Messaggio per la Quaresima-Pasqua 2022 del Vescovo Mauro M. Morfino

Armàti dal Vangelo

Messaggio per la Quaresima-Pasqua 2022

 

Tempo di lotta. Nel cuore

Ancora una volta, per grazia, ci viene donato il santo tempo di Quaresima: come in ogni anno liturgico, è offerto ad ognuno di noi un nuovo inizio, una rinnovata possibilità di vita cristiana, per giungere – nuovi, appunto – alla Pasqua di Risurrezione di Gesù, alla sua vittoria sulla morte.

La Parola di Dio di questo tempo denso e intenso, ci rivolge un deciso invito alla conversione: ci chiama a tornare a Dio non un po’di più, non più velocemente, ma tornare a Dio “con tutto il cuore” (Gl 2,12). Perché, quest’incontro, necessita semplicemente di totalità.

Negli anni passati, molte volte mi sono soffermato con voi sulla centralità del cuore nel rapporto rinnovato con Dio, a partire da “La fede viene dall’ascolto” (Rm 10,17). Obbedire alla Parola per crescere nella fede, del 2012. Da lì, l’incandescente e indivisibile binomio Parola-cuore, ha accompagnato tanti momenti di riflessione vissuti lungo l’itinerario discepolare di questo decennio.

Ecco perché questo è un tempo favorevole anche per questa ri-presa della verità di se stessi, davanti a Dio, davanti alla Comunità, nel proprio cuore. È ancora nell’ascolto giornaliero della Parola di Dio, così caratterizzante la Quaresima, che può essere sanato quello che la Gaudium et spes indica come il dramma e il malessere di questo nostro tempo: lo scarto tra fede e vita (n° 43).

Un malessere che ciascuno di noi conosce per diretta esperienza.

Viviamo, più o meno marcatamente, una sorta di “schizofrenia spirituale” che ci impedisce di ricomporre il nostro essere profondo e di vivere. Nella Scrittura, questa rottura interiore, questo iato esistenziale, è gravosa eredità dell’idolatra, di chi si è sottoposto a molteplici appartenenze, a plurimi legami. L’idolatra è l’impuro di cuore. È chi vuole spartire o di fatto spartisce il proprio cuore, pur senza talvolta averne consapevolezza, con diversi padroni, finendo per diventare persona doppia, tripla e quindi divisa. Il tutto in una confusa e contraddittoria gerarchia di valori e disvalori. La spartizione degli affetti o la moltiplicazione delle appartenenze senza centro, determina la lacerazione dell’io.

“L’impuro di cuore” è una persona frantumata, dispersa, incapace di vivere secondo un’unica logica e di ritrovare se stesso in un’unica grande tensione di vita; è persona alienata e che s’aliena sempre più in ciò che fa, anche se, paradossalmente, lo può compiere correttamente e fa quel che il dovere gli chiede di fare; alienato perché privo d’un obiettivo che possa fare sintesi e dia unità al suo agire. Al contrario, il “puro di cuore”, nella Scrittura, è chi a Dio non nasconde nulla, ma gli consente di entrare in tutti gli angoli della sua persona e in tutti i settori della propria vita. È colui che vive una sola, forte appartenenza, liberandosi da tutte le altre, per vivere un solo, unico grande amore. La purezza del cuore è perciò quella semplicità interiore per cui l’uomo sceglie con un cuore pulito e trasparente, senza doppi fini, senza covare ambiguità, senza motivazioni false o pretestuose da mettere avanti per nascondere un interesse che non si può confessare o amori che minano l’amore. È una persona trasparente nella quale, il centro dell’essere, il cuore, la bocca, le parole ed i gesti sono coerenti, limpidi, senza doppiezza. Ecco perché il Maestro asserisce che solo i puri di cuore vedranno Dio (cf Mt 5,8).

L’attenzione è ancora, dunque, tutta centrata sul cuore, lì dove si formano i pensieri e le scelte: “Laceratevi il cuore e non le vesti, ritornate al Signore vostro Dio” (Gl 2,12). Ciò richiede trasparenza, ritornare in se stessi e mettere a nudo davanti al Signore le vere motivazioni dei propri comportamenti, delle scelte e degli stili di vita. La verità dei gesti richiede la trasparenza delle motivazioni.

È il cuore il luogo elettivo della lotta spirituale.

«Occorre ripetere quali sono le guerre e le lotte che ci attendono dopo il battesimo? […] Si tratta di cercare fuori di sé un campo di battaglia? Forse le mie parole ti stupiranno, eppure sono vere: limita la tua ricerca a te stesso! Tu devi lottare in te stesso […] perché il tuo nemico procede dal tuo cuore. Non sono io a dirlo, ma Cristo. Ascoltalo: “Dal cuore provengono i pensieri malvagi, gli omicidi, gli adultèri, le prostituzioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie” (Mt 15,19)» (Origene, Omelie su Giosuè 5,2). Ogni battezzato sa che deve misurarsi con questa lotta interiore, dove non ha nemici esterni da sbaragliare, ma ha a che fare, in se stesso, contro “il peccato che ci assedia” (Eb 12,1) e contro “le passioni cattive che fanno guerra nelle nostre membra” (cf Gc 4,1).

Porto in cuore a questo riguardo, una splendida testimonianza del Patriarca ecumenico Atenagora: «Per lottare efficacemente contro il male bisogna volgere la guerra all’interno, vincere il male in noi stessi. Si tratta della guerra più aspra, quella contro se stessi. Io questa guerra l’ho fatta. Per anni e anni. È stata terribile. Ma ora sono disarmato. Non ho più paura di niente, perché “l’amore scaccia la paura”. Sono disarmato della volontà di spuntarla, di giustificarmi alle spese degli altri. Sì, non ho più paura. Quando non si possiede più niente, non si ha più paura. “Chi ci separerà dall’amore di Cristo?”».

Un agone tutto endocardico contro quelle fascinazioni carsiche che sonnecchiano nella dark zone di ogni cuore e mai definitivamente sedate al punto di essere inoffensive. È (dolente) esperienza comune che, tali suggestioni, riaffiorano emergendo con rara veemenza aggressiva, fino ad assumere la connotazione di tentazioni seducenti. Ogni discepolo, in questo tempo santo, fa memoria del comando salvifico e rassicurante di Dio: “Il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è la sua brama, ma tu dominalo” (Gn 4,7).

Nella Bibbia, come tante volte ricordato, il cuore non è il luogo dei sentimenti e delle emozioni – che risiedono, invece, nelle reni –: il cuore è il luogo dell’intelligenza e della memoria, dell’intenzione e del desiderio, dell’amore e della risolutezza, della decisione e della responsabilità. Il cuore, come scriveva l’Accademico di Francia Antoine Guillaumont, archeologo e insigne linguista, è l’organo che meglio rappresenta la vita nella sua totalità: “sede della vita sensibile, della vita affettiva e della vita intellettuale, il cuore contiene gli elementi costitutivi di ciò che noi chiamiamo persona”.

Il Salterio ci ricorda che il cuore è “luogo impenetrabile” (cf Sal 64,7), il cui accesso è possibile solo a Dio: “Signore Dio di Israele […] tu solo conosci il cuore di tutti i figli degli uomini” (1Re 8,26.39); “Tu scruti il cuore e il profondo, tu, tu solo Dio giusto” (Sal 7,10); “Chi può conoscere il cuore? Io, il Signore, scruto il cuore ed esamino il profondo” (Ger 17,9-10). Solo Dio conosce, scruta e discerne senza fraintendimenti, in verità. Ed è in questo spazio, che si sottrae alla nitidezza dei concetti e dei lucidi, dimostrabili teoremi, ma che diventa accessibile attraverso il linguaggio simbolico, che Dio parla ad ogni umano, invitandolo a rispondere “Eccomi!”, desiderando aprire con tutti e con ciascuno, un dialogo.

Ecco dove giocare l’opportunità favorevole (cf 2Cor 6,2) di questa Quaresima 2022: nel cuore. “Laceratevi il cuore e non le vesti, ritornate al Signore vostro Dio” (Gl 2,12). È proprio al livello del cuore che si situa quotidianamente la decisione di aderire a questo dialogo: la scelta, cioè, tra un “cuore ascoltante” (lev shomea‘: 1Re 3,9), che lotta per dar spazio alla Parola di Dio seminata in esso (cf Mc 4,1-20) e un cuore, al contrario, disinteressato alla Parola. Un cuore tanto insensibile, distaccato e irrigidito da diventare incredulo: impastato di quella stessa durezza che Gesù definisce sklerokardía, cuore di pietra (cf Mt 19,8; Mc 10,5; 16,14).

Proprio perché il cuore è affetto da tale “pietrificazione”, proprio perché senza intelligenza, incapace di comprendere e discernere (cf Mc 6,52; 8,17-21) e capace, invece, di chiudersi alla compassione (cf Mc 3,5), di nutrire odio (cf Lv 19,17), gelosia e invidia (cf Gc 3,14); proprio perché può essere menzognero e “doppio/dípsychos” – aggettivo che traspone in greco una curiosa espressione ebraica che suona letteralmente “un cuore e un cuore: lev va-lev” (Sal 12,3; Gc 1,8; 4,8) -, proprio per tutte queste ragioni, è solo nel cuore che si può giocare la partita della vita. Solo nel cuore può avvenire quella lotta spirituale capace di consegnarci alla libertà che partorisce all’incontro con Dio che, nella sua Parola, ci parla bocca a bocca (cf Nm 12,7-8).

«È evidente che è proprio questo il terreno su cui si radica la lotta spirituale. Se infatti il cuore è il luogo dell’incontro intimo e dell’alleanza tra Dio e l’uomo, esso è però anche sede di cupidigie e passioni fomentate dalla potenza del male: “dal di dentro, cioè dal cuore degli uomini” – ha detto con chiarezza Gesù – escono le intenzioni (dialoghismoí) cattive” (Mc 7,21). Il cuore diviene così il luogo in cui si scontrano le astuzie di Satana e l’azione della grazia di Dio. Di più, è possibile estendere ad ogni peccato la penetrante sintesi operata da Gesù a proposito dell’adulterio: “Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore” (Mt 5,28). Sì, prima di essere realizzato esternamente e di condurci sui sentieri mortiferi della dissimiglianza da Dio, ogni peccato è già stato consumato nel nostro cuore. Il cuore è dunque il luogo della lotta invisibile. È lì che può avere inizio il ritorno a Dio, la conversione (cf Ger 3,10; 29,13), oppure si può soccombere alla seduzione del peccato e alla schiavitù dell’idolatria. È una lotta durissima quella per tendere ad avere un “cuore unificato” (Sal 86,11), capace di collaborare alla vita nuova operata in noi dal Padre, attraverso la fede in Cristo morto e risorto, nella potenza dello Spirito Santo: ma è proprio questa la battaglia fondamentale a cui il cristiano è chiamato» (E. Bianchi).

In questo medesimo tempo liturgico, l’anno scorso, vi scrivevo che una conversione autentica fa male. Sempre. Ma libera. Sempre. La Quaresima, per fiorire nella Pasqua, non si trastulla con idee, non gioca al ribasso, né staziona sul filo del rasoio negli stili e nelle scelte dis-ordinate, né si nutre di estetismi vagamente spiritualoidi, né si sazia di fumose progettualità di bene. Convertirsi è morire con Cristo per risuscitare con lui. È solo questo che porta a riformare, a tagliare, a cambiare. A ri-nascere. E ciò non potrà non far male. In Quaresima dobbiamo far male all’uomo vecchio che ci abita (cf Col 3,9-10). Se non ci asteniamo dal peccato e dall’egoismo, la Quaresima non entra nel cuore. La Quaresima entra nel cuore quanto il combattimento spirituale avviene proprio lì dove deve avvenire, nel cuore!

Dobbiamo ricordarcelo: la “custodia del cuore” – phylakè tes kardias – è, in assoluto, il primo impegno della persona spirituale, il solo realmente essenziale.

Il giorno di Pasqua potremmo allora cantare in verità, nella splendida sequenza del Victimae paschalis, “Mors et Vita duello conflixère mirando: dux vitae mortuus, regnat vivus: Morte e Vita si sono affrontate in un duello straordinario: il Signore della vita era morto, ora, regna vivo”. Ma lo potremo cantare, in verità, sperimentando la sua presenza di Vivente Signore, a combattimento avvenuto. Nel cuore. Allora sarà Pasqua.

Allora la Quaresima diventa un tempo di rinnovamento per la Chiesa, per ogni comunità e per i singoli credenti. Diventa un “tempo di grazia” (2 Cor 6,2), perché Dio non ci chiede mai nulla che prima non ci abbia sovrabbondantemente donato: “Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo” (1 Gv 4,19).

Allora la Quaresima diventa realmente il momento favorevole per intensificare la vita dello Spirito in noi, attraverso i potenti mezzi che la madre Chiesa ci propone: digiuno, preghiera ed elemosina.

Allora la Quaresima, diventa realmente “segno sacramentale della nostra conversione” che annuncia e realizza la possibilità di tornare al Signore con tutto il cuore, con l’interezza della vita.

Allora la Quaresima, come in ogni anno liturgico, mediante la Madre Chiesa, offre ai discepoli di Gesù “di prepararsi con gioia, purificati nello spirito, alla celebrazione della Pasqua, perché […] attingano ai misteri della redenzione la pienezza della vita nuova in Cristo” (Prefazio di Quaresima 1). Così, di Pasqua in Pasqua, possiamo camminare verso il compimento di quella salvezza che già abbiamo ricevuto grazie al mistero pasquale di Cristo, grazie a quel “duello straordinario” che il Signore e Salvatore nostro Gesù Cristo, ha già vinto per noi.

Nella Veglia di Pasqua rinnoveremo le promesse del nostro Battesimo, per ri-nascere uomini e donne nuovi, grazie all’opera dello Spirito Santo. Ma già l’itinerario della Quaresima, vissuto e combattuto nel cuore, è illuminato interamente dalla luce della Risurrezione. È già esperienza di Risurrezione.

 

Parola e vita

È possibile aversi tra le mani? È possibile abitare il proprio cuore, senza esserne ospiti inconsapevoli o attoniti o arresi o terrorizzati? “Il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, ma tu dominalo» (Gn 4,7). Tu puoi averti tra le mani!

La lotta interiore, nel cuore, non è rivolta contro esseri esterni a sé, ma contro le tentazioni, i pensieri, le suggestioni e le dinamiche che portano alla consumazione del male.

Ma come avviene tale lotta? La grande tradizione patristico-spirituale, ci suggerisce un come che vorremmo meditare e custodire in questo tempo di Quaresima perché ci consegni, gioiosamente, alla Pasqua del Signore.

È un dinamismo in quattro momenti fondamentali: la suggestione, il dialogo, l’acconsentimento, la passione/vizio.

  • Suggestione: si affaccia, nel cuore, la possibilità di un’azione per-versa (nel senso etimologico di storto, deviato), peccaminosa. Il carattere negativo del pensiero si evince dal fatto che provoca turbamento nel cuore, toglie pace e serenità. Nessuno è al riparo dalla suggestione, nessuno ne è esente.
  • Dialogo: intrattenersi con esso, ricorrendo ad accorgimenti autogiustificatori, foraggia disagio e turbamento ancora più profondo. Questa familiarità, pian piano, rende la suggestione una presenza pre-potente, ormai di difficile gestione. E il cuore ne viene dominato.
  • Acconsentimento: quando scatta la presa di posizione personale che contraddice il progetto di Dio sull’umano.
  • Passione/vizio: ogni acconsentimento ripetuto rinsalda la passione che diventa vizio, vale a dire quella pratica del male intesa come abituale incapacità del bene: un abito radicato che provoca nella persona il bisogno morboso di quanto è o può essere nocivo. La tragicità della “coazione a ripetere” che deturpa, nei più diversi ambiti, tante vite umane.

Questo processo elementare invece può essere spezzato da una lotta cordiale, dal riprendersi in mano allentando la tirannide della risposta immediata, automatica e imparando a ridisciplinare i e i no che rendono possibile la vita.

“Da dove mi verrà l’aiuto? Il mio aiuto viene dal Signore” (Sal 120,1-2).

Buone e valide prassi in questo ri-viversi, continuano ad essere:

–      l’apertura del cuore all’interno di una significativa relazione con un padre/madre spirituale;

–      saper discernere le proprie tendenze di peccato, le proprie fragilità, le inconsistenze e le negatività che ci segnano in modo particolare, e chiamarle per nome, assumerle e non rimuoverle e, soprattutto, portarle alla luce sanante della Scrittura e della parola di Gesù;

–      la preghiera né frettolosa né meccanica e l’invocazione del Signore, perché “Chiunque invoca il nome del Signore, sarà salvo!”(At 2,21);

–      l’ascolto orante e l’interiorizzazione della Parola di Dio nella lectio divina personale oltre che comunitaria: giornalmente, senza abbuffate e senza digiuni ingiustificati;

–      una vita di relazioni autentiche, non manipolatorie, serene e generative dove la carità sia intensa, né di facciata né rinfacciata;

–      una costante capacità di vigilanza su di sé: perché sempre, in tutti gli ambiti della vita, ogni tentazione, alla sua radice, si configura come seduzione di vivere nel regime del consumo invece che in quello della comunione.

 Ecco perché “Sine dominico non possumus” (Non possiamo vivere senza celebrare il giorno del Signore): è nell’Eucarestia, dove celebriamo la vita come comunione con Dio e con gli altri, che si viene guariti dal fascino del consumo di Dio e degli altri e, ahimè anche di se stessi, divenendo figli suoi e fratelli tra noi.

 

Un’armatura per fronteggiare i “Dominatori tenebrosi”

 Per vivere cristianamente vigili gli impegnativi giorni di questa Quaresima-Pasqua 2022, desidero offrire alla riflessione comunitaria e personale, un testo della Lettera agli Efesini tratto dal capitolo 6,10-20. Testo letterariamente ricco e sorprendentemente espressivo in questo tempo liturgico.

I commentatori di questo scritto paolino suddividono nel seguente modo la Lettera: all’inizio (1,1-2) e al termine (6,21-24) ci sono quegli elementi tipici che formano il quadro epistolare. In 1,3-14 troviamo la solenne lode/benedizione e in 1,15-23 Paolo rassicura i destinatari di pregare per loro affinché comprendano l’opera di Dio.

Agevolmente, poi, la Lettera si può suddividere in due grandi parti: la prima (2,1-3,21) con un chiaro intento magisteriale, di insegnamento, si concentra sulla rivelazione del mysterion: Dio ha in sé un progetto eterno di salvezza per tutti, tenuto a lungo nascosto, che manifesta nella “pienezza dei tempi” e che si compie in Cristo Gesù.

La seconda parte, di tipo esortativo, parenetico, contiene delle esortazioni rivolte ai credenti affinché vivano il mistero esposto nella prima parte, nell’unità e nella diversità dell’unico corpo, la Chiesa (4,1-16); a vivere non più nella mondanità pagana, intessuta di ignoranza e perversità (4,17-19), ma secondo ciò che è stato appreso dai
destinatari, secondo l’uomo nuovo (4,20-24). In 4,25-5,20 l’esortazione insiste sulle cose da porre in atto e su quella da cui astenersi. In 5,21-6,9 si trova quello che viene indicato come “codice domestico”.

Segue, prima dei versetti conclusivi (6,21-24), il testo che ci accompagnerà in questo tempo liturgico, Efesini 6,10-20, composto da:

–      una Introduzione al v. 10;

–      il richiamo alla necessità di rivestirsi della panoplìa/armatura ai vv.11-13;

–      le diverse parti dell’armatura ai vv.14-17;

–      la preghiera e la vigilanza per consentire all’armatura di “funzionare”, vv.18-20.

 

Per il resto, rafforzatevi nel Signore e nel vigore della sua forza.

Rivestitevi dell’armatura di Dio, per poter resistere alle insidie del diavolo. La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i Dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli Spiriti del male che abitano nelle regioni celesti. Prendete perciò l’armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno malvagio e restare in piedi dopo aver superato tutte le prove. State dunque ben fermi, cinti i fianchi con la verità, rivestiti con la corazza della giustizia e avendo come calzatura ai piedi lo zelo per propagare il Vangelo della pace. Tenete sempre in mano lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del Maligno; prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, cioè la parola di Dio. Pregate inoltre incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito, vigilando a questo scopo con ogni perseveranza e pregando per tutti i santi e anche per me, perché quando apro la bocca mi sia data una parola franca, per far conoscere il mistero del Vangelo, del quale sono ambasciatore in catene, e io possa annunziarlo con franchezza come è mio dovere.

La metafora militare non è un’invenzione di Paolo: nell’antichità era usata ampiamente ed il suo impiego nell’Epistolario paolino affonda le radici nelle pagine anticotestamentarie, come la lettura del presente testo biblico ci dà modo di scorgere.

Chi scrive si serve del linguaggio bellico, esortando i cristiani di Efeso ad indossare la stessa armatura di cui Dio si cinge, per lottare contro ogni malvagità – personificata nei malvagi – e per far trionfare sulla terra il suo disegno di salvezza (cf Is 11,4-5; 59,17; Sap 5,17-20).

È facile notare che vi è un unico altro passo nel Nuovo Testamento, in cui appare il termine panoplía/armatura. In Lc 11,15, di fronte agli attacchi di coloro che lo accusano di “cacciare i demoni in nome di Beelzebul, il capo dei demoni”, Gesù replica: “Quando l’Ischyròs/Forte, bene armato, custodisce la sua dimora, i suoi averi sono al sicuro; ma se arriva uno Più forte – Ischyròteros – di lui e lo vince, gli toglie l’intera armatura in cui confidava e distribuisce le sue spoglie” (Lc 11,21-22). Il detto evangelico è, tenuto conto del contesto, volutamente sarcastico: Gesù dice che lui stesso, il Più forte, distribuirà le spoglie del Forte/Ischyròs (ma non troppo!), vale a dire che la vittoria sulle forze del male, sarà radicale e senza appello. È Gesù l’ischyròteros/Più forte rispetto a l’ischyròs/Forte: questi è Forte e tenta di sedurre il cuore umano, ma con l’armatura del Più forte è possibile combatterlo e atterrarlo.

Paolo, in questo testo, impiega la medesima immagine, indicando il Forte individuandolo come Diàbolos/Divisore (v. 11) mentre, al v. 16, lo indicherà come Poneròs/Maligno. Al v. 12, dopo aver specificato che la lotta del cristiano non è rivolta contro altri esseri umani – àima kai sàrka/sangue e carne -, mette in campo una variegata descrizione, tutta al plurale, dei Dominatori tenebrosi che «designano cumulativamente le forze malefiche che tendono a ricondurre il cristiano alla sua situazione pre-battesimale» (R. Penna).

Per resistere alle mentalità anti-evangeliche e, dunque, anti-umane, non basta una buona dose di volontarismo e di buoni propositi: sono entità Forti, sono Dominatori e Potenti, sono Potestà e Principati che infestano e saturano l’atmosfera. La loro puntuale enumerazione al v. 12 non ha tanto lo scopo di identificare la natura di tali poteri, quanto, invece, evocarne la potenza pericolosa, anche se sotto traccia, da cogliere in tutta la sua portata mortifera. Insomma, stando così le cose, è questo uno scontro che non si può certo affrontare in… canotta, short, ciabattine mentre si sorseggia una bibita fresca.

Anche perché una caratteristica dell’agire diabolico, come dice Paolo, è la methodeia, vale a dire un procedere perpetrato con “inganno/astuzia/intrigo/falsità/”, una macchinazione articolata, nascosta ma efficace, del male. Per l’Apostolo, un tratto evidente di tale agire demoniaco, è l’ira nei confronti del prossimo di cui parla in Ef 4,26-27: la lacerazione e la divisione creata nella comunità sono autentico contraltare del progetto divino che persegue la comunione nell’amore. «L’autore non pensa, quindi, a un agire in cui il diavolo si manifesta come tale, ossia come potenza soprastorica. Piuttosto egli ha in vista il comportamento quotidiano dei credenti: tutto ciò che contrasta con la giustizia, la santità, la verità, ossia con le qualità caratterizzanti l’uomo nuovo, creato nel battesimo (Ef 4,21); tutto ciò che intende contrapporsi al loro cammino nell’amore, questo è espressione dell’intrigo diabolico, è manifestazione storica di ciò che, in ultima analisi, ha una radice anche al di là della realtà immanente. Questo serve a capire l’enunciato del v. 12a, in cui si afferma che il combattimento cristiano non è contro realtà umane in quanto tali […] In realtà, il combattimento cristiano ha proprio in vista la mancanza di amore, l’incapacità di costruire la comunità, l’egoismo nell’esercizio della sessualità… tutte realtà ben illustrate dall’autore, che possono a buon titolo essere qualificate ‘realtà umane’. Ma qui egli considera la dimensione che sta alla radice di tutto questo e che può essere descritta come combattimento tra Dio e i poteri a lui avversi» (S. Romanello).

 

Non basta un abbigliamento casual

L’incipit del testo aiuta a metter bene a fuoco il come equipaggiarsi per il combattimento spirituale: “fatevi forti nel Signore” e “rivestitevi dell’armatura di Dio”.

Per Paolo è un primum irrinunciabile: non si può dare spazio a nessun autocentramento né protagonismo vacuo facendo conto sulle proprie forze, sulle proprie capacità o virtù o scaltrezze o abilità. La fortezza si acquista nel Signore e l’armatura non può che essere di Dio, proprio e precisamente la sua. Non altre. Non è dato un come alternativo. Attingere dalla forza del Signore significa proprio rivestirsi della armatura di Dio.

In altri scritti paolini si fa riferimento all’immagine dell’armatura (Rm 13,12; 2Cor 6,7; 1Ts 5,8), dove questa esprime atteggiamenti di fede, virtù morali o proprie dell’Apostolo o, da questi, indicate ai suoi destinatari, come necessarie per la vita cristiana. Sullo sfondo di tali testi, il genitivo di Dio dice sì, che l’armatura appartiene a Dio, ma il suo senso precipuo è quello di origine o di qualità: l’armatura che Dio accorda ai credenti, ossia gli atteggiamenti che egli stesso promuove e rende possibili nelle loro esistenze.

Paolo sta scrivendo ad una comunità di discepoli certamente avvinti dall’annuncio evangelico e da quel disvelato piano salvifico e gratuito di amore – il mysterion – che l’Apostolo aveva enunciato nella prima parte dello scritto; tuttavia doveva delineare loro il come far diventare prassi, vita, possibilità concreta quell’enunciato iniziale. Doveva rispondere alla domanda, estremamente concreta e scontata, degli efesini: “tu ci hai detto una cosa sorprendentemente bella e grande ma come attuarla qui ad Efeso, tra noi e con chi ci avversa?”. Ecco le due scarne ma fondanti esortazioni paoline: “fatevi forti nel Signore” e “rivestitevi dell’armatura di Dio”. Solo in tale atteggiamento/scelta – “forti nel Signore” – e in quella precisa foggia – “rivestiti dell’armatura di Dio” – il discepolo compartecipa alla già avvenuta vittoria di Gesù.

Insieme al come, Paolo offre anche il perché “farsi forti nel Signore” e “rivestirsi dell’armatura di Dio”: non è una scaramuccia o uno scambio acceso di opinioni contrastanti. È una lotta spirituale: «Possiamo tradurre facilmente queste espressioni in una realtà comprensibile perché essa è di evidenza quotidiana. Dobbiamo vivere in un’atmosfera – lo spazio tra terra e cielo – invasa da elementi maligni, contrari al Vangelo, nemici di Dio. L’atmosfera in cui viviamo è satura di potenze contrarie a Cristo e quindi la lotta si annuncia difficile. Questa mentalità, questa atmosfera che è frutto in parte della potenza del male e in parte dell’uomo soggiogato dalla potenza del male, crea una situazione nella quale siamo immersi e che ci minaccia da ogni lato. Da qui la necessità di armarsi con l’armatura di Dio» (C.M. Martini).

Il combattimento spirituale, da farsi con l’armatura e quindi con la forza divina da essa veicolata, avviene contro potenze sovrastoriche, “poteri forti” che hanno, allora come ora e come sempre, una capacità operativa ancora effettiva nella storia, pur avendo enunciato, all’inizio della Lettera (Ef 1,21), il loro pieno assoggettamento a Cristo Signore: sono poteri già sconfitti dal Risorto e, in lui e per lui, i credenti sono stati efficacemente strappati alla loro deleteria signorìa.

Ma prima di enumerare dettagliatamente agli efesini ogni pezzo dell’armatura, avendo personale esperienza di tutti quei Potentati subdoli, ma sorprendentemente risoluti, capaci di impregnare l’aria rendendola asfissiante (cf Ef 2,2), Paolo invita pressantemente i suoi ad assumere un atteggiamento proattivo, di chi ha consapevolezza di chi è e con chi ha a che fare, per evitare dolorose sorprese: hístemi/state in piedi, ripetuto tre volte (vv. 11.13.14) e anthístemi/resistere ripetuto quattro volte (v. 11; 13; 13; 14). Quando il credente in Cristo affida la propria esistenza a lui, al Salvatore, ogni realtà malefica, per quanto spaventosa sia, non potrà spadroneggiare sulla sua esistenza. Proprio per questo, Paolo, non si rivolge ai suoi condiscepoli efesini dicendo “vincete!”, ma “resistete!”: perché la vittoria, appunto, è già stata conseguita da Cristo.

È una lotta dove è necessaria prontezza e non disimpegno, saldezza e non flaccidezza, prestanza e non arrendevolezza, perché la situazione è rischiosa: perché è rischioso vivere il Vangelo. Realisticamente, è necessario avere il senso del rischio e delle difficoltà, perché questo permette di scoprire le vie dell’Avversario, le vie di penetrazione della mondanità, di quei criteri antievangelici che, una volta insediatisi, spingono a vivere e a valutare a prescindere dal Vangelo.

In questo tempo quaresimale, una più profonda consapevolezza del mistero della perversione e dell’iniquità che ci attanaglia, la si può acquisire alla luce della Scrittura santa. La Parola ci mette davanti alle avversità senza paura, perché possiamo scorgere, insieme alla rilevanza del male, la potenza salvifica di Cristo che ha già attuato l’opera della salvezza, la quale, nella Parola, nell’Eucarestia, nei Sacramenti e nell’amore scambievole, continua ad operare in noi e nella storia.

A nessun lottatore sono consentiti vicari o sostituti, poichè ogni vita non contempla deleghe. Solo chi sta in piedi e si arma di tutto punto potrà resistere, perché l’Inimicus homini si aggira attorno a ciascun lottatore, per individuare nell’armatura un qualche elemento difettoso o addirittura mancante, una fessura da cui infilarvisi e scoccare i suoi dardi avvelenati. Un solo varco sguarnito, potrebbe concedergli, facilmente, vittoria. Che si tratti di una lotta senza quartiere, contro un avversario scaltro e crudele che ha postazioni fuori e dentro di noi, è difficile negarlo. «Questo, oggi, lo si dimentica spesso, vivendo in un’atmosfera di ottimismo deterministico per cui tutte le cose devono andare di bene in meglio, senza pensare alla drammaticità e alle fratture della storia umana, senza sapere che la storia ha le sue tragiche regressioni e i suoi rischi i quali minacciano proprio chi non se l’aspetta, cullato in una visione di un evoluzionismo storico che procede sempre per il meglio» (C.M. Martini).

Nel Messaggio per la Quaresima-Pasqua del 2019, Tentazioni benedette, abbiamo contemplato il Signore Gesù saldo davanti al Tentatore, in piedi, resistente, senza fuggire davanti a lui, poiché ricco solo della Parola del Padre, suo cibo e sostentamento (cf Gv 4,34). Vincitore, e non in autonomia o in nome proprio, delle seduzioni di Satana: sta scritto… sta scritto… sta scritto… è stato detto (cf Mt 4,4; 8; 10; 12).

I discepoli, vincitori come Lui, perché “affidàti alla Parola” (cf At 20, 32).

 

Parola e vita

Ognuno sa, nella propria quotidianità cristiana, quanto sia necessario mettere a tema la questione del credito dato o all’Ischyròteros/Più forte/Gesù, o al Ischyros/Forte/Divisore/Maligno. Una presa di posizione e una scelta ogni giorno improrogabile, ma mai scontata. Tenendo bene a mente che:

–      la methodeia/metodo messo in atto da “l’omicida e bugiardo fin dal principio” (cf Gv 8,44-45), è quello dell’“inganno/astuzia/intrigo”: esso propone un’architettura sempre fascinosa e seducente del male, ricca di promesse di vita, ma mai ottemperate perché incapace di farlo;

–      lì dove questa scelta si compie, come si concretizza, nella mia ferialità, la decisiva indicazione paolina anthístemi/resistere?;

–      quanto riesco a scorgere di realmente e pienamente diabolico nelle relazioni che si frantumano o che io stesso spingo verso la lacerazione; o nella mia e altrui indifferenza e incapacità a costruire comunione e comunità; o nell’egoismo nell’esercizio della sessualità o nello sciupìo di beni postimi nelle mani per aiutare altri; o nella noncuranza verso chi è in necessità, verso chi mi chiede aiuto, verso chi attende da me attenzione, comprensione, compassione;

–      la bellezza e l’urgenza del Vangelo: ho incontrato Gesù come Signore e Salvatore? Mi interessa questa relazione? Lo amo? È una relazione che vorrei approfondire di più e compartecipare ad altri?

–      il rischio del Vangelo: lo corro?

 

 

L’armatura divina vestita dall’umano

Dopo aver parlato dell’armatura divina, Paolo inizia a descriverne i singoli componenti. Attraverso uno sguardo finale “anticipato” ci fa cogliere tali elementi come doni divini e, insieme, come atteggiamenti cristiani che i discepoli sono chiamati a far propri.

È interessante notare che, chi scrive, con una serie consistente di esemplificazioni, opera continui spostamenti dal piano metaforico a quello reale, rendendo espliciti quegli atteggiamenti esistenziali richiesti ai suoi destinatari nei versetti precedenti. Come si vedrà, l’Autore, oltre ad avere in mente il modello di un combattente a lui contemporaneo, fa riferimento a diversi passi dell’AT che tratteggiano l’armatura di Dio. Leggendo i versetti dove si delineano ben sei metafore (vv. 14-17), si coglie che tutto quell’intero immaginifico riferito a Dio è, nello scritto ai cristiani di Efeso, “adattato” al credente. L’espediente paolino consiste proprio nel descrivere l’armatura del credente attraverso quegli elementi che solitamente compongono l’armatura di Dio.

Il cristiano, come Paolo scrive nella Lettera ai Romani, ha ricevuto un dono e una vocazione: “rivestirsi del Signore Gesù Cristo” (Rm 13,14); è questa l’arma “vincente” nella lotta spirituale.

 

  1. La verità come cintura. O della coerenza della vita

 C’è un testo dell’AT che è doveroso chiamare in causa per comprendere questa prima metafora. Facendo riferimento al germoglio di Iesse, al Messia davidico, in Isaia 11,5 (LXX) è scritto: “avrà i suoi fianchi legati con la giustizia e la cintura avvolta nella verità”. Proprio di questa armatura di Dio necessita il discepolo di Gesù per lottare e vivere.

Il primo elemento dell’armatura, non a caso, è la cintura, indicata peraltro indirettamente: “cinti i fianchi con la verità” (v. 14). Non si tratta propriamente di un’arma, ma l’avere cinti i fianchi richiama una protezione, una precondizione irrinunciabile, indossata prima di tutti gli altri elementi dell’armatura per dare compattezza e stabilità alla stessa. È messa in evidenza la sua posizione strategica, centrale ed avvolgente, che fa da supporto e da sostegno all’intero armamentario, un appiglio probabile dove agganciare la spada. Senza questa cintura, gli altri pezzi dell’armatura parrebbero “svolazzanti”, non saldamente composti tra loro. Il combattimento parrebbe inaffrontabile. Fuori di metafora: privi della verità che interamente ci cinge, è votato al fallimento ogni combattimento spirituale.

Di quale verità si parla?

È la verità salvifica del Vangelo: è la stessa parola e persona di Gesù; sono i suoi stili di vita, i suoi sentimenti.

È la fedeltà con la quale Dio porta a compimento la sua parola e il progetto di salvezza annunziato nel Vangelo.

È la coerenza: nel Figlio dato-per-noi, è detta tutta intera la coerenza divina.

Dunque, la verità di cui si cinge come di un elemento stabile e stabilizzante chi combatte la vita nella fede nel Figlio di Dio, è proprio la coerenza, vale a dire quell’intima, trasparente connessione e interdipendenza di parti non immediatamente congiunte. Senza corrispondenza fedele, tra vita e azione, tra creduto e vissuto, tra valori “ufficiali” e valori “ufficiosi”, i poteri tenebrosi, nella lotta, avranno certamente la meglio. Per poter combattere contro l’atmosfera pestilenziale e mefitica che satura il nostro dentro, il nostro intorno e il nostro fuori, occorre essere equipaggiati di una profonda coerenza tra ciò che proclamiamo con le labbra e gli stili personali di vita. E infatti, cohaerentia, in latino, deriva da cohaerēre, ‘stare unito insieme’.

Penso a me vescovo, a noi presbiteri e diaconi, ad ogni fratello e sorella nella Vita consacrata; penso ad ogni catechista ed operatore pastorale; penso ad ogni battezzato di questa nostra Chiesa di Alghero-Bosa, a noi, investiti del dono e dell’impegno profetico, sacerdotale, regale: quanto questa coerenza ci è vitale e indispensabile! Quanto è l’anima di ogni evangelizzazione! Non vivere ciò che si predica, piano piano ma inesorabilmente, ci pone nella condizione di essere sovraesposti agli attacchi dei Dominatori tenebrosi. Ciò ci renderebbe non solo inutili, ma dannosi. Tornando a noi ministri del Vangelo, son certo che, se la nostra predicazione o la nostra testimonianza cristiana fosse costantemente valutata con ciò che si muove interiormente, con ciò di cui siamo intimamente persuasi, parola annunciata e testimonianza offerta, avrebbero tutta un’altra eloquenza e un’altra edificazione.

Circa la coerenza nella vita cristiana, San Paolo VI, nell’udienza generale del 14 Dicembre 1966 diceva: «Il Popolo di Dio, dice il Concilio, “partecipa dell’ufficio profetico di Cristo col diffondere la viva testimonianza di Lui, soprattutto per mezzo d’una vita di fede e di carità” (LG 12). La vita, la vita veramente cristiana, è la prima e principale testimonianza che il cristiano, rinnovato dal Concilio, deve dare con maggiore coscienza e più decisa volontà. È cosa ovvia; ma non è piccola cosa. Perché dare testimonianza a Cristo con la propria vita indica innanzi tutto un’adesione piena e ferma alla sua Parola e alla sua Chiesa; indica cioè una fede forte e nutrita, personale ed amata. Che cosa sarebbe una testimonianza priva di questa essenziale premessa? Occorre una coerenza con Cristo: la fede. E poi una seconda coerenza con noi stessi: la pratica della fede. La testimonianza esige una coerenza fra pensiero e azione; fra la propria fede e le proprie opere. Questa è la testimonianza della propria condotta; cioè della maniera particolare con cui il cristiano dà stile, dà forma, dà legge al proprio modo di giudicare e di agire. Un cristiano si deve vedere che è tale, ancor prima che ascoltarlo, dal suo tenore di vita. Questo apostolato tranquillo e connaturato, l’apostolato dell’esempio, è a tutti accessibile, è per tutti doveroso, ed è oggi più che mai necessario. Bisogna predicare in silenzio con la semplicità e con lo splendore del proprio contegno. […] Il fedele vive in mezzo alla società; egli deve, prima ancora di svolgere opera attiva di apostolato, irradiare d’intorno a sé il proprio segreto, la propria fede. La sua vita deve apparire concepita secondo la formula vera, la formula buona, onesta, felice, quella di Cristo. La fede reclama una professione. Anche sotto questo aspetto del suo rapporto con l’attività pratica di chi la possiede si vede come la fede non sia inerte e statica, ma principio di vita morale. […] Del resto, è ovvio; il buon senso ha la sua teologia: un cristiano autentico dev’essere un galantuomo. L’impegno verso Dio reclama un impegno d’onestà ineccepibile. Nulla scredita maggiormente la religione quanto la sua dissociazione dalle virtù morali».

 

  1. La corazza. O dello zelo per il Regno

 Anche in questa espressione paolina si può rintracciare un passo dell’AT: in Isaia 59,17 (LXX), nella descrizione dell’armatura divina, è detto che Dio “si è rivestito di giustizia come di corazza”. Nel testo di Ef 6,14 suona: “rivestìti con la corazza della giustizia”, dove “corazza della giustizia” esplicita che, tale corazza, consiste proprio nella giustizia.

Sappiamo che l’espressione “Dio che fa giustizia”, nella Scrittura, esprime l’attività salvifica di Dio in favore dei poveri e lo sbaragliamento di ogni alleanza con l’ingiustizia e con il peccato. Potremmo dire che la giustizia è il lavoro di Dio, il suo primo impegno: Dio ha uno zelo inarrestabile nel fare giustizia! È la medesima passione per il Regno e per la sua giustizia, che Gesù ha reso nota durante il suo ministero pubblico. Un primum detto nei termini scarni e vibranti che conosciamo: “Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati”; “Cercate prima il Regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta” (Mt 6,33); “Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera” (Gv 4,34).

È innanzitutto e sempre la giustizia del Padre a motivare parole, atteggiamenti e scelte di Gesù: nella vita e nella morte. Mai altro. Uno zelo infuocato, scelto e attuato dal Figlio anche quando tale attuazione chiederà il costo della vita. Gesù non ha nulla di più caro che la giustizia di Dio, quella volontà di fare salvezza.

Partecipare allo zelo infuocato per il Regno e per il Vangelo; prendere le parti di Dio a favore dei poveri e dei diseredati; svuotare la dispensa personale da vettovaglie che non sono “paterne”; proclamare con libertà “a Dio quello che è di Dio” anche in frangenti dove il costo potrebbe essere salato; coltivare senza mai saziarla la “fame e la sete di giustizia”… tutto ciò diventa per i credenti in Cristo, corazza che ci avvolge, difesa dagli attacchi del Maligno, protezione dai Dominatori tenebrosi.

 

  1. I calzari. O della prontezza per annunciare il Vangelo

 “Avendo come calzatura ai piedi lo zelo per propagare il vangelo della pace”: strettamente parlando, questi calzari non hanno un riferimento esplicito all’armamentario militare, né vengono menzionati in alcun testo dell’AT che riporta le immagini metaforiche dell’armatura di Dio. Si scorge, invece, il testo di Isaia 52, 7 (LXX) dove si fa menzione dei piedi di colui che annuncia la pace: “Come sono belli i piedi del messaggero che euaggelizomenou/annuncia la pace, messaggero di bene che annunzia la salvezza!”.

La metafora, dunque, si scioglie senza difficoltà: si indica la prontezza per il Vangelo, il partire, decisi, per annunciare il Vangelo della pace, il non tergiversare nell’andare, perché il Vangelo preme ed è necessario trasmetterlo senza dilazionare, perché il Vangelo ha infiammato il cuore e cambiato la vita, perché si è interiormente con-vinti che il Vangelo è il dono dei doni da consegnare a tutti e a ciascuno senza prender tempo, senza avarizia, senza calcolo. Perché senza Vangelo non fiorisce la pace!

Ma che cosa si intende precisamente con l’espressione “prontezza per il vangelo della pace”? Non si fa fatica a comprendere tale affermazione se si tiene conto dell’intero contesto che è, evidentemente, l’intera Lettera ai cristiani di Efeso. In 2,14-18 Paolo scrive: “[Gesù], infatti, è la nostra pace; lui, che dei due popoli ne ha fatto uno solo e ha abbattuto il muro di separazione, abolendo nel suo corpo terreno la causa dell’inimicizia, la legge fatta di comandamenti in forma di precetti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo facendo la pace; e per riconciliarli tutti e due con Dio in un corpo unico mediante la croce, sulla quale fece morire l’inimicizia. Con la sua venuta ha annunciato la pace a voi che eravate lontani e la pace a quelli che erano vicini; perché per mezzo di lui abbiamo gli uni e gli altri accesso al Padre in un medesimo Spirito”. Egli ha evangelizzato la pace: sì, è proprio la pace il contenuto del Vangelo.

La “prontezza per il Vangelo”, pertanto, significa che il Vangelo abilita i credenti ad una immediatezza di azione che li rende pronti e saldi a resistere alle incursioni di tutti i Dominatori tenebrosi, ma qualora anche questo avvenisse, quando cioè la comunità dei credenti vive il Vangelo, proprio per il fatto che lo viva, il Vangelo è annunciato, potremmo dire, motu proprio. Così, la calda luce del Vangelo fa irruzione e rischiara ogni realtà storica, riscattando in tal modo anche i “giorni malvagi” (cf Ef 5,14.16).

Paolo ricorda agli efesini che è la loro esistenza (feriale) di credenti a divenire eloquenza di Vangelo, spiegazione credibile del progetto salvifico/mysterion divino e che il Vangelo è, per loro, dono che attiva la spigliatezza tempestiva nel combattimento spirituale e che li spinge decisamente a porsi, con prontezza, a servizio del Vangelo stesso.

Il Cardinal Martini commentando questo versetto circa la passione per l’annuncio del Vangelo e il pluralismo in cui siamo immersi, notava sapientemente: «È una caratteristica importante del ministero del Vangelo, soprattutto oggi, in cui il “pluralismo” quando diventa pluralismo filosofico, culturale, religioso, sembra in qualche modo togliere l’ardore di annunziare il Vangelo della pace. Qualcuno vorrebbe addirittura sostituire e correggere l’imperativo di Matteo: “Andate e predicate a tutte le genti” (Mt 28, 19) con l’esortazione: “Andate e imparate da tutte le genti”, perché ci sono valori ovunque e, si dice, non conta tanto portare il messaggio quanto ascoltare umilmente ciò che gli altri hanno da dirci. Così si rischia di perdere l’ansia di predicare il Vangelo della pace. Ci chiediamo se ci sia una soluzione a tale difficoltà. La soluzione c’è e non è certamente quella di abolire il pluralismo. Credo anzi che quanto più cresce il dialogo, tanto più deve crescere l’approfondimento della vita evangelica. Se le due realtà crescono insieme, allora è possibile ed è facile conciliare un immenso rispetto per tutte le culture, razze, valori, con un immenso ardore di portare il Vangelo, che è una proposta trascendentale, non commensurabile con nessun altro valore, ma capace di illuminarli e trasformarli tutti. Quindi quest’arma, questa disposizione è estremamente importante per difendersi dall’atmosfera che invece tende piuttosto a livellare tutti i valori. Conciliare l’ardore del Vangelo con la stima dei valori altrui è l’opera mirabile a cui è chiamata la Chiesa di oggi, se vuole conservare il suo slancio missionario».

 

  1. Lo scudo della fede. O della interpretazione cristiana della vita

Altro elemento dell’armatura da adottare nel combattimento spirituale, è lo scudo: “Tenete sempre in mano lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno” (v. 16). Il termine thureon sta ad indicare un maxiscudo, che difende l’intera persona del guerriero e la significativa indicazione iniziale del cingerlo “in ogni occasione/sempre”, cioè ogni qual volta la cosa si renda necessaria, significa di poterne usufruire in continuazione senza mai accantonarlo.

Nell’AT molti sono i testi che fanno riferimento a Dio come ad uno scudo protettivo per chi si affida a lui (cf Gn 15, 1; Dt 33, 29; 2Sam 22, 3.31.36; Sal 17, 3.31; 26, 1; 27, 7.8; 30, 3.5; 32, 20; 36, 39; 119, 14; 144, 2; Pr 30, 5). Lo scudo, così, viene identificato con la fede, con quell’atto di adesione personale al progetto salvifico di Dio e che, perciò, diventa l’anima, l’elemento costitutivo dell’identità di ogni singolo credente e della comunità cristiana. “Se Dio è lo scudo, la fede è anche la parola da lui data, e non solo la fiducia in lui riposta” (F. Montagnini): è per lo scudo/fede che il credente può respingere gli attacchi delle forze avverse che infestano la storia e la vita.

I “dardi infuocati” lanciati dal Maligno – espressione desunta dal Salmo 11 – non sono tanto le singole “tentazioni”, interiori o provenienti dall’esterno, che mettono in difficoltà il credente in qualche particolare ambito della sua esistenza, quanto piuttosto tutte quelle forze che attentano all’identità cristiana, alla sua anima, la fede. Questi “dardi infuocati” sono la concezione della vita tipica della mondanità, vale a dire le mentalità di quel mondo di peccato che, incessantemente, senza tregua, ci assedia, ci circonda, ci circuisce spingendoci ad interpretare persone, situazioni e avvenimenti della nostra vita con criteri avulsi dalla fede, lontani dall’adesione alla persona e alla parola di Gesù.

È proprio della fede che è scudo ad opporsi a questi “dardi infuocati” che assalgono senza distinzione di bersaglio, strappandoci il tesoro della fede, intrappolandoci a decodificare persone – a incominciare da noi stessi –, avvenimenti e realtà, prevalentemente o esclusivamente con categorie sociologiche, economiche, psicologiche… tutte, una volta assolutizzate, inadeguate alla vita. Inadeguate al mysterion.

Il credente vive della considerazione evangelica dell’intera realtà umana: “Il giusto/giustificato vivrà mediante la fede” (Rm 1,17).

 

  1. L’elmo della salvezza. O dell’unica speranza

“Prendete anche l’elmo della salvezza” (v. 17). Questo soterion/elmo, richiama il testo di Isaia 59,17: Dio “sul suo capo ha posto l’elmo della salvezza”. Dio lo cinge e salva. Il testo paolino va verso la conclusione dell’enumerazione dei diversi elementi dell’armatura e l’Autore incalza i suoi destinatari: “E anche l’elmo dell’opera salvifica déxasthe/prendete!”. Paolo, dando nuovo vigore all’elencazione, identifica l’elmo con la vittoria, l’elmo con “l’opera della salvezza”. Quell’opera-progetto già attuata in Cristo.

Dal testo greco si evince una sfumatura che non è secondaria: efesini cari, accettate l’azione salvifica di Dio in voi come unica vostra protezione, unica vostra speranza, unica vostra salvezza! Non usatela come una salvezza tra le tante salvezze offerte dal mercato del mondo, una salvezza a cui votarsi quando le altre son risultate fallimentari. Prendetela sul serio come unica. Di quell’opera salvifica ricevuta in dono dal Salvatore, rivestitevi la testa, la parte più delicata ed essenziale!

Già in Ef 2, 5.8, Paolo aveva consegnato ai suoi destinatari il buon annuncio della salvezza già realizzata, che consiste nella gratuita liberazione dal regime letale dei Dominatori tenebrosi e nell’inserimento nel progetto salvifico dei credenti realizzato in Cristo. È proprio la stabilizzazione sicura nella salvezza operata da Cristo, a garantire i credenti dai continui dardi infuocati che possono colpire testa e corpo, cuore e anima.

 

  1. La spada dello Spirito. O della forza della Parola

“[Prendete] La spada dello Spirito, cioè la parola di Dio” (v. 17). L’ultimo elemento dell’armatura a cui Paolo fa riferimento, ma non mutuato direttamente da testi dell’AT, è la màchaira/spada: un’arma di piccole dimensioni, adatta per un “corpo a corpo”. In effetti, nell’elenco paolino, è l’unica arma offensiva citata. Anche qui, l’uso non è a caso, vista l’identificazione che ne fa.

Paolo, infatti, precisa immediatamente l’immagine scelta, riferendola alla parola di Dio: la spada strumento dello Spirito. L’accostamento spada-Parola di Dio è ben attestato nel mondo biblico-giudaico, conosciuto a Paolo: in Isaia 11,4 si dice che “con il soffio delle sue labbra ucciderà l’empio”, mentre in Isaia 49,2 si parla di “bocca come spada”. L’autore della Lettera agli Ebrei parla della “spada come parola” (4,12).

Tuttavia egli, pur rifacendosi a questo retroterra familiare, è innovativo, esprimendosi con gli efesini in un modo insolito, originale. Infatti Paolo, in questo testo, per indicare la “parola di Dio”, non usa il termine lògos, vale a dire la predicazione, ma il termine rema, gli oracoli divini.

L’architettura di questo testo mette in evidenza la salvezza accolta dai credenti e da questi testimoniata con la vita e annunciata con la bocca, come evangelo della pace (v. 15) e parola di Dio (v. 17). L’armatura che gli efesini sono caldamente invitati a rivestire, è immagine simbolo di ciò che Dio ha compiuto e compie in loro ma che, anche, affida loro perché ne diffondano la sorprendente notizia. Questa è l’impresa (difficile) che solo quella spada può condurre a buon fine. Per consegnare ai cristiani di Efeso la certezza della vittoria, Paolo afferma che questa viene sulla punta della spada dello Spirito (v. 17b), vale a dire che procede col passo stesso della Parola.

Dal testo e dal contesto si comprende chiaramente che la “parola di Dio” non è riferita soltanto allo Pneuma/Spirito, ma all’intera espressione “spada dello Spirito”: lo scrivente definisce lo Spirito come ambito e possibilità di rendere la Parola efficacemente operativa:

è lo Spirito che qualifica la Parola come vettore della luce e della forza divina;

è lo Spirito il sigillo di appartenenza a Dio e di inserzione nel suo progetto salvifico che il Vangelo ha reso noto;

è lo Spirito che rende attuale ed efficace l’annuncio evangelico.

Spada e Spirito, dunque, è una metafora eloquente: Paolo, più che la predicazione di Gesù alle folle, indica ai suoi destinatari quella parola del Padre che lui, Figlio, portava in cuore come oracolo salvifico, come suo cibo, sua forza e suo viatico. Lo abbiamo ricordato: per affrontare il Tentatore, nel deserto, l’unica difesa di Gesù sono state le parole del Padre, quelle parole pregne di luce e di forza.

Anche noi siamo assediati da concezioni di vita antievangeliche e da mentalità mondane che ci vorrebbero far interpretare tutti e tutto senza Dio e senza Vangelo.

È il tempo propizio per accogliere e conservare la Parola in cuore, perché ci illumini e possiamo così respingere ogni interpretazione di noi stessi, delle persone, della storia e del mondo, deprivate di Dio e del Vangelo.

“Ho conservato la tua parola nel mio cuore, per non peccare contro di te” (Sal 119, 11).

 

Preghiera incessante e vigilanza inesausta

“Pregate inoltre incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito, vigilando a questo scopo con ogni perseveranza e pregando per tutti i santi e anche per me, perché quando apro la bocca mi sia data una parola franca, per far conoscere il mistero del Vangelo, del quale sono ambasciatore in catene, e io possa annunziarlo con franchezza come è mio dovere” (vv. 18-20).

La conclusione del testo paolino è un’esortazione intensissima e accorata alla preghiera e alla vigilanza. Lo stesso vocabolario impiegato dallo scrivente, diventa illuminante: non solo esorta alla preghiera, ma puntualizza che tale preghiera deve farsi deesis/supplica, preghiera di richiesta.

La ripetizione martellante, per quattro volte, dell’aggettivo pas/ogni-tutto, offre allo scrivente di esplicitare tutte le caratteristiche della preghiera: il genere – ogni sorta di preghiera” ; il tempo ogni occasione” -; la modalità – “ogni perseveranza”;
i destinatari –tutti i santi” -. Ripetizione voluta, così da attivare nei destinatari il senso di necessità, di improrogabilità, di inderogabilità della preghiera. E Paolo sa bene che la preghiera è, essa stessa, una vera e propria lotta (cf Rm 15,30; Col 4,12).

Alla luce dei versetti precedenti, dove l’Apostolo ha ben evidenziato alla comunità cristiana di Efeso, che la battaglia contro i Dominatori tenebrosi può essere condotta e vinta solo con l’armatura divina, nei vv. 17ss, indica che, per poter partecipare e attingere alla forza stessa di Dio, vi è un solo mezzo: la preghiera. Tuttavia, la preghiera di richiesta e supplica presentata a Dio dalla comunità, non serve a piegare Dio alle proprie richieste: egli, da Padre, ci ha già gratuitamente beneficato, inserendoci nel suo progetto salvifico attraverso il Figlio Gesù (cf Ef 1,3-14; 2,1-19).

Il fatto è che le Dominanti malefiche, dentro la storia, agiscono attivamente e subdolamente e il cristiano non può che attingere da una forza altra, superiore, accessibile, larga nella concessione, non gelosa. Gratuita. Chi prega sa che, in sé, tale luce, tale forza, tale grazia, non ha domicilio. Pregando, il cristiano non ruba prometeicamente il fuoco sacro, appropriandosene indebitamente, ma lo riceve, gratis. Chi prega, desidera ardentemente che, del dono ricevuto, ne possano beneficiare tutti. Nemici compresi. Si comprende perciò l’ansia paolina: quella richiesta pressante, fatta alla comunità di Efeso, che si preghi affinché “il mistero del Vangelo” (v. 19) venga fatto conoscere in pienezza e senza reticenze. L’Apostolo affida il mysterion, plasticamente realizzato nello sbriciolamento del muro che divideva i giudei dai pagani, chiamati in un’unica Chiesa, “in Gesù Cristo” (Ef 2,13), alla preghiera fiduciosa di coloro che ne sono, insieme, beneficiati e protagonisti. Come ricordato fin dal v. 18, la domanda che si preghi affinché questo si realizzi, è pressante: Paolo chiede alla comunità una preghiera di supplica incessante!

Quando l’Apostolo chiede che la preghiera sia fatta “nello Spirito”, sta indicando che proprio questo è l’habitat che rende la preghiera possibile. Nella preghiera si dipana il nostro rapporto di figliolanza con il Padre: questo non può accadere in un altrove, se non “nello Spirito”, quella forza che è dono del Padre per inserirci e stabilizzarci in una vera comunione con lui. Ma “pregare nello Spirito” significa anche la possibilità di messa al bando di ogni forma di vacuo protagonismo da parte del cristiano, chiamato e abilitato, dallo stesso Spirito, a consentire che Esso preghi in lui e trasformi la sua vita in preghiera.

“Pregate […] vigilando a questo scopo con ogni perseveranza” (v. 18). L’accostamento del binomio preghiera-vigilanza, come in altri testi neotestamentari (cf Mc 14,38; Lc 21,36) non stupisce: l’invito ad essere vigili in modo inesausto, è finalizzato alla preghiera, vigili per non disattendere una necessità vitale per il credente. Ma, al contempo, tale vigilanza è anche frutto dello stesso Spirito che sorregge e anima la preghiera (cf Col 4,2).

“[Pregate] anche per me, perché quando apro la bocca mi sia data una parola franca, per far conoscere il mistero del Vangelo, del quale sono ambasciatore in catene, e io possa annunziarlo con franchezza come è mio dovere”. Insieme alla preghiera richiesta alla comunità, “per tutti i santi”, Paolo, in prigione, chiede di essere lui stesso beneficiario della loro intercessione (cf Col 4,3-4). L’Apostolo, però, non chiede ai suoi di Efeso che supplichino Dio per la sua liberazione. Chiede, invece, la possibilità di annunziare con parresia/franchezza il Vangelo. Egli domanda agli efesini che preghino Dio, affinché gli doni quella libertà di spirito, nel tratto e nella parola, da renderlo coraggioso e franco annunciatore del Vangelo. Qui, l’annuncio, è indicato con l’espressione “aprire la bocca” (cf Ez 3,27; 29,31; 33,22; Mt 5,2; At 8,35; 18,14; 2Cor 6,11). Se ogni credente deve afferrare la parola di Dio (v. 17), Paolo non può che farlo per primo, perché è proprio dell’Apostolo annunziare quella Parola che è vita per i credenti.

La lettura complessiva del testo non può non condurre ad una constatazione, semplice, immediata, necessaria: tutte le armi, tutti i singoli elementi dell’armatura vanno come oleati, lucidati, affinati continuamente nell’esercizio della preghiera. La preghiera non è un altro elemento dell’armatura, né supplisce alla mancanza di alcuni di essi o di tutti. No. Tutti e ciascuno “funzionano” a tempo debito e portano a compimento la loro specifica finalità, solo quando sono avvolti e ritemprati per la lotta, dalla preghiera.

Davvero, in questo caso – ma solo in questo! – si vis pacem, para bellum! In tutti gli altri, si vis pacem para pacem.

 

Parola e vita

La verità come cintura. O della coerenza della vita

–      Quale coerenza rintraccio in me stesso. Il primo straniero da accogliere sono io in me stesso.

–      Negli affetti che vivo: ogni ambiguità avvelena (chi la gestisce e chi la subisce).

–      Nelle relazioni lavorative: soprattutto nei dettagli si rintraccia la verità intima.

–      Rispetto al mio stato di vita e alla mia vocazione personale (non dimenticando che il primo, vero gradino della coerenza è, per tutti, riconoscere la propria incoerenza in tanti frangenti della vita).

La corazza. O dello zelo per il Regno

–      A Dio urge fare salvezza. A me esserne suo strumento?

–      Come mi suona all’orecchio la gioia/beatitudine legata all’essere affamato e assetato di giustizia?

–      Prendo talvolta le parti dei poveri e degli sfortunati. Desidererei farne una mia costante.

–      Ho dei cibi, nella mia dispensa, che considero più preziosi della volontà del Padre su di me?

I calzari. O della prontezza per annunciare il Vangelo

–      La prontezza per rendere ragione del Vangelo mi attira e la vorrei. Ma in alcune circostanze – che riconosco da lontano – prediligo le pantofole.

–      Il Vangelo è per me irrinunciabile. Ma fatico a donarlo a chi, forse, lo sta attendendo da tempo.

–          So che l’unico Vangelo è quello della pace, ma in alcuni frangenti so di darne testimonianza rovesciata.

–      “Il dialogo non fa per me”. Ma ciascuno è pensato proprio per questo…

 Lo scudo della fede. O della interpretazione cristiana della vita

–      Prediligo un’interpretazione cristiana della vita e della storia. Ma in alcuni casi, scelgo interpretazioni altre. Chiamarle per nome e coglierne il per chi e il perché, mi farà bene.

–      Dalla mia faretra, talvolta, io stesso lancio dardi infuocati, distribuendo interpretazioni della vita, della storia, delle persone, brucianti o avvelenate o di parte. Potrei cambiar tattica.

–      Assolutizzare alcune categorie mondane e farne criteri di discernimento per realtà grandi, complesse e uniche, potrebbe togliere il fluire della vita in qualcuno…

L’elmo della salvezza. O dell’unica speranza

–      La salvezza divina: unica salvezza. O anche no?

–      La gioia della salvezza già realizzata, per me, in Cristo. E il non ancora che devo vivere.

La spada dello Spirito. O della forza della Parola

–      Una Parola conservata in cuore, salva.

–      Nello Spirito la Parola è operativa e salvifica. Chiedo nella preghiera di non dar credito agli automatismi.

–      Con “l’omicida e bugiardo fin dal principio”, può contendere solo la Parola.

 

La prossima quinta domenica di Quaresima, 3 aprile, la nostra Chiesa celebra la Giornata per il Fondo Episcopale di Solidarietà. Tutte le offerte raccolte durante ogni celebrazione eucaristica in ciascuna Parrocchia e in ciascuna Chiesa destinata al culto divino, confluiranno in detto Fondo.

Domando ad ogni parroco e ad ogni presbitero di accompagnare le comunità e i singoli a crescere nella consapevolezza di poter e dover diventare fratelli, condividendo con chi fa fatica a vivere.

Il mio grazie a tutti coloro che, fino ad ora, largamente, in questi anni, hanno aperto il cuore, non hanno girato lo sguardo dall’altra parte, sono emersi dalla marea dei pregiudizi e hanno posto mano a ciò che possiedono, poco o molto che sia, perché altri potessero rasserenarsi. A tutti e a ciascuno la mia e la riconoscenza dell’intera nostra Chiesa e di coloro che son stati fatti segno di attenzione.

In questi dieci anni di attività del Fondo, la Provvidenza, attraverso le mani e il cuore di tanti fratelli e sorelle, ha distribuito 838.865,00 euro, per un totale di 1975 interventi. Come non ringraziare, commossi e stupiti, il Padre e tutti coloro che se ne sono fatti tramite?

Entro il mese di maggio ogni presbitero depositerà le offerte raccolte in tale giornata presso l’Economato diocesano. Come ogni anno verrà reso noto, tramite il giornale diocesano Dialogo, quanto la carità avrà saputo smuovere la nostra generosità.

 

Abbiamo fatto in questi anni questa gioiosa esperienza: quando la Parola tocca il cuore, una nuova fraternità prende vita, attivando una solidarietà coraggiosa ed edificante. La Parola custodita nel cuore, è capace di smontare stili vecchi di vita e di relazioni, sbriciolare pregiudizi inveterati e rilanciare vitalità assopite.

Nella Quaresima-Pasqua che andiamo a vivere in questo tempo sinodale, la rinnovata capacità di ascolto, di empatia, di compassione, ci porta a schiodarci dalle nostre postazioni di sicurezza riconsegnandoci, Dio voglia penitenti – cioè convertiti e quindi disponibili – a tutti coloro che incrociamo sulla nostra strada.

Inaugurando il cammino sinodale, Papa Francesco esortava: “Anche noi, che iniziamo questo cammino, siamo chiamati a diventare esperti nell’arte dell’incontro e mentre talvolta preferiamo ripararci in rapporti formali o indossare maschere di circostanza, l’incontro ci cambia e spesso ci suggerisce vie nuove che non pensavamo di percorrere”. Ma un “vero incontro nasce solo dall’ascolto” e fare Sinodo “è un esercizio lento, forse faticoso, per imparare ad ascoltarci a vicenda – vescovi, preti, religiosi e laici, tutti, tutti i battezzati – evitando risposte artificiali e superficiali, risposte pret-a-porter”.

La parola di Dio, attraverso l’Apostolo, ci assicura della salvezza già conseguita, dal Signore Gesù, per noi. L’armatura, quella di Dio, consegnataci in Cristo, non è altro che il Vangelo di Gesù, vivo e operante in noi, per noi e attraverso noi e ci abilita a resistere anche nel giorno malvagio, anche in un tempo così accidentato e duro come il nostro. Il Padre ci ha già incontrato, accolto e salvato nel Figlio Gesù. Possiamo incontrarci tra noi senza paure.

La Vergine Maria, sollecita nell’ascolto, serva di Dio, madre affettuosa e attenta, aiuto dei cristiani, sostenga ogni nostro desiderio di Bene e ci conceda di gioire in pienezza nella Pasqua gloriosa del Figlio Gesù.

Fraternamente tutti abbraccio e su tutti invoco la pace del cuore, la gioia del Vangelo, la cura vicendevole e, ora più che mai, buona salute

 

 ✠ Padre Mauro Maria