanti ai suoi figli e i due figli davanti a lui. Il Padre è la figura che dà unità all’intera narrazione. Le due vicende si scontrano con l’originalità della sua paternità» (B. Maggioni). Il v. 11 introduce l’intera storia con l’espressione “Un uomo aveva due figli”. Fin dall’inizio, e sempre, resteranno figli per il padre che padre resterà sempre: prima, durante, dopo. I figli? La parabola si chiude restando spalancata. Spazio aperto consegnato al lettore perché collochi se stesso come figlio e come fratello. Come solo lui potrà decidere.

In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa. Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato” (Lc 15,1-3.11-32).

  

Lontani raggiunti

È la parabola più lunga che troviamo nei Vangeli (un caso?), dove Gesù dice il Padre, ne rivela l’incommensurabile qualità paterna, quella della gratuità dell’amore. Nelle tre parabole del capitolo 15 del Vangelo di Luca, Gesù tratteggia e consegna il vero volto di Dio, quello solo a lui noto, sbriciolandone ogni contraffazione, ogni maschera, ogni caricatura. Le prime due parabole (vv. 3-10), preparano la terza (vv. 11-32): un pastore che perde una pecora lontano, nel deserto e la cerca; una donna che smarrisce in casa una moneta e la cerca. Proprio come i due figli: il secondogenito si perde makrán, “lontano”, mentre il primogenito si perde proprio “in casa”. Il semper pater uscirà incontro ad entrambi: a quello che torna da lontano (v. 20) come a quello che torna da “vicino a casa” (v. 25). Egli offre la sua misericordia a colui che confessa il suo peccato consumato lontano (v. 18), proprio come i lontani – pubblicani e peccatori e a colui che lo ha consumato vicino (vv. 25-31), proprio come i vicini – scribi e farisei.

Le parabole raccontate da Gesù nel c. 15° di Luca sono la risposta concreta allo scandalo dei “religiosi”, degli osservanti che si sentivano giusti davanti a Dio e agli uomini, per quella inconcepibile prossimità di Gesù che non solo accoglie (v. 2), ma addirittura mangia con chi emana il tanfo marcio del peccato (v. 2): li accoglie con premura e con simpatia fino, appunto, a mangiare con loro, mettendosi perciò in comunione con loro, condividendo la medesima tavola. Il mormorìo di scribi e farisei si leva contro questa spudorata prossimità di Gesù con i peccatori che infrange l’inflessibile separazione tra ciò che è santo e ciò che è corrotto dal peccato. Per loro Gesù è e resta un “mangione, beone, amico dei pubblicani e delle prostitute” (Lc 7, 34). Gesù, al contrario, “accoglie”. Accoglie tutti e accoglie anche gente qualificata come maledetta, non permettendo così che resti esclusa. Non si era forse messo in quella variegata fila di peccatori che andavano da Giovanni a chiedere il battesimo per la remissione dei peccati (cf Lc 3,21ss)? Colui che era senza peccato si è mostrato per la prima volta, in pubblico, come solidale con i peccatori, mescolato con loro, stando “dalla loro parte”, mettendosi nella corsia di quelli che si sentivano lontani da Dio. Lui stesso Dio.

La scelta abituale di Gesù di “accogliere” questa gentaglia, è in aperto contrasto col suo essere Rabbi, Maestro e Profeta e gli zelanti osservanti della legge si agitano, si scandalizzano e prendono da lui debita distanza. Proprio davanti a tale non celata insofferenza, Gesù reagisce narrando la parabola del Padre decisamente prodigo di amore. Gesù non teorizza sulla misericordia del Padre: la racconta. Ribadisce che il suo accogliere “pubblicani e peccatori”, è atto naturale e salvifico perché lui è il Figlio e “nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (Mt 11,27). Sì, il Padre fa festa quando può accogliere e perdonare!

E fin dalla prima battuta della parabola, il paradosso invade il campo: i lontani – pubblici peccatori e gente moralmente inaffidabile – si fanno vicini a Gesù. Per farsi vicini, bisogna sentirsi lontani. Chi conosce la terrificante umiliazione del peccato e la tenebra che dal peccato stesso è partorita, e che invischia di sé l’intera esistenza, si fa più disponibile ad ascoltare Gesù, a dargli credito, ad avvicinarglisi. Coloro che, al contrario, sono irrigiditi in una falsa religiosità e proni solo alla propria volontà, sono sicuri di fare la volontà di Dio e perciò si sentono in diritto di giudicare gli altri con il metro della loro presunta impeccabilità. Se per scribi e farisei la giustizia è separazione, distinzione e rottura, per Gesù è, invece, prossimità, vicinanza, compassione. Giusto è chi esprime la misericordia del Padre, la riceve e la dona. Ecco perché “se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 5,20).

 

Eredità pretesa, figliolanza disattesa

Il testo della parabola, dopo un’introduzione che mette in scena i personaggi (vv. 11-12), si articola in due atti di due scene ciascuno, il primo dominato dal figlio minore e dal padre (vv. 13-24), il secondo dal figlio maggiore e dal padre (vv. 25-32); in questo secondo atto si rivelerà (quasi) decisiva la relazione fratello-fratello. Vale a dire che, se è solo vivendo da figli che si può scoprire l’altro come fratello, è anche vero che è solo vivendo da fratelli che si scopre il volto del Padre.

Il racconto che riguarda il figlio minore, il famoso “prodigo”, è inquadrato dal termine makrán, “lontano”: il v. 13 segnala la sua partenza per un paese “lontano”. Si tratta evidentemente di una lontananza non solo geografica ma affettiva, esistenziale, un sottrarsi in tutto dalla pur minima influenza paterna. E quando il ragazzo era ancora “lontano”, il Padre lo vide e si commosse, “fu colpito alle viscere” (v. 20b).

Ma tra questi due “lontano” che fanno da architrave alla prima parte della parabola, è collocato un padre che perde il figlio. E questo figlio emigra non perché non ha, ma perché ha e pretende tutto e subito ciò che, già oggi, è suo per diritto ereditario. Ma lo vuole subito: “Dammi ciò che mi spetta del patrimonio” (Lc 15, 12a): vuole ritagliarsi la sua parte di vita e reclama la sua parte di eredità per disporne a piacimento. Pretendendo la sua quota, è come se anticipasse la morte del padre: “Voglio i soldi! Della vita che mi hai dato, degli affetti di cui mi hai avvolto, della tua saggezza, dei tuoi progetti su di me, di ciò che potrà essere domani non so che farmene. Non posso aspettare che tu crepi! Dammi ciò che mi devi e che succeda ciò che succeda. Neppure la tua morte mi tratterrà. Regoliamo i conti una volta per tutte così che io non abbia più nulla a che fare con te. Dammi il mio, perché me ne vado!”. Certo l’eredità gli spettava, ma alla morte del padre. Le parole del ragazzo sono proiettili devastanti e il bersaglio è il cuore del padre. Un figlio può diseredare della vita suo padre…

Il padre, (quasi) inspiegabilmente, accondiscende alla richiesta del figlio, senza reagire scompostamente e senza opporre resistenza. Accetta questa “morte anticipata”, concedendo al figlio la sua parte di eredità. Padre indifferente e impassibile? Dal seguito della parabola apprendiamo piuttosto un padre che nutre un rispetto illimitato del figlio e della sua libertà, pur capendo la sconsideratezza della richiesta. Il padre della parabola lascia libero il figlio pur sapendo che la sofferenza e il fallimento gli avrebbe attraversato la vita. È lo straordinario del padre: correda i figli di una libertà tale che questi possono negarlo, contraddirlo, desiderarne la morte. Ucciderlo. Il Padre di cui racconta Gesù ama fino a lasciare che il figlio si allontani da Lui, sulle (dolenti) vie di peccato. Non lo trattiene a forza. Questi primi frammenti della parabola, già fanno brillare quel “Vangelo nel Vangelo” di cui parlano i Padri della Chiesa: non c’è rivalità tra Dio e l’uomo. Dio ha voluto figli, non marionette; li ha pensati capaci di accoglierlo o di rifiutarlo, di stare con lui o di andarsene.

Dal testo fa capolino il fatto che il figlio cadetto non si allontana come figlio ribelle o in seguito a rotture e litigi, ma come chi, costi quel che costi, reclama la sua autonomia per rendersi indipendente. Non un giovane perfido e scapestrato, ma autarchico, che reclama la sua autodeterminazione. Senza sconti, neppure a suo padre, neppure al fratello. Il giovane sente quel dono, che è lo stare con il padre, lo stare insieme, quel dover vivere del dono della sua paternità, come una schiavitù. Quella casa gli diventa prigione: occorre andare via presto, subito. Lacerando affetti, relazioni, legami, progetti, senza soppesare nulla di ciò che potrà succedere. Il peccato ha condotto questo giovane uomo a non saper più valutare la relazione con il padre nella verità: questi è diventato uno di cui sbarazzarsi.

Talvolta, proprio questo è il tessuto del nostro rapporto con Dio. Riconoscerlo Padre ci diventa pesante, la sua stessa presenza è un limite, la relazione con Lui una galera, la sua parola una sopraffazione. Dio, che ossessione! Anche perché, proprio in qualità di Padre di tutti, ci ricorda che ciascuno di noi non è solo, che altri sono accanto a lui e accanto a noi, e che nessuno può pretendere di soppiantare e sostituire nessuno. Questo è il peccato del giovane indipendentista. Questo è il nostro peccato: allontanarci, andar via senza un traguardo, senza meta; ci basta andare lontano, lontano da Dio. Vogliamo fare a meno di lui. E così iniziamo anche a fuggire da noi stessi, da ciò che siamo e restiamo sempre, da ciò che, unicamente, dà vita alla vita: essere figli e fratelli.

E inizia lo sciupìo delle nostre sostanze, dei beni, dei doni che il Padre ci ha fatti. E la sofferenza, la solitudine, la degradazione, la perdita di quel che abbiamo e di quel che siamo, resta l’unico bottino. Ed essendo noi stessi ad aver intrapreso quell’avventura e non volendocene assumere le responsabilità, allora la addebitiamo a Dio: ma perché Dio non ha infranto questo mio folle progetto? Perché Dio non mi ha trattenuto? Perché mi ha lasciato cadere nel peccato? Probabilmente le stesse domande scaraventate, quando era “lontano”, dal secondogenito, contro il padre: “Perché non si è opposto alla mia richiesta di avere subito l’eredità? Perché me l’ha data? Perché ha permesso questo allontanamento che si è rivelato così tanto devastante?”.

Certo è che la parabola raccontata da Gesù mette a tema, ancora, l’idea di Dio che ci portiamo dentro. Nella Quaresima-Pasqua del 2018, Dio smascherato, abbiamo riflettuto come comunità cristiana, proprio sulle tragiche contraffazioni e caricature che culliamo di Dio. In Luca 15,11-32, sia per il figlio che va, sia per il figlio che resta (ma senza esserci). Per i motivi suoi il cadetto, e per motivi altri il maggiore, entrambi hanno, sul padre, uno sguardo obliquo, alterato. Uno sguardo guasto. E questo può essere anche il nostro sguardo. Vediamo allora Dio come antagonista e competitore rivale. Per questo, come i due figli della parabola, fuggiamo da lui. E la sua caricatura più riprodotta è Dio come impedimento alla propria realizzazione. Provvidenzialmente, in questi ultimi tre anni, i primi 12 capitoli di Genesi che ci hanno accompagnato nella lectio divina mensile, gettano una luce vivida su questa parabola lucana: la bramosia di realizzarsi lontano dal padre, nel possesso autonomo dei beni ricevuti in dono, altro non è che il ripetersi del dramma dei “peccati originali”: la creatura umana elegge se stessa come epicentro della propria esistenza, in una mortifera autoreferenzialità, sospinta avanti dall’ingannevole illusione di sperimentare libertà e vita, come se risiedessero in sé anziché nella relazione filiale con Dio.

 

Meno dei porci

Erosi anche gli ultimi rimasugli dell’eredità, si estingue anche l’ultimo legame che lo univa al padre. Famelico di libertà e di autonomia, quel figlio che aveva rifiutato il padre come origine di vita, viene lambito dalla morte: là, lontano, dove il giovane è approdato, dopo lo scialo e la dissipazione compulsiva che lo ha reso nullatenente, irrompe una forte/grande limòs “fame/carestia”. È travolto dalla fame ma, ancora di più, dall’annientamento sociale: deve mettersi a servizio di pagani – cosa che per un giudeo è abominio – fino all’abiezione somma, una vera morte religiosa. Solo con i porci (vv. 15-16), ormai, il giovane ha familiarità e compagnia. Un detto del Talmud di Babilonia quantifica crudamente la situazione del giovane: “Maledetto l’uomo che alleva porci!” (b, BabQ 82b). Come sappiamo, da Levitico 11,7, il maiale è indicato come l’animale impuro per eccellenza.

Il decadimento è totale: fisico, sociale, religioso. Le stesse carrube che i porci divorano, lui non può toccarle: i proprietari pagani non gliene concedono. Valgono più i porci di lui. Il ritratto del poveretto è tragico. Il vocabolario usato nel greco è duro: al termine di una scena rapidissima il disgraziato appare solo desideroso di “riempirsi il ventre” col cibo che mangiano i porci (v. 16). L’espressione è così tanto grossolana che la tradizione manoscritta – copisti e traduttori – hanno tentato di addolcirla in vari modi. Ma essa fa ben comprendere l’avvilimento in cui il giovane è sprofondato. L’eredità scippata, a questo punto, reclama un pareggio: finito a fare il mandriano di porci, senza neppure potersi cibare delle loro carrube, la contiguità, è proprio il caso di dirlo, con l’impurità fatta carne, gli impone di fare a meno anche della preziosissima eredità salvifica del suo popolo, Israele.

«Molti di noi danno per scontato che, se non avessimo mai compiuti errori, probabilmente non avremmo mai fatto scoperte. Certo, l’unico vero errore è quello dal quale si è imparato nulla. Gli errori sono esperienze istruttive. Dunque, benvenuti nel club! Così come avviene per molte virtù, lo spirito di comprensione e tolleranza incomincia a casa propria. In un modo o nell’altro molti di noi devono giungere alla disperazione, prima di poter offrire a se stessi comprensione e gentilezza. Dobbiamo toccare il cosiddetto fondo prima di poterci di nuovo rialzare. E allora, devo domandarmi: a che punto sono? Mi sono liberato dall’abitudine di rivangare gli errori del passato? Mi sono liberato dei sentimenti di imbarazzo per le mie colpe e le mie lamentele? Posso dire con onestà e in pace: “Questa è la persona che abitualmente ero, il mio vecchio io; non è la persona che sono ora, l’io nuovo e attuale?”. Molti di noi non capiscono di aver imparato dagli errori passati, e di avere superato grazie ad essi alcune immaturità. Mi rendo conto che il “vecchio io” ha insegnato molte cose al “nuovo io”? La trappola, qui, consiste nell’identificarmi con il lato oscuro della mia personalità e con i miei errori passati, nel pensare a me stesso com’ero una volta. Quasi come quella persona che da piccola era grassa, ma che da grande è diventata snella. La domanda fondamentale è: penso a me stesso come grasso o come magro? Chiaramente, crescere significa cambiare, e cambiare significa “lasciar perdere”. È una cosa difficile o facile per te? Ricorda, dobbiamo cominciare con un’onestà spietata, o non potremo mai giungere alla verità. E senza verità, non c’è crescita né gioia» (J. Powell).

 

Almeno salariato…

Toccato il fondo e sfondatolo, il figlio che ha centellinato l’amarezza di una terra pagana, la disumanità di padroni avidi e la compagnia di porci voraci, inizia a rientrare in se stesso (ma è proprio un inizio!): “Allora pensando rientrò in se stesso: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame!” (v. 17). Il complesso cammino del rientro a casa – per un’esatta identificazione dei veri tratti del padre, ci vorranno i segni che solo il padre stesso porrà – nasce dalla sua insopportabile situazione. Plasticamente, un testo rabbinico dice: “Quando gli Israeliti sono costretti a mangiare carrube, si convertono”.

Il fallimento lo riconduce dal fuori-di-sé al dentro-di-sé. A partire dalla nostra personale esperienza umana, non è difficile immaginare quanto sia stato faticoso questo rientro per il figlio, carico di sofferenza. È umano: solo smaltendo le proprie sbornie esistenziali e venendo meno ogni anestesia e diversivo, incominciamo a chiamare le cose con il proprio nome e a porci domande sensate. Solitamente facciamo grande fatica a riconoscere il nostro fallimento e il nostro peccato. Fino a quando pensiamo di aver “solo” infranto una legge, non c’è via d’uscita: non c’è conversione vera e dunque non zampilla vita vera. Iniziamo – ma, anche qui, è proprio solo l’inizio – a capire che ciò che abbiamo fatto è davvero male, quando apriamo gli occhi sul male che ci siamo fatti. Necessita un tempo lungo per arrivare a dare un nome al male che ci siamo fatti e abbiamo fatto. Perché il peccato è seducente, affascina. I nostri peccati ci piacciono, ci appaiono belli, indispensabili, utili, improcrastinabili. Ecco perché li rieditiamo spasmodicamente. Non ci ferma neppure la consapevolezza che il peccato, pur promettendo tanto, anzi tutto, non riesce mai, mai a mantenere le promesse fatte. Il male commesso ci immerge inevitabilmente in un oceano di delusione. Quando iniziamo a scoprire che è un male fatto a noi stessi, che l’illusione ci ha narcotizzati e che siamo stati defraudati di vita, quella nostra, allora iniziamo a chiamare le cose con il proprio nome ed è finalmente possibile il cammino di riconoscimento della colpa. Inizialmente non è ancora l’identificazione di un male fatto ai fratelli e a Dio, ma è tuttavia un “disagio benedetto”, è il passo giusto sulla via della vita.

C’è tutto ciò nel cuore di questo figlio. Riconosce il fallimento delle sue scelte, ma ancora non sa chi sia suo padre. I suoi pensieri e le sue parole traducono la voglia di ritorno e, trasparentemente, la sua estraneità dal padre.

Vuole tornare, sì. Ma ciò che lo muove a riprendere il cammino verso casa non è ancora la mancanza del volto del padre, non è ancora il suo affetto che lui, figlio, ha irriso, non è ancora la consapevolezza dell’ingiustizia che gli ha fatto patire, non è ancora il dolore per la sconsideratezza delle sue azioni che hanno tramortito il padre… No. La nostalgia della casa paterna, è motivata dalla “sovrabbondanza di pane” che gli operai di suo padre possono comodamente e abbondantemente mangiare.

Dunque andrà dal padre perché questi lo assuma come suo salariato. All’ipotesi di tornare nella sua oggettiva condizione, quella di figlio, neppure ci pensa… Il giovane sa che non ha meriti da presentare (cf Lc 18,13), che è nella condizione di dover aspettare ormai tutto da altri. Certo, dovrà passare (inevitabilmente) attraverso il padre per ottenere quel pane. Da qui le parole rimuginate tra sé e sé, tentando di metterle in fila in modo convincente quando è ancora “lontano” da casa.

Il soliloquio del figlio che vuole tornare a casa ha diverse sfaccettature: potrebbero essere intese come parole diplomatiche, “ad effetto”, per ricomprarsi il padre e così essere assunto da salariato e, finalmente, mangiare il pane. Alla pancia non si comanda! Ma, insieme, possono essere lette come parole cariche di vita, che dicono tanto eloquentemente di sé e di come, ancora, vede suo padre e vede se stesso: “Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati” (vv. 18-19). Quanto queste parole fossero superflue per poter far colpo sul padre si incaricherà il seguito della parabola a dimostrarlo. Quanto, invece, raccontino di lui, è immediatamente evidente. “Non sono degno… trattami come…”: il giovane è tutto autocentrato in sé e non riesce a fuoriuscire dal bozzolo del suo io, per vivere finalmente una relazione vera, libera, gioiosa con il padre. Per lui, che ha troncato così bruscamente la relazione con il padre, non è concepibile che questi possa avere, invece, un cuore che batte ancora, senza sosta, proprio per lui! Le logiche del padre sono così tanto lontane dal suo orizzonte…

Si “autopunisce”, declassandosi a salariato, per ri-guadagnarsi un amore che, dalla parte del padre, mai è venuto meno. Sì, dovrà rivivere l’esperienza di quella gratuità di amore che, d’altra parte, mai aveva smesso di fluire dal cuore del padre, fin da quella eredità così malamente chiesta e ricevuta, al contrario, senza predicozzi, sfuriate, recriminazioni da parte del legittimo – e ben vivo – proprietario. Ma si sa: solo la gratuità risulta essere il volto guarito dell’amore!

 

Salariato e stop!

Ma in quelle parole da dire a suo padre, architettate dal figlio e pensate un po’ come ticket per il pane, a ben vedere, c’è di più. La proposta di autodeclassamento da figlio a salariato, oltre a esternare la sua radicata convinzione di non poter più essere davvero trattato da figlio ma, ben che vada, da salariato, è l’esplicitazione dell’orientamento dominante che, ascoltatori e lettori della parabola, portano in cuore. La soluzione proposta dal figlio con convinzione è, con uguale e ancor più tenace convinzione, sostenuta da chi, basito, ascolta la parabola: dopo ciò che è successo e il ragazzo ha combinato, tutti propendono verso una soluzione che approvano come “accettabile”, “equa”, di “buon senso”, addirittura generosa (e che verrà sottoscritta volentieri anche dal primogenito!): che il prodigo sia ammesso, sì, ma da salariato. Non da figlio. L’ingiustizia sarebbe palese e insopportabile. Tutti concordano, dal proponente a scribi e farisei, a discepoli, ad ascoltatori vari… Tutti tranne Gesù che racconta il Padre. È precisamente in contrasto con questa soluzione “ragionevole” che la condotta del Padre apparirà irragionevole, stravagante. E la parabola stessa, quasi bestemmia.

Come del secondogenito conosciamo parole e convinzioni circa l’autodeclassamento a salariato per rimettere piede in casa, così anche del primogenito: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso” (vv. 29-30).

Come se non bastasse l’amplificazione dell’orientamento proprio e dei circostanti espressa dal figlio minore, il parabolista dà la parola al figlio maggiore, permettendogli di esternare, a nome proprio e, ancora una volta, a nome degli uditori/lettori della parabola, la sorpresa scandalizzata davanti alla condotta del Padre. Tu sei matto! I due fratelli, separatamente ma all’unisono, concordano e danno voce ai circostanti. Tutti concordano. Tranne Gesù, che racconta il Padre.

Certo, non tutti gli uditori/lettori della parabola approvano la brutalità dei modi e l’inconsistenza degli argomenti che il primogenito scaglia contro il Padre, è certo, però, che non gli danno torto fino in fondo. Avrebbero (avremmo?) potuto essere d’accordo, in uno slancio di già eccessiva accondiscendenza, su una riammissione a casa come operaio. Ma certamente stimano (stimiamo?) fuor di luogo e ingiustificabile l’accoglienza generosa, gratuita, senza ragione, esagerata, eccessiva, sproporzionata, incondizionata, ingiusta, riservatagli dal Padre. Gesù non può mostrare più chiaramente che non intende affatto rendere conto della condotta del Padre in funzione del criterio di una semplice giustizia distributiva e che vuole invece denunciare la piccineria di questo criterio disumanizzato. Che deve, perciò, saltare: “se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 5,20).

«Una delle più grandi provocazioni della vita spirituale è ricevere il perdono di Dio. C’è qualcosa in noi, esseri umani, che ci tiene tenacemente aggrappati ai nostri peccati e non ci permette di lasciare che Dio cancelli il nostro passato e ci offra un inizio completamente nuovo. Qualche volta sembra persino che io voglia dimostrare a Dio che le mie tenebre sono troppo grandi per essere dissolte. Mentre Dio vuole restituirmi la piena dignità della condizione di figlio, continuo a insistere che mi sistemerò come garzone. Ma voglio davvero essere restituito alla piena responsabilità di figlio? Voglio davvero essere totalmente perdonato in modo che sia possibile una vita del tutto nuova? Ho fiducia in me stesso e in una redenzione così radicale? Voglio rompere con la mia ribellione profondamente radicata contro Dio e arrendermi in modo così assoluto al suo amore da far emergere una persona nuova? Ricevere il perdono esige la volontà totale di lasciare che Dio sia Dio e compia ogni risanamento, reintegrazione e rinnovamento. Fin quando voglio fare anche soltanto una parte di tutto questo da solo, mi accontento di soluzioni parziali, come quella di diventare un garzone. Come garzone posso ancora mantenere le distanze, ribellarmi, rifiutare, scioperare, scappare via o lamentarmi della paga. Come figlio prediletto devo rivendicare la mia piena dignità e cominciare a prepararmi a diventare io stesso il padre». (H.J.M. Nouwen).

 

Figlio scippatore. Ma sempre figlio

Nel testo parabolico, i fotogrammi della scena del figlio minore che torna a casa, paiono consegnati al lettore con sequenza rallentata, perché li imprima in sé e non ne perda memoria: “Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò” (v. 20). La scansione dei verbi è incalzante e insieme solenne, quasi a scolpire scultoreamente la scena stessa. Riappare quel makrán, “lontano”, che aveva inghiottito il figlio via dal padre (v. 13); quando questi è ancora makrán, “lontano”, il padre lo scorge. E poiché mai ha smesso di essere padre, mai ha rinunciato ad attenderlo. Nella sua paternità ferita ma mai dismessa, dolente ma mai arresa, vigile perché immutabile, il padre persiste nell’attesa solerte del figlio. Lo amava prima che suo figlio si mostrasse “cattivo”, vale a dire prigioniero di sé e delle sue prospettive autoreferenziali, e ha continuato ad amarlo anche quando questi si è consegnato ad una lontananza totale. E lo ama e lo attende ora, quando ancora il figlio è domiciliato “lontano”. Attende, vigila e aspetta perché continua ad amare il figlio nella sua assenza, nella sua stessa ribellione e nel suo stesso peccato. Qui ha radice lo scandalo e lo sconcerto di chi ascolta la parabola e di cui, i due fratelli, si fanno portavoce: il secondogenito con la proposta del suo declassamento da figlio a salariato e il primogenito con l’autopresentazione di sé come figlio inappuntabile. Gesù sta dicendo che il Padre nostro e nostro Dio non ci ama solo quando siamo buoni, obbedienti, virtuosi e a lui vicini, ma ci ama sempre, perché sempre Padre e sempre Dio. Ci ama anche quando siamo… captivi!

Lo scandalo, per scribi e farisei, ha serio fondamento: Gesù sta dicendo loro che l’amore di Dio non può essere meritato, perché gratuito; che l’amore di Dio è sempre preveniente, che previene il figlio prima che al figlio venga in mente di amare il padre. Un amore sempre fedele che non viene meno anche quando viene meno il contraccambio. Un amore a-simmetrico, che non pretende reciprocità e perdura fedelmente anche quando l’altra parte fallisce nella fedeltà. Per un fariseo è davvero troppo! Ma, se qualche “religioso” pensa di meritare l’amore di Dio significa che né conosce Dio, né conosce la verità dell’amore.

In tutto questo, difficile pensare che il padre non sia consapevole della motivazione non trasparentissima e piuttosto interessata del ritorno: la fame del figlio e il pane della sua dispensa. Sorprendente eppure naturale per questo padre rimasto sempre padre: egli si accontenta anche di questa motivazione opaca. È il figlio che conta, il suo riaverlo, il suo poterlo stringere, il suo poterlo abbracciare e baciare. Incondizionatamente.

La “chiave di volta” della parabola è nell’espressione “ne ebbe compassione”, esplanchnísthê. Il padre resta sconvolto fino alle viscere. È una commozione, che lo prende interiormente; non pare ozioso ricordare che, se tra i personaggi della parabola la mamma è assente, non manca invece, affatto, la maternità. Tutto il suo essere vibra, il tutto del padre/madre diventa compassione per il figlio e si mette a correre, poi si getta al collo e lo bacia a lungo. È questo “colpo dentro”, uterino potremmo dire, che spinge il padre a fare tutto ciò che farà e dirà. La sua condotta è mossa solo da questo: gli corre incontro, per accorciare distanza e affrettare il tempo dell’incontro (così poco à plombe in una persona della sua condizione e della sua età), poi il gettarsi al collo del figlio per impedirgli di umiliarsi gettandosi ai suoi piedi, lo bacia, senza tenere in nessun conto le sue frequentazioni ultime: prostitute, pagani e porci.

Corsa, abbraccio, baci dicono al ragazzo ciò che interiormente lo guarisce, saziandolo infinitamente di più di quel pane bramato e non ancora mangiato: “mai ho smesso di considerarti figlio. Mai!”. Gli eloquenti gesti della compassione precedono e rendono superflue le parole della compassione: direttamente al figlio, non dirà alcuna parola. Sarebbero inadeguate, certamente inespressive rispetto a ciò che, concretamente, ha già compiuto. Dirà di nuovo, immediatamente, al figlio quelle parole rigeneranti, ma ancora e solo attraverso gesti: impartisce una sventagliata di comandi ai servi lì accorsi (quattro imperativi e due congiuntivi esortativi): “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa” (vv. 22-23). Bisogna quantificare anche visivamente che l’essere figlio, per questo padre, esige una pubblica visibilità. E i segni dell’essere figlio, mai obliterati nel cuore del padre, devono adornare il ragazzo “velocemente/subito” (v. 22), senza indugio: il vestito – stolê – è la veste lunga della festa che orna la persona di riguardo e che, talvolta, i re donavano a persone di prestigio o particolarmente meritevoli; l’anello – daktylios – non è un vezzo civettuolo ma il sigillo della casata, simbolo di una dignità e di un potere ben individuabile, stabile, riconosciuto; i sandali – ypodêmata – sono il segno di un uomo libero e ben posizionato; servi e schiavi vanno scalzi; il vitello è conservato per una circostanza particolare, allevato con particolare cura per una festa speciale. Urge far festa! È indispensabile far festa: la com-unione ritrovata e ricreata, non può che mutarsi in festa, in pasto condiviso. Tutto per continuare a dire: “mai ho smesso di considerarti figlio. Mai!”.

Gesti e segni per dire l’ineffabile. Tra il cuore del padre e quello del figlio, quale sarà il più esultante?

Dai gesti eloquenti del padre alle parole eloquenti del figlio. Abbiamo parlato di una verità variegata di quelle parole: allora, “lontano”, sarebbero potute apparire tattiche, diplomatiche, “ad effetto” e quasi di sfondamento, per aprirsi un varco verso la madia del pane. Qui, ora, dopo i gesti della compassione posti dal padre e l’ineffabilità del suo silenzio, appaiono di uno sfavillio che le fa percepire come parole grandi. Grandi perché sostanziate della verità, dell’identità propria e di quella del padre: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio” (v 21). Queste parole vere e grondanti vita, liberanti e salvifiche, il padre le ascolta volentieri. Le attendeva. Non lo interrompe, non rettifica né precisa nulla di ciò che sgorga dal cuore e dalle labbra del figlio.

Ma l’apice dei gesti della compassione posto dal padre è nel sostituire quelle parole pensate dal figlio, quando ancora era “lontano”: “Trattami come uno dei tuoi servi” (v. 19). Ascolta e condivide in silenzio il grido della verità che preme e deve essere palesata: “Ho peccato contro il Cielo e contro di te”; capisce e condivide che egli viva e patisca il dramma di una filialità prosciugata di dignità: “Non sono più degno di essere chiamato tuo figlio” ma “Trattami come uno dei tuoi servi” qui, ora, restano parole ormai impronunciabili. Semplicemente perché, dopo i gesti della compassione – corsa, abbraccio, baci – queste parole si sono afflosciate, non riescono più a stare in piedi perché svuotate. La modalità di sostituzione è pedagogicamente e letterariamente sorprendente: mentre il figlio stava per balbettare: “Trattami come uno dei tuoi servi” il padre “disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”.

Solo la potenza sanante dei gesti della compassione del padre impedisce al figlio di sfoderare intempestivamente – ancora! – la sua caricaturale convinzione e sul padre e su se stesso: “trattami da servo”. Ancora non ha capito! Capirà solo alla fine, quando i servi, imperàti dal padre, sull’aspirante servo, porranno tutti i segni di una dignità restituita, di un amore mai disattivato, di una figliolanza mai bandita. Capirà con la festa fatta proprio per lui: “Cominciarono a fare festa” (v. 24). Festa fatta senza avvertire il figlio maggiore!? Sì, come nelle due piccole parabole precedenti, la festa deve essere fatta per cosa o per chi si era perduto e che si è ritrovato. Il figlio riornato e ritrovato, c’è. Sia festa perché il figlio è qui! Anche la ricorrenza e la posizione dello stesso termine figlio aiuta a comprendere: ritorna tre volte e sempre in crescendo: al v. 21 “figlio” appartiene al racconto, poi diventa “non-tuo-figlio” sulla bocca del giovane, per trasformarsi infine in “questo-mio-figlio” nelle parole del padre. Forse risulta non del tutto comprensibile il comportamento del padre, ma a lui Pascal, presterebbe il suo celebre pensiero: “Il cuore ha delle ragioni che la ragione non riesce a comprendere”.

È dunque solo davanti a questo Padre che avvolge con i gesti della compassione e riveste dei segni della inalienabile dignità e che ordina, per lui, la festa, che il secondogenito è guarito dal suo senso di colpa. Fa’ l’esperienza ri-creativa del perdono incondizionato di Dio. Fa’ Pasqua, perché “era morto ed è tornato in vita”.

Ora lo ha capito: non spetta al figlio porsi tra i servi, neppure quando è lui stesso, e per qualsiasi motivo, a invocare tale riposizionamento. La paternità lo precede sempre e la dismissione della figliolanza non è contemplata nel codice del cuore.

 

Figlio pretenzioso. Ma sempre figlio

Ai vv. 25-32 fa la sua comparsa l’altro figlio, il maggiore, quello rimasto a casa, buonino e che, come ogni santo giorno, torna puntualmente dal lavoro nei campi. Movimenta tutta la seconda parte della parabola; parole e stili rivelano i suoi sentimenti verso il padre e verso il fratello e svelano, non poco, la sua identità e il suo cuore. Tuttavia, come nella scena precedente, il padre, con parole (poche) e gesti più che eloquenti, svela il suo cuore.

Musica e danze, più che accarezzare, feriscono le orecchie del primogenito che torna dalla lunga fatica giornaliera. Sarà da un servo, uno dei tanti, da lui interrogato, che viene a sapere del ritorno del fratello, dell’arrostimento del (suo!) vitello e, notizia con botto, che era stato proprio suo padre a decidere, su due piedi, quella festa per lo scavezzacollo transfuga redivivo (ma si erano perse fortunatamente le tracce!), facendo sacrificare il raro esemplare vaccino.

Non ha nessuna intenzione di entrare alla festa, né di congratularsi con il fratello e tanto meno di farlo col padre. Il pensiero, poi, di addentare quell’arrosto di vitello che veniva solitamente ingrassato proprio per le nozze del primogenito, glielo faceva andare di traverso pur non avendolo neppure messo in bocca. Era imbestialito. Altro che festa! La sua è una reazione di ostilità e di rottura: “si infuriò – ôrghísthê – e non voleva entrare” (v. 28). È in collera. L’aoristo ingressivo usato nel greco, indica l’inizio di un’azione, il suo cominciare per continuare la sua azione nel tempo: è solo l’inizio della collera e dello sdegno che si espanderà ben oltre questo momento puntuale, invadendo, infatti, tutto e tutti. Il quadrinomio festa/vitello/fratello-scapestrato/padre-irriconoscente, accende l’indignazione del maggiore. Collera e sdegno che stride chiassosamente con la commozione del padre nel riavere il figlio minore. Quanto quel “colpo alle viscere” innerva ogni gesto e parola del padre verso il secondogenito nella prima parte della parabola, tanto questo sentimento opposto invischia di sé ogni parola e gesto del maggiore, verso suo fratello e verso suo padre, nella seconda parte.

Di fronte al tornare in vita di questo fratello sfaticato, donnaiolo, sprecone, depravato e, soprattutto, religiosamente imbastardito, questo impeccabile buonuomo, prova una rabbia e una gelosia che lo cementifica sull’uscio di casa. Non può tollerare, e proprio in nome della giustizia, che quel suo fratello diventi causa di una festa grande e gioiosa. Una festa-frode visto che, se proprio ci doveva essere un festeggiato, questo doveva ben essere lui… E mette davanti al padre la sua giustizia: “Non ho mai trasgredito uno dei tuoi comandi” (v. 29). Questo figlio dice: “Come è possibile? Mentre io sono rimasto a casa, ti ho sempre ubbidito facendo giudiziosamente il mio lavoro, ho tirato avanti per anni con fatica, ora improvvisi questo schifo di festa per chi ha rinnegato, danneggiato e umiliato te e me? Non entro, questa festa non mi appartiene”. Non riesce a darsi ragione dell’assurda gratuità del padre proprio con quel figlio. Al maggiore, il padre del figlio indegno, non sembra più suo padre. “Ecco io ti servo – douléuo – da tanti anni…” (v. 29). Pensa sia la frase più saggia e la difesa più affilata da sfoderare davanti al padre e non si accorge che sta parlando di lui come di un padrone al cui servizio lavora come schiavo (il servire del v. 29 è proprio eloquente). In queste parole dure e piene di pretesa, è riflesso il cuore di questo figlio. È un servo che, nonostante una vita passata con il padre, non ne ha mai potuto conoscere il cuore. Ha servito attendendo di essere ripagato: “non mi hai mai dato un capretto…”: (v. 29). In fondo, non ha mai amato il padre perché non lo ha mai sentito come tale.

È l’esperienza di gratuità dell’amore compassionevole del padre che, a differenza del fratello, non ha fatto. Perfettino e regolare, senza mai uno svarione, senza mai il brivido di un’improvvida (anche se, forse, concupìta) scivolata, non ha mai sperimentato la propria fragilità, non ha mai dovuto fare i conti con un proprio, ingombrante peccato. Per questo stenta ad aprirsi alla gratuità dell’amore e quindi alla compassione. «Egli è il figlio perbene, l’alter ego di farisei e scribi. Anch’egli è un figlio mancato. Pur essendo sempre stato nella casa paterna, neppure lui ha mai capito il cuore del padre. Sin dall’inizio della parabola – “un uomo aveva due figli” – Luca ha predisposto un confronto tra i due, per mostrare come entrambi pensino al padre con la medesima mentalità: entrambi si considerano servi, entrambi credono che l’amore e l’approvazione del padre sia qualcosa da meritare. Il figlio minore ritiene di esserne indegno; il figlio maggiore si ritiene di esserne degno e giudica il padre ingiusto nei suoi confronti per non avergli dato l’amore concesso al fratello […]. Il figlio maggiore non riesce a vedere oltre gli orizzonti angusti del proprio io: è prigioniero della sua mentalità di lavoro, di fatica, di osservanza, di paragoni e di meriti. Anche il maggiore ragiona in termini religiosi: è il prototipo del “credente ateo” che fa le cose di Dio senza Dio. Il figlio maggiore considera il padre come uno che non gli ha permesso di vivere felice. Egli pensa che, tutto sommato, andare con le prostitute sia meglio che stare in casa senza capretto. In realtà il capretto lo ha sempre avuto, perché quel che è del padre è anche del figlio. Se egli vivesse la sua permanenza in casa del padre come una vita in pienezza e non di sforzi, non potrebbe che gioire vedendo tornare il fratello. La gioia che si prova per il bene dell’altro e per la sua conversione è un indicatore dell’autenticità della fede di “quelli di casa”» (L. Rossi).

Ma c’è casa, c’è festa e se il figlio si è irrigidito sulla soglia di casa, impuntato come un mulo testardo, il padre va verso di lui: “ma suo padre uscì e continuava a pregarlo – parekálei” (v. 28). Era già uscito, si era messo a correre incontro al figlio perduto e riavuto; adesso esce e va incontro al figlio, il figlio irreprensibile, il figlio disciplinato e devoto, ma che adesso non vuole entrare in casa per far festa. È ancora il padre a prendere l’iniziativa e a muovere il primo passo per accorciare le distanze.

Precisamente come il fratello minore che reclamava la sua parte di eredità per potersene andare, così il ligio lavoratore rivendica i suoi diritti. Le sue parole trasudano l’orgogliosa arroganza del suo perbenismo, la sua incondizionata e assoluta fedeltà, e imputa al padre/padrone, solo e sempre “servito”, la colpa di essere stato un fastidioso freno a mano tirato sulla via della sua realizzazione e della sua felicità.

Le intemperanze verbali del figlio maggiore non trovano, nel padre, sbarramento, replica, biasimo. Il padre non lo interrompe (cf vv. 29-30), proprio come non aveva interrotto o rimbrottato il figlio minore tornato dal suo folle vagabondare (cf vv. 21-24). Anzi, al figlio maggiore, che lo tratta a pesci in faccia, il padre si rivolge con particolare tenerezza: “figlio, tu, tu sei sempre con me!” (v. 31): nel greco, quel tu è superfluo e piazzato lì proprio per sottolineare l’amore personale che il padre gli porta, per dirgli la grande gioia di averlo pàntote, sempre, con sé. Lo vezzeggia.

Chiamandolo “figlio”, il padre gli ricorda quella relazione di comunione che il maggiore ha sempre vissuta, forse senza capirla pienamente, sicuramente senza apprezzarla se ora, in un momento di tanta gioia, egli si estranea e prende scomposta distanza: non si rivolge mai al padre direttamente, chiamandolo padre (il minore lo identificherà così per cinque volte), e parlando del fratello, per non appellarlo così, perché incapace di riconoscerlo come fratello, aggira l’ostacolo dicendo “questo tuo figlio” (v. 30). Ma così è: quando si è figli mancati si è anche fratelli mancati. Ma “Figlio, tu sei sempre con me”, vale a dire: tu hai una posizione privilegiata! E questa comunione di persone si trasfonde, naturalmente, in una comunione di beni: “tutto ciò che è mio è tuo”.

Le parole del padre smontano la pretesa sicurezza del figlio ed evidenziano che neppure lui ha compreso il padre. Infatti, non ne condivide i sentimenti e si dissocia dalla festa della comune riconciliazione. Le sue ragioni potrebbero anche essere valide ma, nel momento e nel modo in cui vengono rivendicate, manifestano l’inconsistenza della relazione con il padre.

 

Parabola in-finita

La parabola ha un finale che finale non è: resta spalancato senza offrire reale conclusione. Mentre nelle altre due parabole narrate da Gesù all’inizio del capitolo quindici – Lc 15,3-10: la pecora e la dracma ritrovata – l’attenzione è sul pastore e sulla donna e tutto è legato al loro cercare il bene perduto e c’è un finale gioioso nella condivisione con vicini ed amici, la parabola della eccedenza di paternità, resta incompiuta.

Le domande evase sono tante: com’è veramente finita? Il prodigo, una volta fatto entrare incondizionatamente in casa, avrà capito la logica del padre? Che l’amore del padre verso di lui non aveva mai avuto battute di arresto? Avrà mai cambiato stili di vita una volta accolto con quella misericordia esagerata e immotivata? Avrà deposto la convinzione di poter essere accolto solo se integerrimo? E il fratello maggiore che era restato a casa – eppur domiciliato con il cuore in un altrove – riconoscerà il padre come padre? Abbraccerà il fratello? La preghiera del padre che esito avrà? Entrerà il maggiore a far festa?

Dopo aver ascoltato Gesù, Figlio, Signore e Maestro e aver impresso in cuore i suoi gesti di prossimità e gratuità a vicini e lontani, a (presunti) giusti e additabili peccatori, a figli (entrambi ir-riconoscenti), ognuno è chiamato a rispondere impersonando gli stili di Gesù o rifiutandoli.

«L’amore del Padre non è un atto di costrizione. Sebbene il Padre voglia guarirci da tutte le nostre tenebre interiori, siamo sempre liberi di fare la nostra scelta, di rimanere nelle tenebre o di entrare nella luce dell’amore di Dio. Dio è là. La luce di Dio è là. Il perdono di Dio è là. L’amore sconfinato di Dio è là. Ciò che è sicuro è che Dio è sempre là, sempre pronto a donare e perdonare, in modo assolutamente indipendente dalla nostra risposta. L’amore di Dio non dipende dal nostro pentimento o dai nostri cambiamenti ulteriori o esteriori. Che io sia il figlio minore o il figlio maggiore, l’unico desiderio di Dio è di portarmi a casa. Arthur Freeman scrive: “Il padre ama ogni figlio e da ad ognuno la libertà di essere ciò che vuole, ma non può dar loro la libertà che non si sentiranno di assumere o che non comprenderanno adeguatamente. Il padre sembra rendersi conto, al di là dei costumi della società in cui vive, del bisogno dei propri figli di essere se stessi. Ma egli sa anche che hanno bisogno del suo amore e di una casa. Come si concluderà la storia dipende da loro. Il fatto che la parabola non abbia un finale garantisce che l’amore del padre non dipende da una conclusione appropriata del racconto. L’amore del padre dipende solo da lui e fa esclusivamente parte del suo carattere. Come dice Shakespeare in uno dei suoi sonetti: “L’amore non è amore se muta quando trova mutamenti”» (H.J.M. Nouwen).

I due figli, davanti al padre, sono due persone dotate di libertà e chiamate, come tutti, ad esercitare la loro responsabilità. Il padre compie tutta la sua parte ma non tutto dipende soltanto da lui perché ha voluto persone e non burattini. La parabola è aperta perché convoca ciascun lettore e lo spinge a prendere posizione nel conflitto di tre punti di vista che si intersecano nel racconto: quello del figlio andato lontano dal padre e poi tornato, quello del figlio che era sempre restato a casa eppure – anche lui – lontano dal padre, e la logica del padre.

E noi chi siamo e con chi stiamo? Nel figlio andato via di casa e poi tornato? Dove ci collochiamo in questo suo tragitto? Stiamo ancora lontano da Dio? Stiamo “tornando” a Dio ma convinti di poter essere accolti solo se carichi di cose buone e belle da omaggiargli? Conosciamo e crediamo davvero all’amore di quel padre? Oppure siamo l’alter ego del figlio maggiore, mai allontanatosi da casa eppure “lontano”? Persisto anche io e recrimino verso Dio perché è stato più buono con altri che con me? E cosa sento verso i peccatori, gli irregolari, i “cattivi”?

Ma la domanda che rimbalza dalla parabola, di versetto in versetto, fino a insediarsi nel profondo del cuore di ogni ascoltatore è: che immagine di Dio porto dentro? che idea? quale teologia? Quale credito diamo al Dio consegnatoci da Gesù? Di un Dio che sa solo perdonare, che riaccoglie incondizionatamente il figlio “lontano” e quello “vicino-ma-lontano”? Di un amore sempre preveniente, sempre immeritato, la cui sproporzione lascia ammutoliti? Mentre andiamo verso il Padre, consci di essere a volte come il figlio che se ne è andato, a volte come il figlio restato a casa, ma in ogni caso sempre mancanti e sempre peccatori, guardiamo a Gesù che ci ha raccontato il vero volto del Padre, il cui amore non va da noi meritato ma semplicemente accolto. Credere vuol dire dar credito a Gesù, al Figlio che ci offre il vero volto del Padre. Sono dunque i discepoli, insieme a chi ascolta la parabola: pubblicani e peccatori, scribi e farisei e gli uditori di ogni tempo, prendendo personale posizione, a poterne e doverne scrivere il finale.

Siamo noi, credenti in Gesù, il finale “in atto”, oggi.

 

Memorandum

Ogni frammento della parabola si incarica di bandire l’impressione, anche remota, di un padre abile ragionatore, smanioso di presentare argomenti capaci di convincere, di spaventare, di umiliare. Tutto, invece, pare essere dettato da quel “colpo alle viscere” che continua a riecheggiare in ogni suo gesto, in ogni sua parola. Il padre stesso, tuttavia, fornisce una spiegazione della sua gioia. L’importanza che si annette a questa spiegazione risulta dal fatto che è ripetuta due volte e forma la conclusione di ciascuna delle due parti del racconto: “perché questo mio figlio (questo tuo fratello) era morto ed è tornato in vita; era perduto ed è stato ritrovato” (vv. 24.32). La gioia del padre è il figlio che torna!

Il lettore ha scoperto fin da subito che il motivo della gioia non poteva essere ricercato nei sentimenti e nelle motivazioni che hanno ricondotto a casa il figlio più giovane: fame, pane (cf v. 17), ma apprende che è lo stesso figlio redivivo, il motivo della gioia del padre. Proprio lui, solo lui. Il figlio era perso ed è stato ritrovato, era morto e ora vive: poteva esserci motivo più valido per gioire? È semplicemente il suo ritorno di figlio – per quanto indegno, dissoluto, peccatore, sciupone, eretico, inaffidabile, contaminato etc. etc. – che colpisce il padre alle viscere. Quel ritorno/risurrezione, motivo della gioia, disvela il cuore del padre, ne dissigilla il cuore: prima c’è l’amore che irrompe come offerta generosa, gratuita, senza ragione, esagerata, eccessiva, sproporzionata da parte di Dio, strappando ai gesti di conversione (?) dei figli – tra l’altro non posti o ambigui –, l’obbligo del primo passo. La conversione è sempre risposta alla prevenienza della traboccante misericordia. Proprio in questo consiste il lieto annuncio, il carattere gioioso della conversione evangelica. Proprio in questo risiede l’esplosività di questa pagina lucana realmente unica.

È l’amore del padre, il suo dono, quella gratuità che diventa trasparente nella festa per il figlio ritrovato, a rivelare il suo volto e trasformare in figli quei due giovani che, in fondo, si sentivano solo servi. Se lo accoglieranno, cambieranno occhi e cuore perché, pur con percorsi differenti, tutti e due questi figli sono chiamati a conoscere chi è il loro padre.

Ce la faranno i due eredi? Come detto, la loro risposta è affidata ai nostri gesti e alle nostre labbra.

La parabola ci suggerisce un memorandum che ci accompagni in questo tempo di ascolto più attento e prolungato della parola di Dio, tempo di digiuno dal peccato, dall’odio, dalla violenza fratricida – anche quella che non fa fuoriuscire sangue eppure lascia dietro a sé fratelli e sorelle derubati di vita – tempo per riscoprirsi figli amati dal Padre di Gesù e fratelli tra noi.

  • L’accoglienza che entrambi, immeritatamente, hanno ricevuto, ha radice tutta e solo nel cuore del padre che sa amare in modo indefettibile e incondizionato. Entrambi i figli necessitano di ricevere l’abbraccio benedicente del padre, perché dis-persi e, proprio per questo, prediletti.

E tu, “tu sei invidioso perché io sono buono?”.

  • Nessuno dei due ha posto gesti di vera figliolanza: il secondogenito ha dimostrato di non aver alcuna idea di questo amore, quando si è deciso di ritornare dal padre in qualità di servo perché la condotta indegna gli impedisce di sentirsi ancora figlio. Fino al ritorno del fratello, il primogenito, ha tenuto un contegno irreprensibile col padre. Ma da figlio? Sembra di no, a giudicare dalla reazione che ha dinanzi alla condotta con cui il padre manifesta la gratuità smodata del suo amore verso l’altro figlio.

E tu, “tu sei invidioso perché io sono buono?”.

  • Rifiutarsi di riconoscere l’altro come fratello rende incapace di considerare se stessi come figli e di considerare il padre come proprio padre. Quando l’altro non è amato come fratello, viene depotenziata la percezione del Padre come proprio Padre. L’amore con cui Dio ama incondizionatamente ciascuno di noi, diventa esperito solo vivendo da fratelli. Diversamente resta indecifrabile.

E tu, “tu sei invidioso perché io sono buono?”.

  • Da questo “Vangelo del Vangelo” nasce per noi un mandato: è necessario non tanto cercare il Padre quanto lasciarsi trovare da lui, dove e come si è; è necessario non tanto amare il Padre, quanto lasciarsi amare da lui; è necessario combattere il disprezzo di noi stessi e il degrado a cui, masochisticamente, ci sottomettiamo quando smettiamo di desiderare di essere figli accontentandoci della livrea dei servi.

E tu, “tu sei invidioso perché io sono buono?”.

 

P.S.: Dicono che il clou della festa scoccherà quando il maggiore riconoscerà e accetterà l’altro non come “questo-tuo-figlio”, bensì come “questo-mio-fratello”. Se ciò avviene, non è detto, la parabola rimane aperta come monito per i farisei di tutti i tempi (nel cui novero, ahinoi, potrebbero essere censiti anche i nostri nomi).

 

La prossima Quinta domenica di Quaresima, 29 marzo, la nostra Chiesa celebra la Giornata per il Fondo Episcopale di Solidarietà. Tutte le offerte raccolte durante ogni celebrazione eucaristica in ciascuna Parrocchia e in ciascuna Chiesa destinata al culto divino, confluiranno in detto Fondo.

Domando ad ogni parroco e ad ogni presbitero di accompagnare le comunità e i singoli a crescere nella consapevolezza di poter e dover diventare fratelli, condividendo con chi fa fatica a vivere.

Il mio grazie a tutti coloro che, fino ad ora, largamente, in questi anni, hanno aperto il cuore, non hanno girato lo sguardo dall’altra parte, sono emersi dalla marea dei pregiudizi e hanno posto mano a ciò che possiedono, poco o molto che sia, perché altri potessero rasserenarsi. A tutti e a ciascuno la mia e la riconoscenza dell’intera nostra Chiesa e di coloro che son stati fatti segno di attenzione.

Entro il mese di maggio ogni presbitero depositerà le offerte raccolte in tale giornata presso l’Economato diocesano. Come ogni anno verrà reso noto, tramite il giornale diocesano Dialogo, quanto la carità avrà saputo smuovere la nostra generosità.

 

Nel messaggio quaresimale rivolto quest’anno da Papa Francesco a tutta la Chiesa, risuona, impellente e dal timbro improrogabile, l’invito paolino: “Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio!” (2Cor 5,20). Dalla luce e dalla forza evangelica della parabola lucana che condividiamo nella fede, lo Spirito del Vivente Signore converta in noi le logiche mercenarie in logiche di gratuità, le logiche faziose in logiche di comunione, le logiche della recriminazione in logiche di fraternità, le logiche della irresponsabilità in logiche di presa in carico.

Ogni fratello ri-conosciuto come tale, riattiva in noi, per grazia di Dio, un allargamento del cuore e un impulso rinnovato di generosità. Da fratello a fratello vi esorto: “Ciascuno dia secondo quanto ha deciso nel suo cuore, non con tristezza né per forza, perché Dio ama chi dona con gioia” (2Cor 9,7). Questo nostro comune cammino quaresimale illuminato dalla Parola e riscaldato dalla condivisione fraterna, ci conduca tutti alla gioia della Pasqua.

La Vergine Maria, sorella e madre, “figlia del suo Figlio” e obbediente alla Parola, ci doni la gioia di riscoprirci fratelli e sorelle perché figli dell’unico Padre.

Fraternamente tutti abbraccio e su tutti invoco la pace del cuore e la gioia del Vangelo

 

          ✠ padre Mauro Maria