Costruiamo l’arca
Vieni, Gesù, nelle fasce, non con la forza,
nell’umiltà, non nella grandezza;
nella mangiatoia, non sulle nubi del cielo;
fra le braccia di tua madre, non sul trono della maestà;
sull’asina, non sui cherubini;
verso di noi, non contro di noi;
per salvare, non per giudicare;
per visitare nella pace, non per condannare con furore.
Se vieni così, Gesù,
invece di sfuggirti,
noi fuggiremo incontro a te!
(Pietro di Celle, Sermoni sulla venuta del Signore, I – PL 202,639-640)
Non facciamo fatica a riportare alla memoria l’entrata di Gesù a Gerusalemme: non su uno scalpitante purosangue né, tantomeno, su una coppia di temibili cherubini (!) ma, proprio come il profeta Zaccaria aveva annunciato (cf Zc 9,9), sul dorso di un’asina. Tutto ciò per “visitarci nella pace e non per condannare con furore”, così come il monaco e vescovo Pietro di Celle, oltre mille anni fa, ri-consegnava ai suoi contemporanei. Vieni a visitarci nella pace, Signore! È il nostro desiderio più pungente, è il desiderio della Chiesa, è il desiderio di ogni cuore deprivato di rispetto, di cura, di vita, di amore.
Costruire l’arca per veleggiare verso il Natale
L’intenso e fecondo periodo di Avvento è stato essenzialmente il tempo del desiderio che si è fatto ardente attesa e vigilante preghiera. Giorno dopo giorno, la sapiente pedagogia della liturgia ha scavato nel cuore uno spazio di accoglienza, santuario personale dove ac-con-sentire agli inesausti passaggi dello Spirito nelle nostre inquiete (e non raramente belligeranti) esistenze che, come soffio di inattesa Novità, è stato capace di consegnarci fragranze inedite e spalancare orizzonti inattesi.
Proprio all’inizio dell’Avvento, ci siamo lasciati svegliare dalla parola dell’Apostolo: “Consapevoli del momento, è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché adesso la nostra salvezza è più vicina di quando diventammo credenti” (Rm 13,11). Ci siamo impegnati a vivere questo forte tempo liturgico-esistenziale, come scuola di presenza a noi stessi e alla storia di questo nostro presente, perché l’adesso sia già gravido di domani. Abbiamo voluto cogliere la “sveglia” paolina come invito pressante, da non procrastinare, da non disattendere, da non sottovalutare, proprio per orientare il discernimento e per imprimere una direzione a quel desiderio di “salvezza” che palpita in ogni cuore umano e che, talvolta, è strangolato da quella ressa di desideri che rischia di snaturarlo, fino a renderlo irriconoscibile.
Di più, nella medesima liturgia della Parola della prima domenica di Avvento, lo stesso Signore Gesù ci ha consegnato un volto e un’immagine indelebile nel cuore di ogni frequentatore della Parola, ovvero Noè e la sua arca (Mt 24,37-41):
Come fu ai giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e marito, fino a quando Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e inghiottì tutti, così sarà anche alla venuta del Figlio dell’uomo. Allora due uomini saranno nel campo: uno sarà preso e l’altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una sarà presa e l’altra lasciata.
Ma perché il Signore Gesù chiama in causa, come esempio per “restare vigili” e non essere repentinamente “rapiti”, proprio quel frammento – quasi “archeologico” – della storia della salvezza? Cosa c’è da apprendere da quest’uomo e dal suo manufatto, all’inizio dell’anno liturgico che, con l’Avvento, ci prepara al suo Natale? Cosa ha a che fare Noè e la sua imbarcazione con quella fiamma incandescente che è il desiderio di salvezza?
Mentre tutti “mangiavano e bevevano” (Mt 24,38), Noè si mette a costruire l’arca. Mentre tutti sono totalmente assorbiti dalla scontata quotidianità e non si accorgono che la vita sta frantumandosi tra le loro stesse mani e tutt’intorno, Noè prepara l’arca. Mentre tutti sono affaccendati nell’indiscusso e prevedibilissimo tran-tran della vita, Noè intravede, scorge, intuisce e agisce. Certo, anche Noè mangia e beve ma… è sveglio, vale a dire non consegnato, a corpo morto, alla routine giornaliera,diventando così consapevole di ciò che sta avvenendo in se stesso e intorno a lui. Perciò, oltre a mangiare, bere, dormire e lavorare e… vivere, si dà da fare per varare l’arca. Riesce a non barattare ciò che è transitorio per ciò che è eterno, sfuggendo alla trappola di un irreggimentarsi in stili e regole, tanto consuetudinarie, da essere scambiate per definitive, risolutorie e salvifiche. Non è poco.
“Gli uomini continuano a mangiare, bere, sposarsi e maritarsi senza alcuna presa di contatto con una realtà più profonda, segnalata dalla presenza dell’arca costruita da Noè. Non si sottolinea il peccato di questa generazione né il fatto che si sia potuta meritare una catastrofe simile, ma solo che non ne era consapevole, perché è rimasta agganciata a ciò che passa e non ha saputo cogliere la struttura più profonda della realtà, caratterizzata da una precarietà di carattere sociale e cosmico. La venuta del Figlio dell’uomo assume una caratteristica di sconvolgimento delle routine ordinarie del mondo, simile al diluvio, perché ne rende evidente il carattere contingente. La generazione attuale può però, a differenza di quella del diluvio, grazie alla parola di Gesù, rendersi più consapevole di questa transitorietà della storia e quindi prepararsi ad accogliere, pur senza sapere il momento esatto del piano di Dio, colui che della storia è il Signore, il Figlio dell’uomo” (D. Arcangeli).
Proprio con questo sentire ci siamo impegnati a vivere l’Avvento: consapevoli di ciò che si muove dentro di noi e intorno a noi, ognuno si è dato da fare per preparare, in tal modo, quell’arca in cui mettere al riparo la vita, salvarla, assicurandole un futuro di speranza.
Costruendo e poi ammirando i tanti presepi allestiti nelle nostre case e nelle nostre chiese, non sarà davvero una distrazione da scacciare quando, sistemando la mangiatoia/culla/giaciglio ove porre l’immagine del Bambino, intravediamo una minuscola arca dove poter mettere al sicuro una immensa speranza di salvezza!
Certo, come Maria, abbiamo avuto tutto il diritto e l’ardire di porre domande all’Inviato, non per calcolare, ma per acconsentire. Desiderio e consenso, dunque, sono realmente il binario per la direttrice di marcia di questo Avvento che partorisce questo Natale. Per noi credenti, è stato un tempo ricco dell’opportunità di chiamare per nome ciò su cui davvero poggia la propria vita e quanto gli aneliti più intimi e intensi, davvero stiano dando vita alla vita. “Laddove siamo continuamente sollecitati e quasi bombardati da continui messaggi che fanno appello ai nostri desideri e al nostro anelito di felicità, l’Avvento ci chiede una presa di distanza per poter discernere meglio la nostra speranza. Questo sforzo è per comprendere come nessuno possa colmare il nostro desiderio, se non aiutandoci a ritrovare la strada del nostro cuore che è l’unica Betlemme in cui possiamo accogliere il Dio fatto uomo” (M-D. Semeraro).
Ora l’Avvento ci consegna alla gioiosa solennità del Natale del Signore che ci ridona di scorgere nella pace offertaci dal “Principe della pace” (Is 9,6), il dono dei doni, il dono senza il quale, ogni altro dono ammutolisce in una dolorosa inespressività, catturato da un’inarrestabile dissolvenza e dolorosamente prosciugato di senso:
“Poiché un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il segno della sovranità ed è chiamato ‘Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace; grande sarà il suo dominio e la pace non avrà fine sul trono di Davide e sul regno, che egli viene a consolidare e rafforzare con il diritto e la giustizia, ora e sempre; questo farà lo zelo del Signore” (Is 9,5-6).
Festa infestata
Non possiamo negarlo: lo sfavillio delle luminarie, i fiocchi decorativi, i pacchi multicolori e l’intero armamentario coreografico natalizio che tutto invade e su tutti è fascinoso, rischia di distrarre – fino, talvolta, a narcotizzare – da ciò che è il Natale del Signore. Non raramente, dicendo “Natale” si scivola, quasi automaticamente, in un fraintendimento colossale e di proporzioni difficili da comprendere e da sanare: l’impazzimento generale in ogni tipo di compra-vendita, il dilagare di traffici di ogni tipo, l’ostentazione di ricchezza e il colossale sciupìo di beni e il tutto a fronte di quell’immane dolore umano urlato da ogni tipo di povertà, di guerra, di oppressione e di morte.
La brillante e graffiantissima penna – non certo intinta in inchiostro cristiano-cattolico! – di Curzio Malaparte, pseudonimo del tanto controverso, istrionico e, credo, realmente indefinibile, Curt Erich Suckert, pochi giorni prima del Natale 1954, così scrisse:
“Tra pochi giorni è Natale e già gli uomini si preparano alla suprema ipocrisia. Perché nessuno di noi ha il coraggio di dire che il secolo, il mondo non è mai stato così poco cristiano come in questi anni. La ragione è semplice: nessuno di noi osa riconoscere che la magniloquenza degli uomini politici, la grande parata dei sentimenti evangelici, le processioni interminabili dei falsi devoti servono soltanto a nascondere questa terribile verità: gli uomini non sono più cristiani. Cristo è morto nell’anima dei suoi figli. L’ipocrisia è discesa dalla politica fino alla vita sociale, familiare e individuale. Siamo pieni di orgoglio e di vanità; non ci importa niente di chi soffre. E poi, tranquillamente, celebriamo il Natale. […] Io vorrei che il giorno di Natale il panettone diventasse carne rovente sotto il nostro coltello e il vino diventasse sangue e avessimo tutti per un istante l’orrore del mondo in bocca, questo mondo che stiamo devastando noi. Vorrei che il giorno di Natale i nostri bambini ci apparissero all’improvviso come saranno domani, fra alcuni anni, se non oseremo ribellarci a questa diseducazione generale che stiamo dando ai giovani. Io vorrei che la notte di Natale, in tutte le chiese del mondo, un povero prete si levasse in piedi e gridasse: ‘Via da questa culla, falsi, bugiardi, a piangere sulle vostre culle dei vostri bambini che non volete e che non sapete educare’. Se il mondo soffre è anche per colpa vostra che non osate difendere la giustizia e la bontà e avete paura di essere cristiani fino in fondo! E io che non lo sono non me ne sono accorto. Io vorrei che quel prete avesse la forza di dire: ‘Via da questa culla, ipocriti! Questo bambino che è nato per salvare il mondo ha orrore di voi, perché non volete essere salvati’”.
Pur tenendo conto del genere letterario assai peculiare che Malaparte ha sempre impersonato (fin in punto di morte, quando ricevette i sacramenti dell’iniziazione cristiana), le sue parole scuotono, interrogano, rendono pensosi.
Un’altra voce, questa volta di Carlo Maria Martini – la cui penna è stata intinta, possiamo dirlo, nel fecondo e multiforme calamaio delle sante Scritture –, così rispondeva ad una lettera che sollevava molti interrogativi, da parte del mittente, sulla festa del Natale:
“Oggi il Natale ha quasi perduto il suo senso originario. Lo ‘celebrano’ anche uomini di altre religioni. Perfino parecchi non credenti vivono in questo giorno una qualche forma di liturgia profana. Non v’è alcuno che rifiuti per Natale qualche dono o almeno una buona cena. Per questo non parlo volentieri del Natale. Da quando ho conosciuto un po’ meglio la Sacra Scrittura, è la Pasqua che mi attrae e mi pone dinnanzi a un preciso programma di vita. Benché il Natale sia una splendida manifestazione della gloria di Dio in Cristo e del suo amore per noi, i discorsi che si fanno a partire dal Natale sanno spesso di buonismo e di speranza a buon mercato. Essi sono un segno di poca lealtà con sé stessi e con gli altri. Infatti, diciamo delle cose che non sono vere e a cui nessuno crede. Ci auguriamo a vicenda lunga vita, felicità, successo, ci facciamo doni che vogliono dire l’affetto che ci portiamo, ma per lo più sappiamo che non è così. Il Natale fa emergere le storture della politica, la gravissima crisi economica che stiamo attraversando, le violenze quotidiane fisiche e psicologiche. E si potrebbero aggiungere tante altre cose ancora. Molti uomini e donne attendono in questo giorno qualcosa, un evento o magari una persona che li tiri su, che restituisca loro l’ottimismo ingenuo che hanno irrevocabilmente perduto; qualcosa di nuovo e di grande, che potrebbe farli tornare indietro. Ma questa speranza è fallace, perché si basa solo sulle nostre forze e dimentica lo Spirito di Dio, il solo capace di aiutarci in maniera efficace. Dopo i giorni delle feste tutto ritorna più o meno come prima.
È come un dirsi reciprocamente ‘ce la faremo’, pur sapendo tutti che non è vero. Per vivere bene il Natale e ricavarne quel conforto che è giusto attendersi da questa festa, è necessario sforzarsi di capire ciò che viene detto nei Vangeli. In essi, soprattutto nel Vangelo secondo Luca, emerge un progetto di uomo che vive il dono di Dio nella meraviglia, nella gratitudine e nel distacco. Questo uomo nuovo può essere o un semplice come i pastori o uno studioso come i Magi. Tutti sono chiamati a partecipare all’esperienza dei pastori a cui fu detto: ‘Vi annunzio una grande gioia’ (Lc 2,10). Chi partecipa di questa gioia, si difenderà da quel pericolo che è il Natale del consumismo, che ci impone di non sfigurare davanti ad amici e parenti con costosi regali. Pur avendo la coscienza che molte famiglie fanno fatica a far quadrare il bilancio del mese, si continua a spendere denaro pubblico e privato nella maniera più folle.
Si tratta di una gioia semplice, intima, che può convivere anche con momenti di sofferenza e di strazio. Il bambino Gesù è l’immagine di questa fiducia e abbandono alla Provvidenza. Qui va ricordata la parola di Gesù: ‘chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso’ (Mc 10,15). Se noi riusciamo ad affidarci alla Provvidenza di Dio, accettiamo ogni cosa con fiducia, perché fa parte del disegno del Padre”.
La festa del Natale è accessibile solo attraverso la fede: quella di Maria nell’Annunciazione, di quando custodiva e meditava nel suo cuore il ricordo degli avvenimenti; quella dei pastori, che accorrono colmi di stupore per vedere ciò che è accaduto ed è stato loro rivelato; la fede di Giuseppe, giusto che fa la cosa giusta, fidandosi della spiegazione ricevuta; la fede dei Magi, che preferiscono dare credito alle brillanti stelle del cielo piuttosto che a quella opaca e sinistra stella che sedeva sul trono a Gerusalemme, Erode il Grande.
Chi non accoglie nella fede la nascita del Figlio di Dio, della sua Parola-per-me, che fissa un inizio inedito della storia umana, dando vita ad un prodigioso evento creativo, perché nasce una nuova umanità intrisa della misteriosa Presenza divina, non può far festa. Non riesce a far festa. Non ha alcun motivo di fare vera festa. Non esiste forzatura più forzata di questa: far festa senza motivo, far festa senza festeggiato. Con Gesù sloggiato, la festa stessa diventa insulsa perché non si sa più chi sia il festeggiato.
Chiunque non abbia fede o non abbia accolto la testimonianza dei Vangeli, tramandata dopo l’incontro con il Risorto, può solo sorridere di questi eventi, o leggerli come l’infantile favola di Gesù Bambino (favola, preferibilmente, da non raccontarsi neppure ai piccini). Se il Natale non attinge più il suo significato dall’autentico annuncio evangelico non può più essere motivo per quella festa.
Molti, tra noi “cristiani”, non avendo, come Maria, “meditato dentro di sé” i fatti accaduti alla luce della Parola annunciata da Gesù e confermata dalla sua morte e risurrezione, non riescono a vivere il Natale come festa, come nuova Presenza di Dio nelle proprie vicende di vita, Presenza capace di dare una spinta decisiva e positiva al peregrinare nei sentieri del tempo.
Che festa può esserci quando non riesce più a sfiorarci lo sconcerto per l’interscambio pacifico (!) tra gli “attesi”: che sia Babbo Natale con la quadriga delle sue renne o la Parola unica e ultima del Padre per un’umanità sfinita che attende altro dai pacchetti chic, cosa cambia?
Che festa può esserci quando i simboli della festa sono totalmente slegati da Colui che i simboli simboleggiano, richiamano, indicano, invocano?
Che festa può esserci quando ciò che tanto ci avvolge è solo un ingenuo pietismo dove il nostro animo si increspa per le tradizionali, struggenti nenie, evocative dei bei tempi che furono e di un buonismo che, proprio cronologicamente, dura da Natale a Santo Stefano?
Che festa può esserci quando, scambiandoci gli auguri di “buon Natale”, alludiamo in realtà a vacanze fuoriporta, a banchetti spaccafegato, a tours esotici… È vero, i “ponti” si moltiplicano e prolungano la sospensione dal lavoro: più ferie ma più festa?
Che festa può esserci quando l’orizzonte della vita è il proprio ombelico, i propri pallini, le proprie pretese e la trama dei giorni si accartoccia su sé stessa in un esasperante, tragico autoavvitamento neppure per caso scalfito dall’ad-ventus del Signore nel suo Natale?
Che festa può esserci quando l’incarnazione del Verbo non attiva la stupita consapevolezza della nostra divinizzazione? La contemplazione del mistero dell’Incarnazione, nella liturgia e nei nostri presepi, non può non essere quel kairòs, quel tempo favorevole, per aprire meglio gli occhi del cuore sulla nostra personale “somiglianza” con Dio, in Cristo.
Una festa così infestata, che buona festa potrà essere?
Pace per tutti, tutti, tutti
“Essi [i pastori] furono presi da grande timore, ma l’angelo disse loro: ‘Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia. E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste che lodava Dio e diceva: ‘Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama’” (Lc 2,9-14).
Come spesso accade, l’annuncio è accompagnato da un segno che, in questo caso, combacia precisamente con l’oggetto dell’annuncio: il bambino in fasce è, insieme, l’annunciato e il segno stesso dell’annuncio! “La corrispondenza accentua l’elemento di straordinarietà: la magnificenza del ‘Salvatore che è Cristo Signore’ è significata in ‘un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia’. Il riconoscimento di ciò che è stato appena annunciato non è consegnato a manifestazioni maestose, ma è affidato alla piccolezza” (I. Pagani).
Fasce gloriose. “La madre diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce, lo depose in una mangiatoia perché non c’era posto per loro nell’albergo” (Lc 2,7). Le fasce. Un segno dato anche ai pastori: “Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce che giace in una mangiatoia” (Lc 2,12). Le fasce: un’indicazione che va al di là dell’apparenza esterna. Le fasce: segno di una condizione fragile, debole, avviata alla morte. Le fasce: segno non di un fac-simile di Incarnazione, ma di una presa di carne verace del Verbo.
Se da una parte vi è la gloria del Signore che “avvolge” i pastori e li investe di luce intensa (2,9), dall’altra, il Bambino è “avvolto” in fasce. L’evangelista Luca rende eclatante il contrasto: la “gloria del Signore” indica sempre la glorificazione pasquale che il Padre conferisce a Gesù (Lc 9,26.31.32). Egli intende dire che il bambino di Betlemme è tutto divino: è il “Salvatore-Cristo-Signore” (Lc 2,11), tre titoli che la catechesi lucana degli Atti degli Apostoli attribuisce al Risorto. Ma di questa natura gloriosa del Bambino, all’esterno, non traspare nulla! Ora che egli è nato per noi, per tutto il popolo (Lc 2,10.11), condivide realmente, in tutto e senza finzione, la condizione di vita umana. Attorno a lui, non brilla alcun alone di “gloria e di splendore”. Come figlio dell’uomo, è ricoperto di fasce e, come qualsiasi altro neonato, è fragile, inerme, indifeso. Deve essere accudito e curato.
In verità, il “Figlio dell’Altissimo” (Lc 1,32) è diventato “figlio di Maria” (Mc 6,3) e “figlio del falegname” (Mt 13,55). “Il Verbo [che] era presso Dio” (Gv 1,1) è additato come “l’uomo che si chiama Gesù” (Gv 9,11). Lo scenario del suo trentennio iniziale è un’anonima carpenteria (Lc 2,39-52). Quando inizia a muoversi per le strade assolate della Palestina, è circondato da un gruppo di persone piuttosto… feriali (Lc 6,12-16). Gesù prova fame, sete e sonno (Mt 4,2; Gv 4,8; Mc 4,38); sente la stanchezza del viaggio (Gv 4,6) e l’amarezza dell’ingratitudine (Lc 17,17-18). Ha compassione della vedova alla quale era morto l’unico figlio (Lc 7,13) e piange la morte dell’amico (Gv 11,35.38). Verso i samaritani che gli rifiutano ospitalità, non sbraita né maledice, né fa scendere dal cielo il fuoco, come invece sollecitano i suoi amici, Giacomo e Giovanni (Lc 9,51-56); gli scalda il cuore il calore dell’accoglienza in casa di Marta, Maria e Lazzaro (Lc 10,38-40). Al Getzemani, cerca conforto dai suoi amici, anche se non lo troverà (Mc 14,34.37). Non scende dalla croce (Mt 27,39-44). Muore come ultimo dei disgraziati. In verità, il “Sole di giustizia” (Ml 3,20) non acceca nessuno, così che tutti fossero costretti a seguirlo ma, al contrario, è vestito di carne perché ogni carne possa accoglierlo. La “gloria di Dio”, che spetta all’Unigenito del Padre (Gv 1,14), e sopravvestita da vera carne, povera e angustiata carne. La nostra.
Fasce amorose. Maria ne riveste il suo piccolo: queste fasce raccontano delle cure materne che, assieme a Giuseppe, presta a Gesù, perché possa crescere amato e curato e così diventare grande. Ma, ad un certo punto, Luca sembra… impappinarsi e dimenticare ciò che ha appena scritto. Al v. 12, l’angelo indica ai pastori il segno: “Troverete un bambino, avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia”. Subito dopo, invece, al v. 16, quando i pastori vanno lì dove l’angelo ha loro indicato, il segno pare svanito. L’evangelista scrive che essi “trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, che giaceva nella mangiatoia”. Luca sembra proprio essersi confuso… Nel v. 12 il segno dato ai pastori è: bambino / fasce / mangiatoia; al v. 16, invece, i pastori trovano Maria-Giuseppe / Bambino / mangiatoia. Ognuno si accorge che, dei tre elementi indicati dall’angelo al v. 12 ai pastori – bambino / fasce / mangiatoia – soltanto due appaiono nel v. 16: bambino / mangiatoia. E le fasce? Sparite! Luca, al loro posto, come segno, pone Maria / Giuseppe. Perché?
Chi ha un po’ di familiarità con la Bibbia, sa che un neonato avvolto in fasce fin dalla nascita, è figlio amato, curato, custodito senza risparmio, da chi lo ama. Questo neonato non è un abbandonato, non è NN, non è un incomodo (cf Sap 7,4; Gb 38,8-9 ed Ez 16,4). Se sul frutto del grembo, abbandonato in aperta campagna nel giorno della sua nascita in Egitto, si chinò amorevolmente Dio stesso (Ez 16,4-6), sul primogenito Figlio Gesù, vegliano con cura amorosa Maria e Giuseppe (Lc 2,7.16). Le fasce sparite del v. 16, non sono uno svarione dell’evangelista. Le fasce sono sostituite dal ministero amoroso di Maria / Giuseppe che “avvolge” Gesù, lo “circondavano” di cure. Quel ministero di cura amorosa che lì e a Nazaret permette a Gesù di crescere “in sapienza, età e grazia, davanti a Dio e agli uomini” (Lc 2,52).
Fasce mortali. La Chiesa ha sempre intravisto nella mangiatoia (Lc 2,7), la silenziosa profezia della tomba nuova “scavata nella roccia” (Lc 23,50-53). Il misterioso raccordo tra fasce / mangiatoia degli inizi e bende / sepolcro dell’epilogo, hanno accompagnato la comunità cristiana in ogni tempo. Romano il Melode, poeta, innografo e santo, mette sulla bocca delle mirofore che portano al sepolcro gli unguenti profumati, queste parole: “Presto, andiamo come già fecero i Magi, adoriamolo e a lui, avvolto non più nelle fasce ma nella sindone, portiamo in dono i profumi”.
Le fasce. Segnalazione discreta della tomba che, all’orizzonte, reclama il suo posto. Se Maria “diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia” (Lc 2,7), Giuseppe di Arimatea cala il corpo di Gesù dalla croce, “lo avvolse in un lenzuolo e lo depose in una tomba” (Lc 23,53).Le fasce tirate fuori gioiosamente da Maria e le “bende funebri” portate dolentemente al Golgota da Giuseppe di Arimatea; la mangiatoia e la tomba paiono conclamarsi, esigersi, spiegarsi l’un l’altra. Il Messia di Dio, una volta vestita seriamente la carne, assume – e non apparentemente – anche la morte. Quella terribile morte. Venendo “fra i suoi” (Gv 1,11), viene nel nostro mondo anche per morire: “Ora l’anima mia è turbata; e che devo dire? Padre, salvami da quest’ora? Ma per questo sono giunto a quest’ora!” (Gv 12,27).
“Il ‘segno’ di Betlemme era questo: una mangiatoia, nella quale giace un Bimbo stretto in fasce (Lc 2,7.12). Il ‘segno’ della Pasqua, invece, diverge notevolmente: una tomba vuota, nella quale giacciono soltanto le bende (Lc 24,12; cf Gv 20,5-7), e non più il corpo di Gesù, come al momento della sepoltura (Lc 23,53). Il che vuol dire che Gesù, risorgendo, non ha deposto la nostra umanità; di essa ha abbandonato unicamente l’aspetto debole, limitato e mortale, significato dalle bende in cui era avvolto. Le fasce funerarie rimangono nella tomba, mentre Gesù risorge con la sua umanità invasa e permeata dai fulgori della gloria di Dio: la sua veste, ormai, è lo Spirito Santo! Egli, nuovo Adamo, torna a danzare nell’Eden, nella beata nudità della gloria, così come il primo Adamo, avanti la colpa, era nudo, poiché l’amicizia con Dio era il suo manto” (Aristide Serra).
Mangiatoia. O della mensa imbandita. Maria “depose” il Bambino “nella mangiatoia” (Lc 2,7). In greco, è usato il verbo anéclinen che indica il porsi a tavola, l’accomodarsi, insieme al gesto compiuto dal padrone di casa che mette a proprio agio gli ospiti e li invita a prendere comodamente posto. Anéclinen è il gesto di chi imbandisce la tavola, di chi prepara l’ambiente, di chi porge la mano e dà il benvenuto: “Accòmodati!”. È l’esplicito segno di dichiarare all’ospite il gradimento e la gioia della sua presenza, mettendolo a proprio agio. È farlo sentire di casa.
Maria anéclinen il figlio in una mangiatoia: per Luca non si tratta semplicemente di aver trovato un indispensabile sostitutivo alla culla per Gesù, visto che si trovano in una situazione molto avara di comodità. La mangiatoia (phàtne) evoca la tavola imbandita, il pasto; è allusiva alla mensa che il neonato, cresciuto, imbandirà per i suoi, facendosi lui stesso mangiabile. C’è un rimando, neppure troppo velato, al Pane della vita, quel pane che si rende disponibile ad ogni umano che deve potersi nutrire per continuare il cammino. È il Panis viatorum. Il Pane dei pellegrini. È cifra dell’Eucarestia. Luca, in Maria che anéclinen il bimbo nella mangiatoia, già vede l’inizio della festa, già annuncia che il bambino sarà corpo spezzato e sangue versato per la vita del mondo. Gesù, “deposto nella mangiatoia”, è già tavola imbandita e cibo sostanziale per quei tutti per i quali deporrà sé stesso in dono.
“Fu posto in una mangiatoia per indicare che veniva espressamente per essere cibo offerto a tutti, senza eccezione. Il Verbo, Figlio di Dio, scegliendo la povertà e giacendo in una mangiatoia, trae a sé ricchi e poveri, colti e incolti. Per mezzo dell’umanità assunta, il Verbo di Dio si mostra in una mangiatoia perché a tutti gli esseri ragionevoli e irragionevoli fosse aperta la possibilità di partecipare al cibo della salvezza” (Teodoto di Ancira, Discorso nel giorno della Natività del Salvatore).
Questo bambino-Salvatore in fasce è, dunque, l’incarnazione dell’ac-con-discendenza del Padre, che mai si arrende davanti a nessuna chiusura e nessun rifiuto ed è capace di creare, senza sosta, nuovi modi e nuovi percorsi, per farsi compagno dei nostri (rocamboleschi) cammini umani. Il primo passo verso di noi è sempre il suo, attendendo, sine modo che, a nostra volta, diventiamo capaci di affettuosa ac-con-discendenza verso chi ci pone a fianco.
La moltitudine angelica – che traduce la visione biblica del mistero eccedente di Dio e della sua vita – riprende il tema della gioia preannunciata dall’angelo nella precedente apparizione, saldandolo inequivocabilmente con il tema della pace. Non solo: il binomio gloria e pace viene ugualmente ancorato al binomio cielo-terra: la gloria ‘tipica’ dei cieli, sulla terra si manifesta, prende il volto e si attiva come pace. E l’orizzonte è universale, “l’espressione finale del canto degli angeli, non è da intendere in senso esclusivo (solo ‘agli uomini che egli ama’ e gli altri no), ma come un’apertura totale della pace: è offerta a qualsiasi persona sulla terra che riconosce e accoglie l’amore rivelato di Dio” (I. Pagani).
“Dio è un bacio”
Così confessava la sua fede cristiana il monaco camaldolese Benedetto Calati: Dio è un bacio. Il bacio dice la tenerezza e l’incarnazione del Verbo, è la tenerezza di Dio detta in Gesù. Se “In principio era il Verbo e il Verbo era Dio. E il Verbo si è fatto carne” (Gv 1,1.14), allora nell’in-principio era la tenerezza, la tenerezza di Dio. Meglio: Dio è tenerezza.
“E la tenerezza di Dio si fece carne. In Gesù e in noi. […] Il grande miracolo è che Dio ora ha smesso di plasmare l’uomo come fece con Adamo con la polvere della terra, ma si fa lui stesso polvere e argilla della nostra terra. E Adamo sarà diverso. E allora io so, noi crediamo che c’è un frammento di Verbo, una particella di Tenerezza in ogni carne, qualcosa di Dio in ogni uomo, c’è santità e luce in ogni vita. La nostra umanità è un fiume che porta tutto, fango e pagliuzze d’oro. Dev’essere splendida la vita se Dio accetta di diventare uno di noi!
Dio nella piccolezza: è questa la forza dirompente del Natale: ‘tutti vogliono crescere nel mondo, ogni bambino vuole essere uomo. Ogni uomo vuole essere re. Ogni re vuole essere dio. Solo Dio vuole essere bambino’. La grande ruota della storia, come una macina da mulino, aveva sempre girato nella stessa direzione: dal piccolo verso il grande, chi ha meno sottomesso a chi ha più, il debole schiacciato dal forte, chi sa tante parole che imbroglia chi ne sa poche. Quella notte a Betlemme la grande ruota della storia, la macina del mondo, per un attimo, alla nascita di Gesù si è bloccata. C’è stato un nuovo in principio e da lì qualcosa ha cominciato a girare all’incontrario e il senso della storia ha imboccato un’altra direzione: Dio verso l’uomo, il grande verso il piccolo, dal cielo verso il basso, dai palazzi verso una stalla, i Re Magi verso un bambino, chi ha pane verso chi ha fame.
La stalla e la mangiatoia di Gesù sono un ‘no’ gridato al nostro ‘beh le cose vanno così, non c’è niente da fare’. Ma se fosse nato in una villa, in un palazzo con tutti i confort, pensate che saremmo qui a ricordarlo ancora? No. Uno dei tanti. I potenti sono già troppi. I palazzi sono deserti di profezia. Dio entra nel mondo dal punto più basso, da una grotta, da una stalla, inizia dalla periferia, dagli ultimi della fila, dai pastori. Perché nessuno sia escluso. Da lì tutti ripartire, perché il mondo sia nuovo.
E venne ad abitare in mezzo a noi. Che vuol dire: non solo a piantare la sua tenda fra le altre tende del nostro sterminato accampamento umano, ma ad abitare in mezzo a ciascuno di noi, nel centro di me, in mezzo al cuore. Dio ha ora un cuore di carne e in noi scorre un cromosoma divino. Perché Natale? Perché Dio nasca in me e io nasca in Dio. Il Verbo si fa carne perché la carne diventi sillaba di Dio.
Non sopporto l’idea di auguri innocui, formali, di routine. Allora, cari fratelli, tanti auguri impegnativi e scomodi.
Dio che si incarna per amore dei piccoli, ci faccia star male in una vita egoista, che gira le spalle a chi chiede aiuto, che sta alla finestra del mondo. Si uccide anche stando alla finestra.
Dio che si fa bambino, ci faccia sentire dei vermi quando cerchiamo di farci grandi sopra le spalle degli altri, con bugie.
Un Dio deposto sulla paglia ci tolga il sonno, finché non procuriamo di che dormire a uno sfrattato, a un povero, a un migrante, o non aiutiamo a procurare una tenda a chi non ha più casa.
Maria che trova una culla solo nella greppia degli animali, ci costringa con i suoi occhi feriti a non aver pace per tutti i bambini non voluti, rifiutati, gettati via, violati. Per questo sacrilegio continuo.
Giuseppe che trova solo porte chiuse, ci metta in crisi davanti al dolore di tanti genitori per i figli senza fortuna, senza lavoro, senza salute, con le porte chiuse in faccia.
Gli angeli che annunciano pace portino ancora guerra alla nostra coscienza, quando non vede che a una spanna da noi si consumano ingiustizie, si fabbricano armi, si avvelena la terra e l’acqua e l’aria.
Natale è senza bugie. Che inganno, che imbroglio ci può essere in un bambino che si mette nelle tue mani, e puoi fare di lui quello che vuoi, che inganno ci può essere in uno che muore d’amore per te? Il Presepio non è una favola che ci raccontiamo ogni anno, è la chiave di un mondo che non esiste ancora.
A Natale non celebriamo un ricordo, il compleanno di Gesù, ma un progetto: l’inizio di un altro modo di abitare la terra: essa non appartiene a chi è più forte e accumula più denaro, quella è una storia piena di rumore e di furore, ma che non significa nulla. La storia appartiene alla bontà senza clamore, all’amore senza vanto, al servizio senza interesse.
In principio era la Tenerezza… e la tenerezza si è fatta volto, occhi di donna, sorriso di bambino. Dio tenerezza è il Dio fatto tenda, perché tutti abbiano una casa, dove essere veri e amati. Dio tenerezza è arrivato su un barcone nel mare. Da padre e madre profughi, Maria e Giuseppe con il piccolo Gesù. Nella tenerezza non c’è paura. Dio è la dolce rivoluzione della tenerezza” (E. Ronchi).
In questo Natale, ultimo del grande Sinodo ma ancora anno Giubilare, chiediamo allo Spirito di Dio che ci colmi di speranza certa perché “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore” (Gaudium et spes, 1).
Maria e Giuseppe, amorosamente sempre-per-Gesù, accompagnino cuori e passi verso di lui, il sempre Veniente Signore e Salvatore. Lui, l’Amatissimo Figlio, il sempre-per-noi, ci renda attenti e disponibili a tutti coloro che ci stanno attendendo, solleciti sempre-per-loro.
Fraternamente vi abbraccio tutti e ciascuno nella luce del Natale che desideriamo celebrare “con gioia pura ed umile”, come ci suggerisce l’innodìa liturgica.
Maranatha! Signore nostro, vieni!
✠ padre Mauro Maria Morfino
vescovo di Alghero-Bosa

