“Non c’è posto per loro” | Messaggio di Natale del Vescovo Mauro Maria

Messaggio di Natale 2019 del Vescovo Mauro Maria Morfino

 

Non c’è posto per loro

 

In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando era governatore della Siria Quirinio. Andavano tutti a farsi registrare, ciascuno nella sua città. Anche Giuseppe, che era della casa e della famiglia di Davide, dalla città di Nazaret e dalla Galilea salì in Giudea alla città di Davide, chiamata Betlemme, per farsi registrare insieme con Maria sua sposa, che era incinta.

Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo. C’erano in quella regione alcuni pastori che vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge.

Un angelo del Signore si presentò davanti a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande spavento, ma l’angelo disse loro: «Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia».

E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste che lodava Dio e diceva: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama».

È sempre con questa pagina di Vangelo che la liturgia della notte santa del Natale del Signore ci accoglie, ci stupisce e ci strappa dal sonno nonostante l’ora tarda. Annualmente il medesimo racconto eppure mai scontato. Nudo nella sua essenzialità ma che nulla concede al sentimentale, all’ingenuo, allo sdolcinato. La sua asciutta sobrietà sgretola tante nostre oziose domande e ci indirizza così – quasi a forza – a concentrarci sull’essenziale.

 

Apparenza e realtà

Visto in controluce, il racconto lucano, quasi fa intravedere il sorriso ironico dell’evangelista che sospinge il lettore a distinguere tra apparenza e realtà.
Parrebbe che, a reggere le sorti del mondo e di chi vi è dentro, sia proprio quel super-duce, Cesare, uomo forte del momento, che viene additato di origini divine: è “Augusto”.

Parrebbe proprio lui che, con quel suo decreto generale, smobilita l’intero oikuméne, addirittura “tutta la terra”, per schedare tutti, perché nessuno possa sottrarsi – soprattutto se vinto o sottomesso o pericoloso o ingovernabile – a controlli, a tasse e dazi.

Parrebbe proprio Cesare Augusto, attraverso il censimento da lui imposto e scrupolosamente attuato dal suo legato Publio Sulpicio Quirinio nelle province di Siria e Giudea, come l’esclusivo azionista di tutte le etnie a lui soggette: nominare e numerare le persone, parrebbe ribadire il diritto di vita e di morte dell’Imperatore su ogni suddito.

Parrebbe che la frangibilità e l’insignificanza del Bambino, infante e ineloquente proprio perché tale, men che nulla potesse di fronte alla ingombrante magniloquenza di Augusto Gaio Giulio Cesare Ottaviano.

La sottile ironia di Luca dilaga nel testo quando racconta che, proprio in questo scenario riempito dalla presenza di un capo tanto indiscusso quanto onnipresente come Cesare Augusto, avviene la nascita di un altro Capo. Certo è un figlio di poveri che inizia a far sentire il suo vagito in una stalla e per vivere, in tutto, come ogni piccolo d’uomo, dipende dai genitori.

Parrebbe tutto, tranne che Capo. Non è superfluo ricordare che, quando Luca scrive questa pagina, lo scenario imperiale romano è profondamente mutato. Il potere della gens Iulia, a cui apparteneva l’Imperatore – potere che appariva inattaccabile e intramontabile – è già archiviato dalla storia. È finito. Nel frattempo, quel trono è stato imbrattato di (altro) sangue e gli eccidi di palazzo hanno scippato definitivamente il potere dalla mano della famiglia di Ottaviano. Chi appariva reggere i destini di popoli e di individui, già è solo un nome consegnato coniugato con verbi al passato

In realtà, colui che nasce nel trambusto del censimento e che apre gli occhi in un frangente che sembra decretare la sua insanabile sudditanza – quasi plasticamente sancita dal suo essere assiso in un trono di paglia, “in una mangiatoia” – è il vero Capo, il vero Salvatore, l’unico Unto e Signore.

In realtà, il Capo è proprio lui! Ma Capo che governerà con modalità opposte al divus Caesar: starà in mezzo agli altri, uomo tra gli uomini, senza ambire al titolo di “benefattore” esercitando il potere (cf Lc 22,25) servendo i sudditi, non servendosi di loro; non monitorandoli per spremerne denari e soggiogarli a sé. Sarà Capo non spezzando il reo, ma spezzandosi per il reo.

In realtà, dice Luca, proprio per questa non convenzionale regalità, solo lui è Signore. Solo lui è il Signore proprio perché la storia non può essere guarita dall’esibizione della forza, dalla violenza della sopraffazione e dell’ingiustizia, ma solo dall’amore.

Certo è che questo evangelo, questo lieto annunzio, non è proprio una buona notizia per i despoti di turno, ma lo è per gli umili, per gli scartati, per i pastori che, appunto, sono i primi destinatari di essa. Dicendo ai pastori che questo Signore, quello vero, è nato per loro, si intende affermare che i marginali e i dimenticati, gli insignificanti e gli esclusi, sono al centro dell’interesse di Dio. I pastori a cui si rivolge l’annunzio angelico, non sono i bei pastorelli dell’immaginario tirato a lucido: rubicondi, che con sguardo trasognato fanno intravedere squarci bucolici, melodie melliflue e dolcezze campestri. No. È gente disprezzata perché ritenuta inaffidabile: scorrazzano e invadono spazi altrui e arraffano anche ciò che non è loro. Gente considerata incapace di vera religiosità perché tanto legata al gregge da disattendere ogni prescrizione rituale, ogni adempimento liturgico, ogni purità indispensabile per il culto.

In realtà, l’annuncio che ha sconvolto questa “gentaglia”, è che il Capo, quello vero, quello non facsimile-divino ma divino sul serio, l’Unto di Dio, si manifesta loro in forma assai diversa dalle attese umane. La grandezza di Dio è consegnata loro – proprio ai pecorai – dentro la debolezza del Bambino.

In realtà, il vero Divino Augusto è proprio quello che appariva loro nella fragile carne di un neonato. Incredibilmente sottomesso all’editto imperiale, lui è l’unico Divus; nato nella stalla e assiso tra steli di fieno, lui è il vero re.

È questa voluta povertà di ingresso nel mondo, che si incrocia con la subìta povertà dei primi destinatari della buona notizia, i pastori, che frantuma l’immagine del Dio forte, dominatore e castigatore, svelando, in realtà, il volto del Dio inerme, servo, misericordioso: che “perdona tutte le colpe, guarisce tutte le malattie; che salva dalla fossa la vita, e corona di grazia e di misericordia; che è buono e pietoso, lento all’ira e sconfinato nell’amore; che non continua a contestare e non conserva per sempre il suo sdegno; che non tratta secondo i peccati e non ripaga secondo le colpe; che allontana dal peccatore le colpe, come dista l’oriente dall’occidente” (cf Sl 102).

Sì, gli inaffidabili pecorai si sono mossi perché, in realtà, l’annuncio angelico ricevuto era così diverso, inatteso, contrario alle idee degli uomini da capire “che proprio quel Dio non poteva essere che il vero Dio, l’unico, il vivente. Perché Dio è il Dio fragile che si propone a noi, ma non forza la nostra adesione. Viene ad offrire il suo amore e a chiedere il nostro. A rivelare la sua tenerezza e non la sua collera. Per questo è fragile: perché noi possiamo anche rifiutare il suo amore, ricusare la sua tenerezza. Ed è così facile che lo facciamo spesso” (R. Laurita).

 

Accesso negato

Mentre chi conta sullo scacchiere della storia è occupato a potenziare i confini dei propri possedimenti, a inventariare nomi e beni dei sudditi, consolidando così l’assetto delle proprie amministrazioni, Dio sceglie il luogo più impensabile per inaugurare il suo Regno: Betlemme. Insignificante nelle mappe dell’Impero (anche se non poi così tanto per l’Agenzia delle Entrate imperiali…).

La sottile irrisione di Luca si impone ancora nel racconto: da dove meno l’establishment imperiale si aspettava l’offensiva alla celebrata pax romana, proprio da lì, inavvertitamente e senza alcuna eclatanza o esibizione di potere, prenderà avvio uno sconvolgimento perpetuo.

 

La “gloria di Dio” sfida e atterra la gloria degli uomini. La “gloria di Dio” è un bambino in fasce che entra nel mondo, ma non a gamba tesa, non abbattendo, sgominando e asservendo. “Non contenderà, né griderà, né si udrà sulle piazze la sua voce. La canna infranta non spezzerà, non spegnerà il lucignolo fumigante, finché abbia fatto trionfare la giustizia; nel suo nome spereranno le genti” (Mt 12,19-21). Entra nel mondo con mitezza, senza aggettivi, nel nascondimento, senza pose e nel silenzio, senza eccezioni. E viene rifiutato: “Per loro non c’era posto”.

È scontato che Cesare Augusto e il governatore Quirinio, tutti presi dai molteplici loro affanni politico-diplomatici, non trovino né tempo né modo di sapere che un galileo, strattonato in Giudea per obbedire alla loro ingiunzione, sia costretto a nascere in un riparo per bestie. L’alta politica ha ben altri impicci da gestire che star dietro a tre poveracci in cerca di riparo. Per nessun poveraccio c’è posto nei pensieri e nel cuore dei grandi.

È scontato anche che i proprietari dei vari alberghi betlemmitani, con un’affluenza cresciuta a dismisura a causa del censimento, non riescano proprio a trovare un buco per questi giovani sposi ormai quasi genitori. Ma gli affari sono affari! A chi può sborsare di più puoi negare alloggio? Per nessun poveretto c’è posto nei pensieri e nel cuore di chi deve fare affari.

Ma è davvero scontato che tutte quelle altre porte bussate con chissà quale apprensione, disagio, speranza da Giuseppe non siano state attraversate da uno pur striminzito “Sì, prego, entrate”? Tutti insensibili gli abitanti della santa città di Davide? Tutti dal cuore di pietra? No. Dietro quelle porte rimaste sigillate si affollavano ragioni ineccepibili, scuse graniticamente solide, pretesti di difficile smontatura, pregiudizi colmi di ottimo buon senso.

Quando si è improvvisamente chiamati in causa in prima persona e si è importunati senza preavviso, quando dal proprio comodo cantuccio si è stanati da inattesi scocciatori e il rischio di essere schiodati dal quieto vivere si materializza, allora neppure uno sgualcito “Sì, prego, entrate” riesce mai a oltrepassare la soglia.

Dietro quelle porte, poteva restare impalato e afono ognuno di noi.

 

Gloria bandita, festa finita

Bandire il Bambino in fasce è dunque bandire “la gloria di Dio”, privarsene rovinosamente e insipientemente. Eppure senza questa Gloria non si vive. Il povero Augusto Gaio Giulio Cesare Ottaviano, l’ancor più povero Publio Sulpicio Quirinio, i poverissimi faccendieri insieme agli inconsapevoli abitanti di Betlemme, non potevano certo immaginare la sventura e la malasorte loro occorsa: tenendo chiuso cuore e porta al neonato di Maria, han tenuto fuori il Figlio di Dio. Han tenuto fuori la festa! Ma questa è la maledizione che ognuno di noi si costruisce con le proprie mani: quando non facciamo “un posto” per le “fasce” del povero tra noi, nelle nostre città, nei nostri paesi, nelle nostre comunità, nelle nostre case, chiudiamo fuori dalla nostra storia Dio stesso. Bandita la gloria di Dio consegnata ai pastori nel Bambino in fasce, finisce la festa. Perché la vicinanza del povero, dell’altro-da-me, è vertiginosa, è visita divina, è rivelazione. È festa! Dove i poveri vengono rifiutati o calpestati, la festa del Natale smette di essere festa, gioia, incontro. Nel Bambino in fasce e posto nella mangiatoia ci sono il povero, lo straniero, gli scarti delle nostre società, ed Egli è posto a salvezza o a condanna di ogni civiltà, di ogni cultura e di ogni religione.

“Ero straniero e mi avete accolto” (cf Mt 25,31ss), dove Gesù si identifica con lo straniero, con il malato, con chi è nudo, in carcere ecc., ma non si identifica con chi visita il malato o accoglie il forestiero o veste chi è nudo o da cibo o bevanda a chi ne è privo. È il povero, lo straniero, il bisognoso, l’affamato, l’assetato, il malato, il carcerato che porta con sé un qualche frammento di Dio, qualcosa della sua salvifica debolezza! È lui, proprio nella sua debolezza e fragilità, che diventa teofania, manifestazione di Dio.

“Non dimenticate la philoxenìa: alcuni, praticandola, senza saperlo, hanno accolto degli Angeli” (Eb 13,2). Ma in casa mia, in casa nostra, in casa cristiana ancora quanta amnesìa della philoxenìa: l’amore per chi è straniero, altro – in qualsiasi modo – è strangolato dall’amnesìa del Dio vestito di carne. Smemoratezza di Colui che ha vestito l’assoluta estraneità da sé. “Alcuni… senza saperlo… Angeli”. Sotto traccia è indicato Abramo che non è nominato (cf Gn 18,1-16). Nel testo risuona un volutamente anonimo “qualcuno” che, accogliendo la stranierità, gli è dato di incontrare “Angeli”. Gli è dato di incontrare Dio. Questa è la regola vera della vera ospitalità: qualcuno accoglie qualcun altro. Senza biglietto da visita. Un puro atto di fede senza garanzie. Un rischio e, insieme, il manifestarsi di una relazione che può assurgere a rivelazione. Sì, siamo tutti salvati perché ac-colti nella carne del Verbo. Così gentile e così libero da non domandarci il biglietto da visita.

“Bisogna curare il corpo di quanti ci stanno vicino” diceva Gregorio di Nazianzo (cf Discorsi 14,6-8). Curare il corpo. Curare la carne. Curare il volto. Ap-prezzare chi è altro-da-me, altro-che-è-con-me, altro che consegna me-a-me-stesso. Altro come limes o Altro come limen? Altro come frontiera fortificata, limite invalicabile, estranea ostilità o Altro come soglia che concede passaggio, condizione di rapporto. Rivelazione? Gesù di Nazaret, Cristo e Signore, per noi si è fatto Limen per farci conoscere il Padre. Come non augurarci vicendevolmente, permanendo nel Limen, la gioia mai consumata di accogliere ogni relazione come rivelazione?

  

Nota estraneità

Ogni “straniero”, ogni altro, è lo specchio della “stranierità” che ci abita. Egli è la faccia nascosta della nostra identità. La diversità/estraneità mi abita… Riconoscendola in noi, arriviamo a non demonizzarla in lui: “Stranamente, lo straniero ci abita: è la faccia nascosta della nostra identità, lo spazio che rovina la nostra dimora, il tempo in cui sprofondano l’intesa e la simpatia. Riconoscendolo in noi, ci risparmiamo di detestarlo in lui. Lo straniero è in noi stessi… Lo straniero vive in me, quindi tutti noi siamo stranieri” (J. Kristeva).

La paura dello straniero è sempre, in certo modo, la paura dello straniero che ciascuno di noi è per se stesso e da cui ci difendiamo per proteggere la nostra identità. In fondo, lo straniero è il vettore di quella cifra rivelativa che interessa il nostro essere più profondo e intimo: il come nel nostro rapportarci ad esso è rivelativo di quanto si muove nel cuore del nostro cuore.

È uno specchio che mi rinvia a quel quid inattingibile che alberga in me stesso. “Per me stesso, io non sono solo evidente, ma anche strano, enigmatico, anzi sconosciuto: al punto che possono accadere cose come queste: un giorno guardo allo specchio e mi interrogo “straniato” – quanto è rivelatrice la parola ‘straniato’ -, toccato da estraneità, respinto da estraneità: attenzione! Estraneità tra me e la mia stessa immagine” (R. Guardini).

Lo straniero e la sua diversità ci aiutano ad essere noi stessi, mettendo in crisi le sicurezze acquisite. Si è, in fondo, “bambini” da alfabetizzare. Solo uscendo dall’utero il feto inizia a vivere; solo da questo estraniamento originario, da tale esodo traumatico ma indispensabile, la vita diventa realmente vita, diventa cioè relazione.

 

 A Natale

Dunque è Natale. Ma cosa realmente succede anche in questo nostro Na-
tale? È solo di nuovo Natale o è un nuovo Natale?
È un nuovo Natale perché

A Natale Dio incomincia (l’impegnativo) mestiere di uomo.

A Natale Dio che si fa carne umana dice senza fraintendimenti che ha stima dell’uomo.

A Natale Dio confessa la sua fede nell’uomo.

A Natale Dio che vagisce, grida la sua speranza nell’uomo, non l’abbandona alla fatalità e alla disperazione del male.

A Natale Dio non invia messaggi direttivi o altezzosi, o doni o promesse: egli stesso è il messaggio, il dono, la certezza di ogni promessa.

A Natale Dio, bambino e privo di parola, nato fuori di casa, rifiutato da chi poteva accoglierlo, tenuto al caldo lì dove gli animali stritolano il loro mangime, annuncia che i pre-potenti sono deposti e che gli ultimi saranno esaltati.

A Natale Dio guadagna l’ultimo posto perché l’ultimo valga come Dio.

A Natale Dio inaugura una passione insana: quella per i poveri, i perseguitati, gli oppressi, gli esclusi che diventerà incandescente sul monte delle Beatitudini e irrefrenabile il mattino di Pasqua.

A Natale Dio si fa uomo perché l’uomo diventi umano; prende un volto tra innumerevoli volti perché in ogni volto brilli il suo volto.

A Natale Dio invade umilmente la carne perché ogni carne cammini liberamente per vie di compassione, di mansuetudine, di pazienza e di benevolenza.

A Natale Dio libera il suo sogno e gli da corpo in un fragile frammento di carne umana. Così compie quel sogno di amore inciso in ogni cuore umano.

A Natale Dio diventa precario nella carne perché ogni carne venga assunta a tempo indeterminato da Dio stesso.

A Natale Dio consegna il suo desiderio: vuole che tutti siano riconosciuti grandi e importanti come è lui e accende nella carne il medesimo desiderio: apprezzare quelli che non contano, perché gli ultimi devono diventare primi e perché questi primi siano davvero umani.

A Natale Dio decreta che la storia, ormai, deve camminare “a rovescio”: se i pecorai sono gli invitati d’onore e i Magi porteranno i loro doni all’ultimo nato dell’Impero romano, allora – e per sempre – gli idoli della ricchezza, del potere e del prestigio sono infranti. Per sempre.

 

Celebrare la nascita del Figlio di Dio avvolto in fasce, posto nella greppia, rifiutato dai suoi, significa per le nostre comunità, per le nostre famiglie, per ciascuno di noi, porsi in ricerca tra i poveri di quei segni dimessi del Messia e Signore che, proprio attraverso gli stessi poveri, viene per la nostra salvezza.

Il palazzo di chi conta, i tanti alberghi da una a molteplici stelle, le porte sbarrate perché la voce di chi manovra il chiavistello è strozzata dal pregiudizio, dall’egoismo, dalla paura, non hanno dato ospitalità al Povero. La sua vendetta è, ancora e sempre, la nostra salvezza: della sua stalla fa il palazzo, l’albergo, la casa dei poveri.

In questo Natale, a me, a voi, a ogni uomo amato da Dio sia data la gioia di essere realmente di casa in quella stalla, e non allergici a fieno e a fasce.

Maria e Giuseppe ospiti miti e gioiosi di quel rifugio di fortuna, ma soprattutto estasiati per il dono del nato Bambino, accompagnino cuori e passi verso di lui, il sempre Veniente

 

+ padre Mauro Maria Morfino
vescovo di Alghero-Bosa