“Tentazioni benedette”. Messaggio per la Quaresima-Pasqua 2019 del Vescovo Mauro Maria

Con il Mercoledì delle Ceneri inizia il tempo quaresimale: tempo di riflessione, penitenza, pentimento e perdono. Pubblichiamo di seguito il testo integrale, scaricabile anche in pdf, del Messaggio del Vescovo Mauro Maria per la Quaresima e la Pasqua 2019 intitolato “Tentazioni benedette”.
A breve, come ogni anno, nelle comunità parrocchiali saranno inviate alcune copie del Messaggio, unitamente al materiale utile per la Giornata per il Fondo Episcopale di Solidarietà che la Diocesi celebrerà Domenica 7 Aprile, 5ª Domenica di Quaresima.

TENTAZIONI BENEDETTE

di Padre Mauro Maria Morfino, Vescovo di Alghero-Bosa

 

Tentazioni. O del come rimanere Figlio

La sapiente e pedagogica ciclicità dell’anno liturgico ci sospinge a ri-abitare e ri-vivere la densità, la ricchezza e l’insostituibilità della Quaresima, tempo severo ma “favorevole” (2Cor 6,2), tempo agonico, di lotta contro le tentazioni che depotenziano la vita ma che, da trabocchetto assassino, possono diventare luminose opportunità di dar vita alla vita. E’ così che si può celebrare la Pasqua: togliendo via “il lievito vecchio, per essere pasta nuova” […] per celebrare “la festa non con il lievito vecchio, né con lievito di malizia e di perversità, ma con àzzimi di sincerità e di verità” (1Cor 5, 6-8). Per questo la Chiesa, all’inizio di questo tempo ci ripropone puntualmente il racconto delle tentazioni di Gesù nel deserto, tentazioni che secondo Luca non cesseranno di riaffacciarsi lungo tutta la sua vita, fino alla fine (cf Lc 23,35-39). Tentazioni che, affrontate e vinte, inverano e confermano quella parola dove il Padre ha appena reso nota l’identità di Gesù di Nazaret: “Tu sei il mio Figlio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento” (Lc 3,22).

Il Battesimo nel Giordano è la svolta che cambia la vita di Gesù, le dà una forma nuova: da fruitore del battesimo amministrato alle folle dall’austero Battezzatore, da uno tra la moltitudine penitente, a profeta autentico, ricolmo – come nessun’altro – dello Spirito. Lo stesso Giovanni dirà della permanenza stabile, non episodica né funzionale dello Spirito su Gesù: “Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui [menòn ep’autòn]” (Gv 1,32). E’ per questa sovrabbondanza dello Spirito che Gesù si allontana dal Giordano, inoltrandosi nel deserto di Giuda; è lo Spirito che lo spinge a ritirarsi, ad abitare quella solitudine che gli concede di assumere in pienezza e declinare storicamente il suo essere Figlio, colmo della eudokìa/compiacimento del Padre. Tutto e solo pervaso dallo Spirito, Gesù vuole capire come essere Figlio nelle pieghe e nelle piaghe della storia, come essere annunciatore e profeta del Padre, come attuare questa sua missione, come realizzare la sua vocazione di obbediente ascoltatore del Padre. Tentazioni e deserto, o meglio, tentazioni nel deserto privo di diversivi, sono il luogo privilegiato per fare questo discernimento. Lì, tentato nel deserto, Gesù può individuare tutto ciò che si oppone e che contraddice la volontà del Padre – quella cioè di averlo Figlio, sempre – che coincide perfettamente con l’unico “cibo” di Gesù: averlo Padre e rimanergli Figlio, sempre (cf Gv 4,34). Gesù sa che ci sono due modi contrapposti di essere Figlio: uno diabolico, l’altro divino. Il primo è mosso dalla voglia di possedersi, di possedere gli altri fino a possedere Dio, in un costante lavorìo di appropriazione declinato in mille modi. Il secondo, al contrario, ha luogo nel ricevere tutto come dono dal Padre e imitandolo a propria volta con ogni altro, gioendo di mettere la propria vita di figlio nelle mani di Dio e dei fratelli. Due, e opposti, gli esiti: il primo produce a dismisura violenza, sopraffazione e morte; il secondo vita vera e amore che risana.

L’orizzonte ampio e quanto mai significativo entro cui leggere sapientemente le tentazioni di Gesù nel testo lucano, è dato dalle prime e dalle ultime parole di Gesù nel terzo Vangelo. Le prime, che concludono i “Vangeli dell’infanzia”, sono dell’adolescente Gesù in mezzo ai dottori, che risponde ai genitori angosciati: “Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?” (Lc 2,49). Le ultime della sua vita terrena sono nella preghiera di abbandono sulla croce: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46).

«Quindi Luca pone tutta l’esistenza di Gesù, dall’epoca piena d’entusiasmo della sua adolescenza fino al terribile dramma della crocifissione, sotto il segno del compimento della volontà del Padre. Non stupisce dunque che il racconto delle tentazioni metta in scena una prova che verte appunto sul modo di assumere la condizione filiale: “Se tu sei il Figlio di Dio, allora…” (Lc 4,9). È come se Gesù, prima di iniziare la vita pubblica e il suo insegnamento a partire dalla parola del Padre (cf Lc 4,14-37), dovesse sottoporsi previamente a una “prova di verità”: la sua esistenza è davvero imperniata sulla legge di quel Padre al quale rende testimonianza, e sull’ordine simbolico che questa stabilisce?

Una prova tanto più plausibile in quanto l’Evangelo ha appena riportato l’episodio del battesimo da parte di Giovanni Battista. In quel racconto Gesù è presentato come pienamente cosciente del legame d’intimità che lo unisce al Padre: “Tu sei il mio Figlio Prediletto, in te mi sono compiaciuto” (Lc 3,22). L’intensità di quanto Gesù ha vissuto al battesimo rischia dunque di spingerlo a prendere le distanze e quasi a rifiutare la normale condizione umana, con le mediazioni che questa comporta. Per questo Luca si premura di presentare, subito dopo questo episodio, la genealogia umana di Gesù. A tal scopo fornisce una lunga lista di personaggi, che termina con due espressioni: “Figlio di Adamo, Figlio di Dio” (Lc 3,38).

Ecco dunque il legame filiale divino di Gesù presentato come indissociabile dal suo legame filiale umano, con tutto ciò che questo implica in termini di accettazione della differenza tra le generazioni e di riconoscimento degli errori dei propri antenati. Che il Cristo è pienamente figlio di Dio pur essendo altrettanto figlio degli uomini, è quanto afferma questo elenco genealogico. Ma è proprio la dissociazione e la contrapposizione menzognera di queste due condizioni filiali l’elemento che cercherà di introdurre il diavolo, colui che nel racconto rappresenta il contrario dell’ordine simbolico» (X. Thévenot, “Le tentazioni di Gesù, conflitto tra due condizioni filiali”, in Le ali e la brezza, 18-19). Il dia-bolico – divisore/dividente/lacerante – tenta, appunto, di dividere ciò che il Padre ha pensato come syn-bolico, come realtà inscindibile e non scorporabile, in Gesù e in ciascuno di noi.

Alla luce di questa pagina lucana, dunque, possiamo affermare, in verità, che la vocazione essenziale del credente, la reale “questione fondamentale” della nostra vita cristiana è vigilare su una sempre nuova assunzione, nella sequela di Cristo, di questa duplice filiazione umana e divina. Proprio e solo nella intangibilità di questa duplice figliolanza corre il passaggio obbligato per un’autentica testimonianza del regno di Dio. Nel restare pienamente Figlio del Padre e nel restare pienamente Figlio di questa umanità, nella tentazione, Gesù offre anche a noi la possibilità di rimanere figli.

 

Tentazioni. O del rifiuto del messianismo diabolico-mondano

Nei racconti evangelici, la menzione delle tentazioni ha lo scopo di narrare come Gesù sentisse e vivesse il suo essere Messia e di quanto rifiutasse ogni forma di messianismo mondano: rifiuto di compiere segni miracolosi che costringessero a credergli (cf Lc 11,16; Mc 8,11); rifiuto di impadronirsi del potere politico (cf Mc 6,45; Gv 6,15); rifiuto di percorrere una via diabolica/mondana per inaugurare il Regno evitando la croce, prendendo le distanze dalla vita e dalla storia nella sua ferialità (cf Mc 8,31-33). I primi discepoli, impauriti dalle difficoltà della missione che iniziavano, ascoltano, probabilmente da Gesù stesso, che le medesime resistenze e tentazioni non erano mancate neppure a lui.

Dopo il battesimo nel Giordano, che richiama decisamente il passaggio nel Mar Rosso, Gesù ripercorre lo stesso itinerario di Israele nel deserto. Ma se Israele cade nella prova, Gesù la vince e spalanca l’ingresso nella Terra promessa, nel Regno di Dio. «Le tentazioni, modulate su quelle di Israele, sono storicamente da connettere con il battesimo. Questo costituisce la scelta fondamentale di Cristo: la solidarietà con i fratelli, in obbedienza al Padre. Le tentazioni presentano i costi di questa scelta, sotto forma di lotta contro la scelta contraria. Questa, ovvia e comune a tutti, consiste nel ricercare il potere di qualsiasi tipo, a fin di bene. Ma ciò è contrario alla solidarietà coi fratelli e quindi disobbedienza al Padre! […] Mentre Marco accentua l’aspetto di Gesù come nuovo Adamo e Matteo quello del nuovo Israele, Luca presenta il Cristo nella sua vittoria pasquale sul nemico, Satana. Questa vittoria la vediamo realizzata negli esorcismi, nei miracoli stessi e nella passione. Si spiega così chi è il “Figlio” di cui Dio si compiace: è il Figlio obbediente alla sua parola, che con l’obbedienza ha vinto il male e creato nella storia uno spazio libero dal suo potere, nel quale tutti gli uomini possono essere salvati. Le stesse tentazioni in cui Israele è caduto, invece di ineluttabile luogo di perdizione, diventano promessa di salvezza a causa di colui che le ha vinte. Quel nemico, che fu all’opera al tempo di Israele, è all’opera ancora adesso nella vita della Chiesa. Ma il suo dominio sull’uomo è stato rotto e vinto da Gesù. In lui il credente passa attraverso la breccia ed entra nell’”oggi” della salvezza. Gesù che ha vinto, vince ancora “oggi” nella fede del discepolo che lo ascolta per essere salvato. Le tentazioni costituiscono il tessuto della vita quotidiana cristiana: sono la lotta necessaria contro il male e i costi stessi del bene. Hanno un valore positivo: sono segno che si è nel mondo, ma non del mondo e si appartiene a Cristo Signore. Il diavolo che tenta l’uomo ha dapprima un solo potere: rubargli la Parola (8,12), in modo che non obbedisca a Dio. E’  quanto tenta di fare anche con Gesù. Ma se uno obbedisce, la Parola attecchisce nel suo cuore e porta frutti di salvezza. Per questo il diavolo lo tenta poi mediante la tribolazione, perché si scoraggi e cada nella sfiducia (8,13). Se non riesce a scoraggiarlo, cammin facendo cerca di soffocare la parola di Dio, fomentando preoccupazioni per la ricchezza e i piaceri, suoi alleati nel sedurre l’uomo alla disobbedienza (8,14)» (S. Fausti, Una comunità legge il Vangelo di Luca, 93-94).

 

Tentazioni. O del poter fare a meno dei limiti

 Luca, da buon catechista, esemplifica le tentazioni in numero di tre. Dai Vangeli – come dalla nostra esperienza personale – non è difficile capire che in realtà, l’uomo Gesù, si è dovuto confrontare con un nugolo ben più consistente di tentazioni. Ma l’evangelista, con fine sapienza antropologica le riassume tutte, appunto, con tre situazioni: quella del mangiare, del possedere, del dominare. Ogni tentazione ha, per esca, le tre fami che mordono il cuore dell’umano: fame di cose, fame di persone, fame di Dio. Ma la tentazione ra-presenta la possibilità di assicurarne la soddisfazione mediante il possesso: le cose con l’avere, le persone col potere, Dio col volere invece che mediante il dono. Non è un mistero che ogni peccato, in fondo, non fa che ripetere il primo, quello di Adamo: impadronirsi del dono, staccandolo dalla sua sorgente e fagocitarlo per sé.

E’ in questo rovinoso “triangolo delle Bermude” che l’umano collassa mutandosi in dis-umano; è questo tridente che arpiona la vita facendola languire. Dall’inesauribile fòmite del mangiare/possedere/dominare, si nutre e si alimenta ogni altra tentazione. In verità, il trinomio, indica un’unica cosa: sbranare, fagocitare, impossessarsi, assimilare a sé e solo per-sé. I Padri della Chiesa la indicavano come philautìa, o “amore malato” verso se stessi, nell’esclusione di ogni altro polo affettivo. La sfida che il diavolo getta a Gesù è intrisa di questa malattia dove si miscelano e confluiscono differenti agenti patogeni: poter fare a meno dei limiti propri dell’umano, negare la creaturalità, gonfiare a dismisura il proprio Io, potersi salvare con mezzi propri.

4,1 Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto, 2 per quaranta giorni, tentato dal diavolo. Non mangiò nulla in quei giorni, ma quando furono terminati, ebbe fame. 3 Allora il diavolo gli disse: “Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane”. 4 Gesù gli rispose: “Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo”. 5 Il diavolo lo condusse in alto, gli mostrò in un istante tutti i regni della terra 6 e gli disse: “Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio. 7 Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo”. 8 Gesù gli rispose: “Sta scritto: Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”. 9 Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: “Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù di qui; 10 sta scritto infatti: Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo affinché essi ti custodiscano; 11 e anche: Essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”. 12 Gesù gli rispose: “È stato detto: Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”. 13 Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato.

Una lettura un po’ più approfondita del testo ci aiuta a cogliere la densità di questa pagina evangelica per la nostra vita di credenti, per illuminare i nostri momenti di tentati, per assaporare il gusto sempre nuovo di una Parola che illumina, guarisce e salva.

 

Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano e fu condotto dallo Spirito nel deserto (v. 1)

E’ nella forza dello Spirito che Gesù vive l’intensa esperienza del suo “essere uno” nell’amore, con il Padre. E sarà da questo unico e inscindibile rapporto che Gesù, annunciando la buona notizia del Regno – senza battute d’arresto – guarisce, perdona, risuscita i morti, affronta i conflitti, vive le relazioni, le gioie, i progetti, i tradimenti, le tribolazioni e anche la sopraffazione scatenata dalla sua parola e dai suoi stili di vita. Rapporto con il Padre che verrà scosso fin dalle fondamenta nella tragicità della passione (cf Mc 15,34), ma che resterà vivo nella morte stessa (cf Lc 23,46). Lo Spirito conduce Gesù nel deserto: quasi non-luogo, certamente un luogo di assenza, di deprivazione, di mancanza di relazioni, di alimenti, di ogni possibile di-vagazione o di-versivo. Gesù si lascia condurre nel deserto dallo Spirito, ne è colmo e gli è ar-reso, aderendo a ciò che tale transizione significa: spoliazione di tutto ciò che è ed ha, abitando la solitudine e acconsentendo la penuria di cibo come verifica dei propri limiti umani, della propria condizione di fragilità, dunque di mortalità. Ma è proprio nella radicale nudità che ogni umano apprende la verità più profonda di se stesso, di chi e di cosa lo circonda. Gesù che, nello Spirito, si decide per il deserto, ci dice di quale portata è stata la sua adesione alla realtà, il suo assenso alla condizione umana.

Proprio nel deserto, dove ogni via di fuga svanisce, la qualità, la verità e la tenuta del suo essere Figlio, viene posta decisamente sotto pressione, viene messa alla prova. E’ nel deserto che Gesù decide risolutamente di porsi, davanti al Padre, solo da Figlio. E’ dal deserto che uscirà il Figlio che verrà riconosciuto tale da chi gli darà credito. Ciò suggerisce che, anche un’esperienza di pienezza come quella vissuta da Gesù nel battesimo – indubbiamente esperienza all’apice del religioso – senza deserto, non abilita automaticamente ad assumere in modo compiuto e sano la condizione filiale.

 

Per quaranta giorni fu tentato dal diavolo. Non mangiò nulla in quei giorni, ma quando furono terminati, ebbe fame (v. 2)

Non facciamo fatica a cogliere la portata dell’indicazione temporale usata da Luca di quaranta: Mosè (cf Es 24,18; 34,28; Dt 9,9-11.18.25) Elia (cf 1Re 19,8) e lo stesso Israele hanno dovuto misurarsi nel deserto per periodi analoghi (cf Nm 14,33-34; 32,13; Dt 2,7; 8,2-4; 29,4) e sempre è stato un tempo di prova che implica fatica, rinuncia, scelta, soppesamento di quanto si porta in cuore, verifica… Ma tale indicazione temporale suggerisce anche che la prova di colui che il Padre indica come “Figlio prediletto/amatissimo” non è stata transitoria, bensì di lunga durata. Della durata stessa della sua vita.

«E’ risaputo come sia relativamente facile tener duro nel pieno di una burrasca, anche intensa, quando la traversata è breve. In compenso, quando questa si prolunga, non si possono più adottare “diversivi” e far finta di ignorare le questioni di fondo poste dalla sofferenza interiore. Si è condotti, per amore o per forza, a guardare con lucidità chi si è e cosa si desidera veramente. Ma dal momento che spontaneamente non si amano “operazioni-verità” di questo genere, spesso si comincia ad attingere nella riserva delle illusioni interiori, che bene o male riescono a turare la breccia aperta della nuova esperienza della finitezza che si sta facendo in quel momento. Si è allora tentati di cedere alla loro seduzione, invece di assumere la realtà» (Thévenot, ibidem, 20-21).

Il diabolico “apre” a Gesù tutte le vie possibili di fuga dall’ordine simbolico, quell’ordine voluto dal Padre, che mantiene in unità inscindibile il suo essere doppiamente Figlio: di Dio e dell’Uomo.

 

Allora il diavolo gli disse: “Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane” (v. 3)

Ma molla questo umano!

E’ un se carico di conseguenze che “l’omicida fin dal principio [e] il bugiardo e padre della menzogna” (Gv 8,44) cavalca e manipola: se è stato proprio il Padre dei cieli ad indicarti come “Figlio amatissimo”, se è proprio sua la voce che è risuonata su te, se tu sei veramente ciò che quella voce ha scandito “di’ a questa pietra che diventi pane”. Vale a dire: se tu partecipi della potenza di Dio, perché non ricorri a questo miracolo – per te una facezia – mutando la pietra in pane, così da poterti saziare? Se tu sei veramente suo Figlio, rifiuta e liquida la tua umanità – così ingombrante, inutile, precaria (e, se davvero assunta da Dio, scandalosa!) – umanità svelata proprio dalla fame che, se non avrà ascolto, ti condurrà alla morte. La tentazione “diabolicamente” suggerita a Gesù è dunque quella di disfarsi della corporeità, di dimenticare l’umanizzazione scelta, di rinunciare al limite imposto dall’umano e di usare la potenza di Dio per saziare la fame. Potenza da usare-per-sé! Gesù elargirà del pane, e quanto. Ma per altri (cf Mt 14,13-21; Mc 6,30-44; Gv 6,1-14). Confezionando pane dalle pietre, avrebbe voluto dire rinunciare a ciò che aveva scelto proprio con il Padre nella creatività amorosa dello Spirito: diventare e restare “vero uomo”. In tutto, davvero in tutto, terrestre. La condizione che condivideva a pieno titolo con Dio, il Padre, non è deposta per finta, né è un strategico facsimile di kénosis. E’ una spoliazione per essere in tutto “vero uomo”: “Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana,  umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (cf Fil 2,6-8). E’ una spoliazione per una condivisione reale e piena con noi. Certo, sempre, per noi, vertiginosa.

E’ palese che la tentazione tocca la realtà più intima di Gesù: la sua identità di Figlio. Il menzognero, distorce e per-verte, proprio ciò che dovrebbe essere fonte di grande pace e di gioia: «l’essere figli di Dio, trasformandolo in fonte di divisione interiore. Il diavolo attira l’attenzione sulla filialità divina non per confermare Cristo nella sua fiducia al Padre, ma proprio per invitarlo a rifiutare la finitezza umana, che è pur sempre il luogo in cui si possono manifestare in verità i legami d’amore tra Dio e l’uomo» (Thévenot, ibidem, 22).

 

Usa per te il potere che hai!

Come può non tornare alla nostra memoria il cammino che, come Chiesa di Alghero-Bosa, stiamo percorrendo in questi ultimi due anni attraverso la lectio divina dei primi capitoli di Genesi? Si riaffaccia in questa pagina lucana il tema biblico che, nei mesi passati, ci ha trattenuto a lungo su Genesi 3: “Se voi mangiate del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, i vostri occhi si apriranno e voi sarete come dèi” (Gn 3,5). Lì come qui, la tentazione “primordiale” è quella di presentare una falsa immagine di Dio per poter rinnegare la condizione di creatura. Il tentatore, in Luca 4, vuol convincere Gesù che essere figlio di Dio significa eludere i limiti posti all’umano, tanto è vero che sprona Gesù a usare magicamente la sua parola per trasformare le pietre in pane. E’ una onnipotenza caricaturale (esattamente come in Gn 3,5): puoi soddisfare la tua fame, il tuo bisogno di cibo, senza sforzo, senza mediazioni e, soprattutto, per te stesso, senza altri che ti siano concorrenti e senza condivisione. Lì come qui, il non-detto, ma eloquente più del detto, è: pensa a star bene tu, da solo, ci sei tu e solo tu, pensa per te! D’altra parte è ben noto che il nostro rapporto con il cibo e le modalità di assumerlo, dicono tanto delle nostre radici, del cuore, di noi stessi nei nostri spazi più profondi…

 

Non hai bisogno di nessuno!

Senza mediazioni. E’ la tentazione che invita a dar credito ai tratti più caricaturali e del divino e dell’umano: il tentatore insinua in Gesù che, proprio perché Figlio, è dispensato dal mettere in opera le mediazioni umane, dal prendere seriamente in conto l’umano, i suoi ritmi, le sue leggi, i suoi tempi… Cedere alla tentazione porterebbe Gesù, nella sua umanità, a chiudersi in se stesso, a cercare ed esercitare un potere immediato, solitario e capricciosamente egoistico sulle cose, invece di aprirsi, da vero Figlio, a Dio e ai fratelli. La suggestione sottile è: “Tu, da solo, tu senza sforzo, tu senza antagonisti, tu senza alcun altro, tu puoi soddisfare per te stesso il tuo bisogno!”.

Senza mediazioni. Ogni pezzo di pane viene da lontano: è seme conservato con cura, grano seminato con attenzione, coltivato con perizia, raccolto a tempo debito, macinato come si deve, impastato con arte, cotto a dovere, fatto giungere finalmente sulle nostre tavole. Nulla di magico. Nulla di autarchico. Il salto istantaneo e magico da sasso a pagnotta, è il fotogramma di un’umanità che più non è tale: scartare le mediazioni, non passare attraverso altri e non tener conto di essi ma solo di sé e delle proprie molte fami, è un miraggio di onnipotenza e di potere immediato che, facendo a meno di ogni cammino di comunione e condivisione, strozza invece che nutrire.

 

Tutto, ma senza condivisione

La prima tentazione di Gesù nel deserto racconta anche del per-verso suggerimento che fa capolino dall’incomponibile binomio pietra-pane ed è ancora: “Tu, da solo, tu senza antagonisti, tu senza alcun altro, tu per-te-stesso, tu senza altre bocche!”. L’umana esperienza del mangiare non è la medesima che riempirsi la pancia. Vivere non è semplicemente mangiare ma è mangiare con altri. Il pane che soddisfa “dentro” è il pane della fraternità condivisa, il pane che tiene in vera considerazione gli altri, il loro lavoro, la loro fatica, la loro storia, il loro volto. La tentazione primordiale per tutti e per ciascuno è di saziarsi senza considerare altri. Prima io! Come se si potesse soddisfare la propria fame impossessandosi del necessario immediatamente e per sé. Umanamente, mangiare è sempre decidersi per la condivisione e assidersi in com-unione con Dio e con chi lui ci pone sul cammino. Mangiare da umani, e quindi crescere in umanità, facendo crescere altri in umanità, è luminosamente esemplificato da Gesù (non più tentato ma giudice universale della “categoria umana”) in Mt 25,31-46: dar da mangiare e mangiare; bere e dar da bere; vestire e vestirsi; abitare e ospitare. Vale a dire: condividere in comunione per non affogarsi in solitudine. Altro che giocare a mago Merlino sfornando pagnotte da sassi…

 

Se sei Figlio… Se scendi…

Il se sibilato dal tentatore è il medesimo se gridato dalle diverse categorie presenti ai piedi della croce (Mt 27, 38-44) che ha accompagnato la nostra Quaresima verso la Pasqua dello scorso anno. Quel Dio finalmente smascherato sulla croce, che si consegna totalmente e gratuitamente nella vulnerabilità scelta del Figlio crocifisso per la risurrezione. Se scendi noi ti crederemo! La parentela tra i se (come tra gli emittenti) è indubbia: se sei Figlio di Dio panifica con le pietre!

Ma Gesù non usa per sé di questo potere. Non lo ha mai fatto. Ha scelto di non farlo.

E’ proprio come Gesù che non scende dalla croce alla richiesta delle varie categorie dei presenti, così Gesù non si fa panificatore con i sassi. Lì come qui, è messa impietosamente a nudo quella teo-logia, quell’idea carnevalesca, ridicola e devastante che di Lui ci portiamo in cuore e che il tentatore vuole instillare nel nostro cuore. Gesù non usa del potere di mutare pietre in pane per sventrare questa concezione mascherata e del Padre e del Figlio. Vi scrivevo l’anno scorso in Dio smascherato: «Se, infatti, si fosse servito di quel potere, sarebbe diventato il garante di un dio pagano: saldamente ancorato al suo potere e di un potere tutto a proprio vantaggio, di un potere da distribuire (a meritevoli?) e da sfruttare, ancora e sempre, per vincere, stravincere e sgominare. Se fosse sceso dalla croce avrebbero creduto, sì. Ma in quale dio? Quale macchietta burlesca ne sarebbe stata consegnata all’umano? Quale farsesca parodia? Quale ritratto canzonatorio? Quale messa in ridicolo?».

C’è una pagina formidabile di Fèdor Dostoevskij nella Leggenda del grande inquisitore (I fratelli Karamazov) dove l’Autore, rileggendo la prima tentazione di Gesù nel deserto, offre una luce vividissima e compie un’esegesi incomparabile: «Vedi Tu invece queste pietre in questo nudo e infocato deserto? Mutale in pani e l’umanità sorgerà dietro a Te come un riconoscente e docile gregge, con l’eterna paura di vederti ritirare la Tua mano, e di rimanere senza i Tuoi pani». Vale a dire: muta la pietra in pane, oltre che per te stesso anche per compiere un’operazione eclatante, prodigiosa, sbalorditiva! Se tu sei Figlio, con un tale gesto puoi risolvere definitivamente il problema della fame del mondo, della fame di tutti, di tutte le fami… Certamente con-vincerai che sei Figlio, che sei Dio, che sei Salvatore. Ma ad un prezzo altissimo: il mascheramento di Dio. Gesù potrebbe farsi riconoscere con questo coup de foudre come Signore, sì. Ma violentando le coscienze. Beneficherebbe l’umanità ma tradendo la sua condizione umana. Non può e non vuole affermare il suo essere Figlio e Messia usando a intermittenza, a tempo e a luogo, le sue prerogative divine. Sarebbe stato un gioco beffardo e crudele. Non sarebbe stato Figlio del Padre.

 

Ma Gesù gli rispose: “Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo” (v. 4)

 Il come Gesù risponde al tentatore, azzittendolo, ha qualcosa da dire alla nostra bramosia di protagonismo e di autoreferenzialità. Non c’è un testa-a-testa, un appellarsi al suo essere nel e come il Padre, né a nessuna delle sue prerogative: tutte carte che Gesù avrebbe potuto realmente giocare. Con il divisore Egli non contende, né contratta, né chiama in causa la sua identità di Figlio e neppure la nota bugiarderia della controparte, né fa appello, in modo intimistico, alla sua esperienza ma neppure sbotta con un coraggioso e volontaristico “non voglio, vattene!”. Gesù resiste all’attacco perché ha in cuore la parola del Padre: “Non di solo pane vivrà l’uomo ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Dt 8,3; cf Mt 4,4). In ciascuna delle repliche al bugiardo (vv. 4; 8; 10; 11), Gesù non fa riferimento né a sé né ad una sua parola né ad una sua qualsivoglia prerogativa, ma invoca la parola del Padre incisa nell’Alleanza: “Sta scritto… è stato detto”. Per far fronte al padre della menzogna e omicida ab ovo, Gesù non procede in autogestione, non si atteggia a maestrino, non sfila dal cilindro formule magiche. Semplicemente si sottomette ancora, come sempre, alla parola del Padre, alla legge dell’Alleanza che “è suo cibo”.

Per noi che, talvolta, diventiamo gestori autonomi e disinvolti dei nostri vis-à-vis con colui che nessun colpo basso risparmia per dividere, per angosciare, per mostrarci simulazioni contraffatte di Dio, di noi stessi e degli altri, un nuovo e più consapevole credito alla parola di Dio va proprio dato: nella liturgia, nell’ascolto orante delle pagine bibliche, nella lectio divina personale e comunitaria. Sia lo stesso credito che il Figlio ha offerto al Padre sul Monte della Quarantena e sempre e ovunque nel suo pellegrinaggio terreno.

 

Il diavolo lo condusse in alto, gli mostrò in un istante tutti i regni della terra e gli disse: “Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio. Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo”. Gesù gli rispose: “Sta scritto: Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto” (vv. 5-8).

Non qui. Altrove è meglio!

E’ un generico “lo condusse in alto” che situa Gesù in un altrove: dalla tentazione marcatamente connessa all’ambito primordiale dell’oralità – cibo, fame, bisogno, bocca – ad un “in alto” che accarezza, non meno sinuosamente, un’altra voracità, un altro “buco nero” che abita ogni cuore umano: abitare altezze illusorie strappandoci dal qui-ed-ora. In una onnipotenza che evidentemente fa a pugni con la nostra creaturalità, fragilità, precarietà. E’ la costante caratteristica di ogni profferta dia-bolica che produce autentiche fratture nel cuore e nella psiche. Vivere è aderire pienamente alla storia che ad ognuno è data, abitando la realtà con i piedi ben piantati per terra. La proposta alternativa del menzognero è di farci, invece, cittadini di un “fuori onda”, staccando piedi, cuore, mente da quel qui-ed-ora che è e resta l’unica reale possibilità di vita. Questo altrove, con contrade confezionate al di fuori delle nostre coordinate storiche e temporali, evidentemente, non c’è, è chimerico, ma, certo, tanto, tanto seducente!

 

Solo Narciso abbocca

La promessa fallace che il tentatore rivolge a Gesù – ma condizionata all’adorazione che il Figlio deve rendergli – è quella di concedergli di vedersi circonfuso di exousìa e doxa, di potere e gloria. Chi ha dato al tentatore tale possibilità? Davvero può distribuire potere e gloria a suo piacimento? Il testo nulla dice ma tuttavia già sappiamo dell’identità del millantatore. Gesù accetterà potere e gloria dal Padre, e solo da Lui, quando sarà innalzato sulla croce (cf Gv 12,16.32-36) e solo a quel punto quando il dono completo di sé nella gratuità, è stato compiuto.

L’onnipotenza narcisistica – quell’io ideale che trova spazi di sopravvivenza più o meno facile in ogni cuore che ancora batte – con i suoi sogni e miraggi, le fantasticherie e il variegato mondo immaginifico, crede di poter signoreggiare il tempo e di infrangerne i limiti: “in un istante” (v. 5); come anche di padroneggiare possessi smisurati con piglio onnipotente: “tutto sarà tuo” (cf v. 7). Difficile non esser presi dalle vertigini davanti ad una tale sollecitazione! Il tentatore ha precedentemente cercato di prendere Gesù “per la gola” – fame, bocca, bisogno incoercibile di saziarsi – mentre ora ne sollecita un altro senso: gli occhi. Proprio come il serpente di Genesi 3,6 che induce la donna a poggiare lo sguardo su quell’albero che ella coglie “gradito agli occhi e desiderabile”, così il tentatore fa balenare a Gesù la visione del proprio Io adornato di gloria e di potenza. Da questo “alto” del suo Io, Gesù vede istantaneamente “tutti i regni della terra” e la lusinga del tentatore è di poterli avere per sé tutti e subito. E’ la tentazione della realizzazione di sé attraverso il possesso e il dominio accaparratore: in lui, Figlio e Messia, questo dominio immediato poteva suscitare la convinzione che, proprio attraverso tale supremazia, avrebbe potuto, repentinamente, realizzare la sua missione di Unto di Dio.

Il tentatore insinua al Figlio la prospettiva seducente di potersi accreditare con tutti e subito come Messia con questi (va proprio detto: diabolici) suggerimenti: signoreggiando su ogni regno, irridendo il tempo, accartocciando la storia e liquidando quella sua vicenda personale affidatagli dal Padre che, da Betlemme via Nazaret, puntava diritta a Gerusalemme. Ma perché poi, per giungere al compimento delle promesse del Padre, bisogna proprio salire a Gerusalemme? Certo è che, se Gesù acconsentisse, avrebbe in possesso tutti i regni istantaneamente, eviterebbe di doversi trascinare faticosamente, come ogni persona umana, dentro il tempo, non avrebbe a che fare con mediazioni lunghe e inconcludenti e, dall’orizzonte, la sagoma della croce sarebbe scomparsa… Ogni Narciso avrebbe divorato l’esca gettata. Ogni piccola o grande memoria di Narciso ancora custodita nel mio cuore, si sarebbe riattivata.

Ma questa è la conduzione satanica della storia, la gestione diabolica della vita e Gesù, il Figlio, ne ha concordata un’altra con il Padre: certamente tutti saranno attirati da Gesù, ma avverrà dal trono regale della croce (cf Gv 12,32); sarà riconosciuto re ma da crocifisso (cf Gv 19,19) e tutto e sempre viene condotto nella logica della gratuità del dono: da ricco che era, si è fatto povero per noi (cf 2Cor 8,9) e, pur essendo di condizione divina, svuotandosi, si è fatto schiavo (cf Fil 2,6-8). Dopo l’ignominia della passione e della croce, Gesù risorto potrà dire in verità: “A me è stato dato ogni potere in cielo e in terra” (Mt 28,18): regna servendo e domina donandosi. Il Risorto attira lo sguardo dei discepoli sulle sue piaghe e non sulle sue prerogative ormai luminosamente divine:  sono queste il segno che egli ha condiviso la condizione umana in ogni cosa, escluso il peccato (cf Eb 4,15).

 

Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: “Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù di qui; sta scritto infatti: Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo affinché essi ti custodiscano; e anche: Essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”. Gesù gli rispose: “È stato detto: Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”. 13 Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato.

 

Religione Tentazione

A Gerusalemme, proprio nel cuore della Terra promessa, si pone la tentazione definitiva: provocare Dio con il miracolo per vedere se “Il Signore è in mezzo a noi, sì o no?” (Es 17,7). E’ la tentazione radicale della fede. Come per Israele, anche qui, invece di fidarsi del Dio dell’alleanza, del Padre, si pretende un intervento salvifico secondo le sue promesse (cf Sl 91,11-12) per essere certi che non mentisse!

La terza tentazione è la “più alta”: sul pinnacolo del tempio. E’ la più subdola: ha a che fare con la religione stessa. E’ la più blasfema: per-verte la Scrittura santa. E’ la tentazione che stravolge il rapporto Dio-uomo: «invece di prestargli obbedienza e dargli credito, io, che prima gli ho obbedito, ora esigo che Dio mi obbedisca». Una religiosità e un’obbedienza malata: prima mi sono piegato io a lui, ora deve piegarsi lui a me. Meglio: proprio e solo per questo mi piego a lui! «La mia religiosità e giustizia è mezzo per dare la scalata a Dio e mettermi al suo posto. La sua Parola, invece che provocazione a me perché gli obbedisca, la rivolgo come mia provocazione a lui, perché la compia. Dio e la sua Parola deve servire a me, alla mia salvezza […] In fondo si serve Dio per servirsi di lui; lo si provoca nella sua promessa perché non ci si fida di lui. Il vero Dio viene trattato da idolo, il Dio vivente deve piegarsi ed essere soddisfazione obbediente dei miei bisogni umani» (Fausti, ibidem, 97).

Per il tentatore non ci sono spazi impenetrabili per la sua opera: deserti, altitudini, città, religione, luogo di culto e la stessa Parola di Dio. Tutti i luoghi sono battuti per tentare di far vacillare Gesù come Figlio e, anche questa prova, tenta di dividerlo dal Padre.

Dire Gerusalemme è far memoria dell’alleanza che Dio ha proposto al suo popolo; dire tempio è chiamare in causa la Shekinah, la stessa Presenza di Dio che abita il tempio, luogo della preghiera, luogo dei sacrifici. Tutti siti santi, dove l’interdizione al tentatore parrebbe scontata. Eppure, proprio in questo luogo “alto-santo”, baluardo della religione, inaccessibile ai più, proibito ai pagani, dove gli stessi sacerdoti osservano una serie minuziosa di regole, proprio qui il tentatore si destreggia da abile conoscitore del luogo e pone Gesù proprio all’apice della costruzione sacra, sul pinnacolo. La location è di rara eloquenza e segna il vertice delle tentazioni: non vi è luogo religioso, né status religioso, né privilegio religioso  che possono fare da scudo di difesa nella tentazione. Di più: per la posizione apicale in cui Luca pone questa tentazione, non è forzato dire che i luoghi sacri, lo status religioso e i privilegi connessi, possono divenire occasione di una terribile prova spirituale.

 

Parola per-vertita

La sollecitazione del tentatore nei riguardi di Gesù è esplicita: buttati giù! Ciò significa spingerlo a sfidare quello che è il segno più evidente della sua condizione di uomo, della finitezza umana: la morte. Di più. Se finora è stato Gesù ad aver chiamato in causa, senza sosta, la Parola del Padre per fermare il diavolo, ora invece, è proprio Satana a citare le Scritture per metterlo alla prova e contrapporlo al Padre proprio attraverso la sua stessa Parola. Nell’uso abusante e manipolatorio del Salmo 91, il tentatore dice a Gesù: se tu ti butti giù dal pinnacolo come Figlio di Dio, non morrai! Perché? Perché nel salmo c’è la promessa che le schiere angeliche bloccheranno la tua caduta, sostenendoti. Satana fa appello alla Parola per negare ciò che la Parola instaura, chiama in causa la Scrittura ma per spingere a una condotta che è il contrario di quello che, l’intera Scrittura indica come via di vita: amare e salvaguardare la propria condizione umana. L’appello al Salmo 91 fatto da Satana, è per spingere Gesù a lanciarsi dal pinnacolo e, contemporaneamente, a negare la possibilità della morte se… si butta giù come Figlio di Dio. Un evidente utilizzo, magico e spettacolare della protezione divina. Anche la Scrittura, abusata, per-vertita e manipolata, può divenire occasione di pesante tentazione. Questi versetti dicono che, finchè non si è stati tentati di fare un uso perverso della stessa parola di Dio, ancora non si è raggiunto il punto più alto e doloroso della tentazione.

Ma come il credente, invece di servire Dio, si serve di Dio? Il martire D. Bonhoeffer indica due modi opposti (Creazione e caduta. L’ora della tentazione, 130ss):

Con la sicurezza o presunzione religiosa: accetto la grazia di Dio e la sua promessa, dimenticando però la sua santità e la sua giustizia. Dio è buono! Quindi mi attribuisco il perdono già prima del peccato, e faccio della sua bontà il pretesto per la mia dissolutezza (Gd 4). Sono figlio di Dio; con Cristo in croce sono al sicuro, senza pericoli o lotte! Quindi posso fare tutto, anche ciò che porta alla perdizione! La libertà e la grazia sono paravento per il peccato; la sua santità e giustizia sono profanate. Da questa radice nasce la pigrizia nella preghiera, nell’obbedienza alla Parola e nel servizio dei fratelli. Perdo il timore di Dio. Praticamente lo disprezzo e lui finisce per non contare più nulla nella mia vita concreta. Mi indurisco contemporaneamente nel peccato e nella religiosità ipocrita. Il Dio benevolo è diventato l’idolo della mia falsa indulgenza con me stesso, senza santità. Così santifico e giustifico il mio peccato. L’orgoglio spirituale mi ha portato a sfidare Dio e vincerlo, usandolo come conferma del mio male!

Con la disperazione e la sfiducia nel salvarsi: rispetto la legge, la giustizia e la santità di Dio: perdo invece di vista la sua promessa e la sua grazia. Vivo senza gioia, perché Dio non è stato, non è e non sarà con me. E’ la tentazione della croce. Posso giungere alla disperazione, alla ribellione, alla bestemmia, al suicidio… oppure procurarmi il segno della sua bontà mediante una santità e una giustizia da me voluta a dispetto di Dio, con i caratteri dell’autodistruzione (ascesi e attivismo) o mediante pratiche religiose intese a darmi un segno che Dio è con me perché io sono con lui. Sine glossa.

 

Parola con-vertita

Gesù gli rispose: “E’ stato detto: Non tenterai il Signore Dio tuo” (v. 12). All’uso per-vertito della Parola di Dio inscenato dal tentatore, Gesù ancora la invoca, citando qui Deuteronomio 6,16: a “Massa e Meriba” che significa “tentazione e contestazione” è collocata una pesante ribellione di Israele nei riguardi di Dio che viene così “messo alla prova” proprio dal suo popolo. “Massa e Meriba – tentazione e contestazione” indicano il luogo del peccato sempre ripetuto dai credenti, quello del loro non dare credito a Dio, della loro incredulità ricorrente e dove, in tale corner, Satana vuole incastrare anche Gesù. Ma questa volta, e senza appello, Gesù ribatte al tentatore congedandolo: “Non tenterai il Signore Dio tuo!”. Gesù rifiuta così ogni messianismo spettacolare e magico, che cerca consenso attraverso l’eclatanza e provoca assensi indotti e non liberi. «Nello stesso tempo questa replica implica, in modo recondito, una sorta di surplus di significato. In effetti, secondo il racconto, chi è che sta subendo la tentazione? Gesù! La replica dichiara dunque indirettamente che questi è il Signore e Dio. E’ come se affermasse che Gesù, avendo pienamente assunto nel contempo la propria condizione filiale umana e la propria condizione filiale divina, può ormai ricevere il nome del Padre: Signore Dio. E’ chiaro che Luca riflette qui secondo la stessa logica dell’inno cristologico della Lettera ai Filippesi (cf Fil 2,6-11)» (Thévenot, ibidem, 29).

 

Sempre Figlio

 

Dopo esaurito ogni specie di tentazione, il diavolo si allontanò da lui per ritornare al tempo fissato (v. 13). 

Gesù, il Figlio, porta a compimento ed esaurisce in sé ogni tentazione che contrappone e chiude al Padre: le sostiene e le vince. In quella lotta il Figlio non ha fatto semplicemente una “scena esemplificativa”, ma ha veramente abitato gli abissi della tentazione e della prova, imparando così ad aderire alla realtà come il Padre vuole: “Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza dalle cose che patì” (Eb 5,8). Dopo questo crogiolo, Gesù sa come orientarsi nella missione ricevuta dal Padre e come condurre la sua vocazione: sa di essere Figlio, sa essere Figlio. Questa però non è per Gesù una vittoria definitiva: il divisore tornerà a tentarlo, cercando sempre di cor-rompere il suo cuore di Figlio, in modo che neghi la volontà del Padre. Ma il Figlio resterà Figlio, sempre, anche nel buio dell’abbandono e della morte. La conclusione del testo è molto realistica: non ci permette di credere che Gesù abbia respinto una volta per tutte le tentazioni e che dal quel momento il “Figlio prediletto” non abbia più conosciuto le lotte contro il desiderio di rifiutare la condizione filiale. Il diavolo si allontana, ma solo “fino a tempo fissato”. Gesù conoscerà in realtà nuove occasioni, veramente terribili, in cui far fronte al male, come quella descritta alla fine della sua vita pubblica sul monte degli Ulivi, poco prima dell’arresto (cf Lc 22,39-46). Ma anche lì, nella preghiera davanti al Padre, il Figlio troverà la composizione dei due desideri contrapposti che lo stanno lacerando interiormente: da una parte il non voler morire, dall’altra il restare obbediente al Padre, cioè rimanere Figlio: “Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà” (Lc 22,42).

Gesù ha dovuto affrontare la tentazione in tutte le sue forme: cattivo uso dei privilegi religiosi, rifiuto dell’ordine simbolico instaurato dall’alleanza, rigetto delle mediazioni, desiderio di onnipotenza, negazione della temporalità e della morte, ricorso perverso alla Scrittura, desiderio fallace di prodigi religiosi, ascesi eccessiva. Ma, in mezzo a tutti questi attacchi che lo spingevano ad agire da Figlio, Gesù ha continuato a vivere pienamente la propria condizione di figlio prediletto di Dio. Per questo Egli ci appare così profondamente umano, di un’umanità che certamente gli sarà sembrata talora dura da assumere, a motivo della finitezza che essa impone, ma di un’umanità di cui Luca è riuscito a far percepire tutta l’autenticità. Quanta umanità e quanta divinità in questo racconto! Per questo il cristiano trae tanto profitto dal meditarlo instancabilmente. Egli, infatti, vi può trovare un volto di Gesù che, ripieno di Spirito santo, conosce fin dall’intimo le difficoltà che ciascuno di noi sperimenta quando si tratta di assumere, nella fedeltà alla parola del Padre, la condizione filiale divina, la finitezza umana e l’ordine simbolico dell’alleanza.

Perché la parola di Dio diventi vita

Questo testo ci è donato da Dio perché, lungo tutta la Quaresima verso la Pasqua, bonifichi il nostro cuore, irrobustisca la nostra fede, apra alla speranza e ci riconsegni a Dio e ai fratelli, capaci di amare con lo stesso cuore di Gesù.

Indico alcuni passi per la preghiera personale e comunitaria:

–  Invoco lo Spirito

–  Mi raccolgo immaginando Gesù nel deserto

– Chiedo ciò che voglio: comprendere quali siano i mezzi che Gesù ha preferito per mostrare che lui è Figlio di Dio e quali ha scartato come tentazioni.

– Punti su cui riflettere:

  • nel deserto quaranta giorni
  • tentato dal diavolo
  • ebbe fame
  • se sei Figlio di Dio
  • non di solo pane
  • a lui solo renderai culto
  • non tenterai il Signore
  • ogni specie di tentazione

Nel messaggio per la Quaresima 2019, papa Francesco ci ricorda che «Quando viene abbandonata la legge di Dio, la legge dell’amore, finisce per affermarsi la legge del più forte sul più debole. Il peccato che abita nel cuore dell’uomo (cf Mc 7,20-23) – e si manifesta come avidità, brama per uno smodato benessere, disinteresse per il bene degli altri e spesso anche per il proprio – porta allo sfruttamento del creato, persone e ambiente, secondo quella cupidigia insaziabile che ritiene ogni desiderio un diritto e che prima o poi finirà per distruggere anche chi ne è dominato». E ci aiuta a far memoria di quel tripode che tiene in piedi, non solo la vivacità e la bellezza della Quaresima, ma dell’intera vita cristiana: «Digiunare, cioè imparare a cambiare il nostro atteggiamento verso gli altri e le creature: dalla tentazione di “divorare” tutto per saziare la nostra ingordigia, alla capacità di soffrire per amore, che può colmare il vuoto del nostro cuore. Pregare per saper rinunciare all’idolatria e all’autosufficienza del nostro io, e dichiararci bisognosi del Signore e della sua misericordia. Fare elemosina per uscire dalla stoltezza di vivere e accumulare tutto per noi stessi, nell’illusione di assicurarci un futuro che non ci appartiene. E così ritrovare la gioia del progetto che Dio ha messo nella creazione e nel nostro cuore, quello di amare Lui, i nostri fratelli e il mondo intero, e trovare in questo amore la vera felicità».

Ognuno di noi sente l’impellenza di uscire dalla stoltezza di vivere e accumulare per noi stessi e ritrovare gioia. Nell’amore condiviso e nei pesi “portati vicendevolmente” possiamo, tutti, fare l’esperienza del cuore colmo della presenza dell’amore gratuito di Dio e della fraternità.

La prossima quinta domenica di Quaresima, 7 aprile, la nostra Chiesa celebra la Giornata per il Fondo Episcopale di Solidarietà. Tutte le offerte raccolte durante ogni celebrazione eucaristica in ciascuna Parrocchia e in ciascuna Chiesa destinata al culto divino, confluiranno in detto Fondo. Per tenere vigile la memoria e perché il maggior numero possibile di fedeli possa rispondere generosamente a questo appello, ogni comunità riceverà delle buste appositamente preparate in cui si potrà mettere ciò che il Signore ispirerà.

Domando ad ogni parroco e ad ogni presbitero di accompagnare le comunità lungo tutto il cammino quaresimale, a iniziare dal mercoledì delle ceneri fino alla quinta domenica di Quaresima, a crescere nella consapevolezza di poter e dover diventare fratelli, condividendo con chi pena dolentemente la vita.

Entro quindici giorni ogni presbitero depositerà le offerte raccolte in tale giornata presso l’Economato diocesano. Come ogni anno verrà reso noto, tramite il giornale diocesano Dialogo, quanto la carità avrà saputo smuovere la nostra generosità.

Ringraziamo insieme il Signore per ciò che attraverso il Fondo, è giunto in aiuto a tanti in questo ultimo anno: 88 sono state le situazioni dolenti che hanno ricevuto beneficio, grazie al lavoro dell’apposita Commissione da me istituita. L’importo totale erogato è di 66.407 euro. In questi sei anni di vita del FES sono stati erogati 526.991,17 euro, giungendo così in aiuto a 679 domande. Nel bimestre gennaio/febbraio del presente anno, già 12 sono gli interventi effettuati. Il mio grazie a tutti coloro che hanno aperto il cuore, che non han trovato scuse per disimpegnarsi e non han fatto i conti nelle tasche di nessuno. A tutti e a ciascuno la mia e la riconoscenza dell’intera nostra Chiesa e di coloro che son stati fatti, gratuitamente, segno di attenzione.

 

✠ Mauro Maria