“Custodi del fuoco e non guardiani di ceneri”. Riflessione sul Cammino sinodale del Vescovo Morfino per il Clero regionale

Fratelli cari nel ministero, Presbiteri e Diaconi, a voi un saluto affettuoso, uniti nella medesima fede, animati dalla medesima speranza, concordi nella medesima carità.

Stiamo vivendo un momento storico, culturale ed ecclesiale di portata unica: il nostro è un tempo da capire: proprio nel senso etimologico di capĕre: “prendere, afferrare, com-prendere” per poterlo adeguatamente abitare; un tempo da amare: perché nostro, perché non c’è e non ce ne sarà, per noi, altro e perché è un tempo dove lo Spirito è all’opera e fa salvezza nonostante le nostre inconcludenze e irresponsabilità; un tempo da evangelizzare: perché a noi è stato confidato, dal Pastore grande del gregge, la perla preziosa del Regno, la parola salvifica del Vangelo. Con un mandato esplicito e un’inequivocabile promessa: “Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,19-20). Questo è il nostro ministerium.

Ma un tempo da capire, un tempo da amare, un tempo da evangelizzare necessita di essere un tempo ascoltato.

In vista del cammino sinodale che stiamo compiendo, desidero condividere con voi il testo pronunciato da Papa Francesco, che presiede nella carità a tutte e singole le Chiese Sorelle, e rivolto alla sua Diocesi di Roma sabato 18 settembre 2021. Mi è parso nitido, immediato e atto a cogliere l’essenziale. Vorremmo cogliere, dalla parola stessa di Colui che ci chiama a Sinodo, l’architettura portante, i presupposti e l’itinerario ideale di questo “cammino-insieme” che ci chiede di vivere coraggiosamente, decisamente, seriamente.

 

Presbiteri: membri del popolo di Dio

È una premessa identitaria indispensabile per metterci, come ministri ordinati, in cammino sinodale, cioè in cammino con altri: non siamo una categoria di privilegiati, ma siamo popolo santo di Dio. Tutti. PO 1 lo dice in termini essenziali: i presbiteri “vivono (quindi) in mezzo agli altri uomini come fratelli in mezzo ai fratelli”.

Bisogna sentirsi parte di un unico grande popolo destinatario delle divine promesse, aperte a un futuro che attende che ognuno possa partecipare al banchetto preparato da Dio per tutti i popoli (cf Is 25,6). E qui vorrei precisare che anche sul concetto di “popolo di Dio” ci possono essere ermeneutiche rigide e antagoniste, rimanendo intrappolati nell’idea di una esclusività, di un privilegio, come accadde per l’interpretazione del concetto di “elezione” che i profeti hanno corretto, indicando come dovesse essere rettamente inteso. Non si tratta di un privilegio – essere popolo di Dio -, ma di un dono che qualcuno riceve… per sé? No: per tutti, il dono è per donarlo: questa è la vocazione. È un dono che qualcuno riceve per tutti, che noi abbiamo ricevuto per gli altri, è un dono che è anche una responsabilità. La responsabilità di testimoniare nei fatti e non solo a parole le meraviglie di Dio, che, se conosciute, aiutano le persone a scoprire la sua esistenza e ad accogliere la sua salvezza. L’elezione è un dono, e la domanda è: il mio essere cristiano, la mia confessione cristiana, come lo regalo, come lo dono? La volontà salvifica universale di Dio si offre alla storia, a tutta l’umanità attraverso l’incarnazione del Figlio, perché tutti, attraverso la mediazione della Chiesa, possano diventare figli suoi e fratelli e sorelle tra loro. È in questo modo che si realizza la riconciliazione universale tra Dio e l’umanità, quell’unità di tutto il genere umano di cui la Chiesa è segno e strumento (cf LG, 1).

Una domanda diretta, che non possiamo eludere: come doniamo al popolo di Dio a noi affidato, l’elezione ricevuta, gratis, nell’ordinazione? Come esercitiamo quella elezione, che secondo la rivelazione, non è mai privilegio a proprio uso e consumo, ma è sempre per altri? Se chiamati e unti, sempre, per altri, c’è dunque un come indisponibile ad ogni solipsismo, ad ogni autoreferenzialità, ad ogni personalismo.

È bene ricordare che, affinché il nostro ministero gerarchico venga esercitato nel segno di una vera sinodalità, uno degli elementi necessari e indispensabili, è avere chiara consapevolezza della circolarità intrinseca che sussiste, teologicamente, tra sacerdozio battesimale dell’intero popolo di Dio e il nostro ministero ordinato. È proprio questo dato intrinseco ad esigere che il ministero gerarchico non possa né esistere né essere esercitato in modo isolato e con andatura autoreferenziale, prescindendo dagli altri fedeli che co-costituiscono il popolo di Dio. “In tale prospettiva, uno dei contributi più importanti del pontificato di Francesco, in ordine alla recezione del Concilio, consiste nell’allineamento dei capitoli II (sul popolo di Dio) e III (sulla gerarchia) della Lumen gentium, nel senso che sia il primato sia la collegialità devono essere riformati collocando la loro ragion d’essere e il loro esercizio nel popolo di Dio, comprendendo le identità ministeriali dei fedeli nell’orizzonte del ‘noi ecclesiale’. […] Solo leggendo il capitolo III della costituzione sulla Chiesa alla luce del capitolo II si può porre mano a una riforma integrale della Chiesa, che tocchi tanto la mentalità quanto la struttura” (R. Luciani-S. Noceti, “Imparare un’ecclesialità sinodale”, Regno-Attualità, LXVI,2021,259-260).

 

Chiesa che ascolta

Un primo tratto irrinunciabile, senza il quale non si potrebbe neppure ipotizzare l’avvio e il proseguo dell’itinerario sinodale, è l’ascoltare e l’ascoltarsi: realmente, mutuamente, cordialmente. Un co-esercizio di ascolto senza prevenzioni e preconcetti per aiutarci ad entrare nel cuore dell’autentica sinodalità e tentare così di capirci e di capire. Non da ultimo questo nostro mondo complesso, frammentato, convulso, così spesso anche per noi, risulta indecifrabile e ci fa paura. Certo è che tale risulta essere il mondo nel quale è immersa la vita delle nostre comunità parrocchiali ed ecclesiali. Proprio a questo riguardo, così si esprime Papa Francesco:

Sta per iniziare un processo sinodale, un cammino in cui tutta la Chiesa si trova impegnata intorno al tema: «Per un Chiesa sinodale: comunione, partecipazione, missione»: tre pilastri. Sono previste tre fasi, che si svolgeranno tra ottobre 2021 e ottobre 2023. Questo itinerario è stato pensato come dinamismo di ascolto reciproco, voglio sottolineare questo: un dinamismo di ascolto reciproco, condotto a tutti i livelli di Chiesa, coinvolgendo tutto il popolo di Dio […] I Vescovi […] devono ascoltarsi, i preti devono ascoltarsi, i religiosi devono ascoltarsi, i laici devono ascoltarsi. Poi, inter-ascoltarsi tutti. Ascoltarsi; parlarsi e ascoltarsi. Non si tratta di raccogliere opinioni, no. Non è un’inchiesta, questa; ma si tratta di ascoltare lo Spirito Santo, come troviamo nel libro dell’Apocalisse: «Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese» (2,7). Avere orecchi, ascoltare, è il primo impegno. Si tratta di sentire la voce di Dio, cogliere la sua presenza, intercettare il suo passaggio e soffio di vita. Capitò al profeta Elia di scoprire che Dio è sempre un Dio delle sorprese, anche nel modo in cui passa e si fa sentire: «Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce […], ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello» (1Re19, 11-13). Ecco come ci parla Dio. Ed è per questa “brezza leggera” – che gli esegeti traducono anche “voce sottile di silenzio” e qualcun altro “un filo di silenzio sonoro” – che dobbiamo rendere pronte le nostre orecchie, per sentire questa brezza di Dio.

La dimensione dell’ascolto ci ha accompagnato in questi dieci anni di cammino insieme: l’esercizio mensile della lectio divina; la condivisione nel Presbiterio dei momenti di Ritiro spirituale e degli Esercizi spirituali, i tempi di formazione con i gruppi di lavoro e di confronto; i Convegni diocesani, gli incontri foraniali… ci conducono, oggi, forse, ad avere una consapevolezza accresciuta di quell’unicum necessarium che è l’ascolto. Di Dio, dei fratelli e delle sorelle che il Signore ci affida da amare (cf M.M. Morfino, “La fede viene dall’ascolto: Rm 10,17”. Obbedire alla Parola per crescere nella fede, Alghero 2012, pp. 9ss).

 

Chiesa che ascolta “costretta” dallo Spirito

Nella lectio divina dell’anno pastorale 2016-2017 ci siamo soffermati sul libro degli Atti degli Apostoli, che racconta come lo Spirito sollecita, spinge, “costringe” la Chiesa a camminare per le vie di Dio, dismettendo le proprie. Parlando alla Chiesa di Roma, papa Francesco indica questo libro biblico, come “il primo e il più importante “manuale” di ecclesiologia”. Ed è proprio così. Il testo di Atti 10, in questo contesto, è particolarmente illuminante e così Papa Francesco lo interpreta:

Possiamo vedere lo Spirito che spinge Pietro ad andare nella casa di Cornelio, il centurione pagano, nonostante le sue esitazioni. Ricordate: Pietro aveva avuto una visione che l’aveva turbato, nella quale gli veniva chiesto di mangiare cose considerate impure e, nonostante la rassicurazione che quanto Dio purifica non va più ritenuto immondo, restava perplesso. Stava cercando di capire, ed ecco arrivare gli uomini mandati da Cornelio. Anche lui aveva ricevuto una visione e un messaggio. Era un ufficiale romano, pio, simpatizzante per il giudaismo, ma non era ancora abbastanza per essere pienamente giudeo o cristiano: nessuna “dogana” religiosa lo avrebbe fatto passare. Era un pagano, eppure, gli viene rivelato che le sue preghiere sono giunte a Dio, e che deve mandare qualcuno a dire a Pietro di recarsi a casa sua. In questa sospensione, da una parte Pietro con i suoi dubbi, e dall’altra Cornelio che aspetta in quella zona d’ombra, è lo Spirito a sciogliere le resistenze di Pietro e aprire una nuova pagina della missione Così si muove lo Spirito: così. L’incontro tra i due sigilla una delle frasi più belle del cristianesimo. Cornelio gli era andato incontro, si era gettato ai suoi piedi, ma Pietro rialzandolo gli dice: «Alzati: anch’io sono un uomo!» (At10,26), e questo lo diciamo tutti: “Io sono un uomo, io sono una donna, siamo umani”, e dovremmo dirlo tutti, anche i Vescovi, tutti noi: “alzati: anche io sono un uomo”. E il testo sottolinea che conversò con lui in maniera familiare (cfr v. 27). Il cristianesimo dev’essere sempre umano, umanizzante, riconciliare differenze e distanze trasformandole in familiarità, in prossimità. Uno dei mali della Chiesa, anzi una perversione, è questo clericalismo che stacca il prete, il Vescovo dalla gente. Il Vescovo e il prete staccato dalla gente è un funzionario, non è un pastore. San Paolo VI amava citare la massima di Terenzio: «Sono uomo, niente di ciò ch’è umano lo stimo a me estraneo». L’incontro tra Pietro e Cornelio risolse un problema, favorì la decisione di sentirsi liberi di predicare direttamente ai pagani, nella convinzione – sono le parole di Pietro – «che Dio non fa preferenza di persone» (At 10,34). In nome di Dio non si può discriminare. E la discriminazione è un peccato anche fra noi: “noi siamo i puri, noi siamo gli eletti, noi siamo di questo movimento che sa tutto, noi siamo…”. No. Noi siamo Chiesa, tutti insieme. E vedete, non possiamo capire la “cattolicità” senza riferirci a questo campo largo, ospitale, che non segna mai i confini. Essere Chiesa è un cammino per entrare in questa ampiezza di Dio. Poi, tornando agli Atti degli Apostoli, ci sono i problemi che nascono riguardo all’organizzazione del crescente numero dei cristiani, e soprattutto per provvedere ai bisogni dei poveri. Alcuni segnalano il fatto che le vedove vengono trascurate. Il modo con cui si troverà la soluzione sarà radunare l’assemblea dei discepoli, prendendo insieme la decisione di designare quei sette uomini che si sarebbero impegnati a tempo pieno nella diakonia, nel servizio alle mense (At 6,1-7). E così, con il discernimento, con le necessità, con la realtà della vita e la forza dello Spirito, la Chiesa va avanti, cammina insieme, è sinodale. Ma sempre c’è lo Spirito come grande protagonista della Chiesa.

“Radunare l’assemblea dei discepoli”: incontrarsi, parlarsi, ascoltarsi, convergere in unum, obbedienti alla Parola e arresi allo Spirito, è ciò che ci attende in questi anni, innanzitutto come presbitèrio. Non da padroni e proprietari del gregge, ma da servi-pastori buoni, umili, miti. Dovremmo giungere a poterci firmare, dopo il proprio nome, come faceva il Venerabile Giuseppe Quadrio: docibilis a Spiritu Sancto…

E lo Spirito capace di farci sorprendere! Così come, in modo inatteso e imprevedibile, tutta la storia della Salvezza ha dato testimonianza:

Non siate disincantati, preparatevi alle sorprese. C’è un episodio nel libro dei Numeri (cap. 22) che racconta di un’asina che diventerà profetessa di Dio. Gli ebrei stanno concludendo il lungo viaggio che li condurrà alla terra promessa. Il loro passaggio spaventa il re Balak di Moab, che si affida ai poteri del mago Balaam per bloccare quella gente, sperando di evitare una guerra. Il mago, a suo modo credente, domanda a Dio che fare. Dio gli dice di non assecondare il re, che però insiste, e allora lui cede e sale su un’asina per adempiere il comando ricevuto. Ma l’asina cambia strada perché vede un angelo con la spada sguainata che sta lì a rappresentare la contrarietà di Dio. Balaam la tira, la percuote, senza riuscire a farla tornare sulla via. Finché l’asina si mette a parlare avviando un dialogo che aprirà gli occhi al mago, trasformando la sua missione di maledizione e morte in missione di benedizione e vita. Questa storia ci insegna ad avere fiducia che lo Spirito farà sentire sempre la sua voce. Anche un’asina può diventare la voce di Dio, aprirci gli occhi e convertire le nostre direzioni sbagliate. Se lo può fare un’asina, quanto più un battezzato, una battezzata, un prete, un Vescovo, un Papa. Basta affidarsi allo Spirito Santo che usa tutte le creature per parlarci: soltanto ci chiede di pulire le orecchie per sentire bene.

Il criterio a fortiori è molto eloquente: se un’asina… tanto più un battezzato, una battezzata, un prete, un Vescovo, un Papa! Credo che il grande appello, per la bocca del beato Pietro, sia proprio quello di cominciare a fidarsi, ad affidarsi, a dare credito alla luce e alla forza dello Spirito del Signore. Ma lo Spirito ha bisogno di noi:

Lo Spirito Santo ha bisogno di noi. Ascoltatelo ascoltandovi. Non lasciate fuori o indietro nessuno. […] Ma occorre uscire dal 3-4% che rappresenta i più vicini, e andare oltre per ascoltare gli altri, i quali a volte vi insulteranno, vi cacceranno via, ma è necessario sentire cosa pensano, senza volere imporre le nostre cose: lasciare che lo Spirito ci parli.

 

Lo Spirito spezza le rigidità

Il Libro degli Atti degli Apostoli ci testimonia che, fin da subito, nella Comunità cristiana sono co-presenti visioni e attese differenti. Frequentare le pagine della Storia della Chiesa come presbiteri, ci ha insegnato che tale dialettica si è sempre (e abbondantemente) conservata. Ognuno di noi, credo, ha piena consapevolezza di quanto la dialettica – e talvolta la polarizzazione – accompagna ogni istante della vita della Chiesa. Come è anche i nostri giorni e così come sempre sarà. Papa Francesco, richiamando il contesto del sinodo gerosolimitano di Atti 15, lo attualizza e così:

Possono anche determinarsi scontri che raggiungono punte drammatiche, come capitò di fronte al problema della circoncisione dei pagani, fino alla deliberazione di quello che chiamiamo il Concilio di Gerusalemme, il primo Concilio. Come accade anche oggi, c’è un modo rigido di considerare le circostanze, che mortifica la makrothymía di Dio, cioè quella pazienza dello sguardo che si nutre di visioni profonde, visioni larghe, visioni lunghe: Dio vede lontano, Dio non ha fretta. La rigidità è un’altra perversione che è un peccato contro la pazienza di Dio, è un peccato contro questa sovranità di Dio. Anche oggi succede questo. Era capitato allora: alcuni, convertiti dal giudaismo, ritenevano nella loro autoreferenzialità che non ci potesse essere salvezza senza sottomettersi alla Legge di Mosè. In questo modo si contestava Paolo, il quale proclamava la salvezza direttamente nel nome di Gesù. Contrastare la sua azione avrebbe compromesso l’accoglienza dei pagani, che nel frattempo si stavano convertendo. Paolo e Barnaba furono mandati a Gerusalemme dagli Apostoli e dagli anziani. Non fu facile: davanti a questo problema le posizioni sembravano inconciliabili, si discusse a lungo. Si trattava di riconoscere la libertà dell’azione di Dio, e che non c’erano ostacoli che potessero impedirgli di raggiungere il cuore delle persone, qualsiasi fosse la condizione di provenienza, morale o religiosa. A sbloccare la situazione fu l’adesione all’evidenza che «Dio, che conosce i cuori», il cardiognosta, conosce i cuori, Lui stesso sosteneva la causa in favore della possibilità che i pagani potessero essere ammessi alla salvezza, «concedendo anche a loro lo Spirito Santo, come a noi» (At 15,8), concedendo così anche ai pagani lo Spirito Santo, come a noi.

La rigidità come perversione, autentico peccato contro la pazienza di Dio e la sua sovranità. Il caso – potremmo dire estremo per la sua apparente e quasi scontata non soluzione – trova, invece o proprio per tale fatto, una menzione esplicita e solenne in questo “primo trattato di ecclesiologia” che sono gli Atti. Solo lo Spirito infrange le rigidità di una parte e dell’altra:

In tal modo prevalse il rispetto di tutte le sensibilità, temperando gli eccessi; si fece tesoro dell’esperienza avuta da Pietro con Cornelio: così, nel documento finale, troviamo la testimonianza del protagonismo dello Spirito in questo cammino di decisioni, e della sapienza che è sempre capace di ispirare: «È parso bene, allo Spirito Santo e a noi, di non imporvi altro obbligo» eccetto quello necessario (At 15,28). “Noi”: in questo Sinodo andiamo sulla strada di poter dire “è parso allo Spirito Santo e a noi”, perché sarete in dialogo continuo tra voi sotto l’azione dello Spirito Santo, anche in dialogo con lo Spirito Santo. Non dimenticatevi di questa formula: “È parso bene allo Spirito Santo e a noi di non imporvi altro obbligo”: è parso bene allo Spirito Santo e a noi. Così dovrete cercare di esprimervi, in questa strada sinodale, in questo cammino sinodale. Se non ci sarà lo Spirito, sarà un parlamento diocesano, ma non un Sinodo. […] Stiamo facendo un cammino di ascoltarsi e ascoltare lo Spirito Santo, di discutere e anche discutere con lo Spirito Santo, che è un modo di pregare.

Tale libertà, la concede solo l’ascolto e l’obbedienza allo Spirito. Nessun altro e null’altro. “Lo Spirito santo e noi”. Troppo spesso, invece, cediamo (volentieri) alla tentazione di fare da soli, di condurre noi le cose. Dio solo sa quante ecclesiologie sostitutive mettiamo talvolta in atto nel nostro ministero come se, asceso al Cielo, il Signore avesse lasciato un vuoto da riempire, e lo riempiamo noi!

No, il Signore ci ha lasciato lo Spirito! Ma le parole di Gesù sono chiare: «Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre. […] Non vi lascerò orfani» (Gv 14,16.18). Per l’attuazione di questa promessa la Chiesa è sacramento, come affermato in Lumen gentium 1: «La Chiesa è, in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano». In questa frase, che raccoglie la testimonianza del Concilio di Gerusalemme, c’è la smentita di chi si ostina a prendere il posto di Dio, pretendendo di modellare la Chiesa sulle proprie convinzioni culturali, storiche, costringendola a frontiere armate, a dogane colpevolizzanti, a spiritualità che bestemmiano la gratuità dell’azione coinvolgente di Dio. Quando la Chiesa è testimone, in parole e fatti, dell’amore incondizionato di Dio, della sua larghezza ospitale, esprime veramente la propria cattolicità. Ed è spinta, interiormente ed esteriormente, ad attraversare gli spazi e i tempi. L’impulso e la capacità vengono dallo Spirito: «Riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e Samaria e fino ai confini della terra» (At 1,8). Ricevere la forza dello Spirito Santo per essere testimoni: questa è la strada di noi Chiesa, e noi saremo Chiesa se andremo su questa strada.

Dalle ecclesiologie sostitutive, inevitabilmente, nascono forme di ministero che… non ministrano più. Quando l’ecclesiologia che innerva parole e prassi non è quella cattolica, è difficile ipotizzare una prognosi fausta anche su tutto il resto del ministero. Nel configurare il carisma del ministero presbiterale, il Concilio, come sappiamo, privilegia l’ecclesiologia di comunione che è e rimane “decisiva per cogliere l’identità del presbitero” (Pastores dabo vobis, 12). La dimensione cristologica del sacramento dell’Ordine fonda e orienta la dimensione ecclesiologica, che si esprime anzitutto nell’inserimento dei presbiteri nell’unico presbitèrio diocesano. La Chiesa, per l’ultimo Concilio, non è solo una società e neppure semplicemente il Corpo mistico di Cristo, ma è frutto dell’opera trinitaria dalla creazione all’eschaton. La Chiesa è, come afferma LG 4 citando Cipriano di Cartagine, “un popolo adunato dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito santo”. La comunione ecclesiale è innanzitutto il radicamento dei battezzati nell’opera trinitaria di con-vocazione della Chiesa: popolo di Dio, corpo di Cristo, tempio dello Spirito. È prima di tutto l’adesione all’unica fede nella proclamazione della parola di Dio a rappresentare la radice della comunione ecclesiale come l’intera Dei Verbum insegna; sono i sacramenti celebrati come la Chiesa vuole, e l’Eucarestia in modo speciale, a nutrire e ricostituire la comunione nella Chiesa (cf LG 11). Comunione resa plasticamente visibile nella concelebrazione con il vescovo e il presbitèrio che si manifesta “ottimamente nel caso della concelebrazione liturgica (PO 7)”. Ma ciò è risultato chiaro e indispensabile, per essere e fare Chiesa, fin dal principio. La testimonianza di Ignazio di Antiochia è nitida: “Procurate dunque di partecipare ad un’unica Eucarestia, perché non vi è che un’unica carne del Signore nostro Gesù Cristo e un unico calice che ci unisce nel suo sangue e un unico altare, come uno solo è il vescovo con il collegio dei presbiteri e i diaconi” (Lettera ai cristiani di Filadelfia, Cc, 1,1-2,1; 3,2).

La latitanza in questo atto fons et culmen della vita della Chiesa – e in altri non meno ricchi di valenza comunionale – non è semplicemente liturgicamente incompleta. È dottrinalmente deviante (cf A. Donghi, Il presbitero. Uomo eucaristico, Ariccia 2015). Latitanza, purtroppo, talvolta, agìta ed esibita anche nei nostri presbitèri. Ogni autarchìa dottrinale, liturgica, comunionale, nel presbitero, è un vulnus alla santità, alla bellezza e alla credibilità del presbitèrio.

Icastico a riguardo un passo di Bernardo di Chiaravalle, Dottore della Chiesa: «Il demonio teme poco coloro che digiunano, coloro che pregano anche di notte, coloro che sono casti, perché sa bene quanti di questi ne ha portato alla rovina. Ma coloro che sono concordi e che vivono nella casa di Dio, con un cuor solo, uniti a Dio e fra loro nell’amore, questi producono al demonio dolore, timore, rabbia. Questa unità della comunità […] tormenta il nemico. […] E per questo principalmente il demonio conosce che, coloro che si amano sono nella mano di Dio e non sono toccati dal tormento della morte. […] Il demonio teme l’amore fra gli uomini. […] Questa è la città forte e inespugnabile» (Bernardo di Chiaravalle, Sermoni vari, in Avvento: tre tipi di inferno, in F. Gastaldelli (a cura di), Opera omnia di San Bernardo – Sermoni diversi e vari – Vol. IV, Milano 2000, 639).

Alcune conduzioni ministeriali paiono più sorrette da scampoli di ideologia che da una sana, cattolica teologia, più affannate da “pratiche di pietà” da fare che dal dare vita a quella comunione di essere che rende inespugnabile il presbitèrio.

 

Presbiteri “inquieti” perché arresi allo Spirito

In questo snodo epocale, come presbiteri, ci deve accompagnare una sana e santa inquietudine, per mettere realmente mano a ciò che lo Spirito ci domanda di rimodulare o dismettere del tutto o rieditare con categorie comprensibili, oggi, al popolo di Dio. Il presbitero “accomodato”, ci ricorda il successore di Pietro, non rende un vero ministero ai suoi fratelli e alle sue sorelle:

Se un cristiano non sente questa inquietudine interiore, se non la vive, qualcosa gli manca; e questa inquietudine interiore nasce dalla propria fede e ci invita a valutare cosa sia meglio fare, cosa si deve mantenere o cambiare. […] Il movimento è conseguenza della docilità allo Spirito Santo, che è il regista di questa storia in cui tutti sono protagonisti inquieti, mai fermi. Pietro e Paolo, non sono solo due persone con i loro caratteri, sono visioni inserite in orizzonti più grandi di loro, capaci di ripensarsi in relazione a quanto accade, testimoni di un impulso che li mette in crisi […] che li spinge a osare, domandare, ricredersi, sbagliare e imparare dagli errori, soprattutto di sperare nonostante le difficoltà. Sono discepoli dello Spirito Santo, che fa scoprire loro la geografia della salvezza divina, aprendo porte e finestre, abbattendo muri, spezzando catene, liberando confini. Allora può essere necessario partire, cambiare strada, superare convinzioni che trattengono e ci impediscono di muoverci e camminare insieme.

La Parola di Dio, ogni giorno, ci ri-presenta credenti obbedienti allo Spirito, capaci di rimodulare itinerari, relazioni, scelte, atteggiamenti e disposte a rimettersi in gioco, a dismettere schemi, ad andare controcorrente. Mossi da quella sana e santa inquietudine tipica della vera persona spirituale, del vero discepolo (da discĕre: apprendere), di colui che sa di non essere giunto, sa di non essere arrivato, sa di non essere, ancora, come il Signore desidera che sia…

 

Chiesa sinodale

Ma che senso dare all’espressione ricorrente “Chiesa sinodale”? È slogan odierno? È assioma caro alla sensibilità di papa Francesco? Colui che chiama a Sinodo l’intera Cattolicità, con la sua autorità apostolica, sempre nel succitato intervento, chiarifica l’assunto anche per noi:

Il tema della sinodalità non è il capitolo di un trattato di ecclesiologia, e tanto meno una moda, uno slogan o il nuovo termine da usare o strumentalizzare nei nostri incontri. No! La sinodalità esprime la natura della Chiesa, la sua forma, il suo stile, la sua missione. E quindi parliamo di Chiesa sinodale, evitando, però, di considerare che sia un titolo tra altri, un modo di pensarla che preveda alternative. Non lo dico sulla base di un’opinione teologica, neanche come un pensiero personale, ma seguendo quello che possiamo considerare il primo e il più importante “manuale” di ecclesiologia, che è il libro degli Atti degli Apostoli. La parola “sinodo” contiene tutto quello che ci serve per capire: “camminare insieme”. Il libro degli Atti è la storia di un cammino che parte da Gerusalemme e, attraversando la Samaria e la Giudea, proseguendo nelle regioni della Siria e dell’Asia Minore e quindi nella Grecia, si conclude a Roma. Questa strada racconta la storia in cui camminano insieme la Parola di Dio e le persone che a quella Parola rivolgono l’attenzione e fede. La Parola di Dio cammina con noi. Tutti sono protagonisti, nessuno può essere considerato semplice comparsa. Questo bisogna capirlo bene: tutti sono protagonisti. Non è più protagonista il Papa […] i Vescovi; no: tutti siamo protagonisti, e nessuno può essere considerato una semplice comparsa. I ministeri, allora, erano ancora considerati autentici servizi. E l’autorità nasceva dall’ascolto della voce di Dio e della gente – mai separarli – che tratteneva “in basso” coloro che la ricevevano.

La sinodalità è una nota costitutiva di tutta la vita ecclesiale, un modo di procedere di tutta la Chiesa che coinvolge la totalità del popolo di Dio. Essa riguarda, perciò, gli stili di vita, le pratiche di discernimento e le strutture ecclesiali e di governo. In occasione della Commemorazione del 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo dei vescovi, Papa Francesco ha descritto tale paradigma affermando che “una Chiesa sinodale è una Chiesa dell’ascolto, nella consapevolezza che ascoltare è più che sentire. È un ascolto reciproco in cui ciascuno ha qualcosa da imparare” (cf Regno-Documenti, 37,2015,13: EV 31,1665).

L’ascolto, dunque, risulta essere una peculiarità che qualifica tutti i fedeli, in ragione dei “tria munera” – insegnare, santificare e governare – di cui partecipa, nel sacerdozio battesimale, tutto il popolo di Dio. È il Concilio Ecumenico Vaticano II (LG 10, EV 1, 311) che ci ricorda che “il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico” sono “ordinati l’uno all’altro”. Perciò l’ascolto qualifica l’intero processo di interazione tra tutti i membri del popolo di Dio: “Popolo fedele, collegio episcopale, vescovo di Roma: l’uno in ascolto degli altri; e tutti in ascolto dello Spirito Santo, lo “Spirito della verità” (Gv 14,17), per conoscere ciò che egli dice alle Chiese (Ap 2,7)” (cf Regno-Documenti, LX,2015,13: EV 31,1665). Il primo passo di una Chiesa realmente sinodale diventa, perciò, l’ascolto dello Spirito. Ma, proprio perché nessuno ne ha l’esclusiva e la sua santa unzione rende ogni cristiano “istruito” (1Gv 2,27), è necessario l’ascolto reciproco. Il teologo Giovanni Tangorra sottolinea che “non è solo questione di buona creanza ma di pneumatologia: prima di pronunciarsi nello Spirito, gli anziani e gli apostoli aprirono il “sinodo” di Gerusalemme “tacendo e ascoltando” le ragioni degli altri (At 15,12)” (“Lessico sinodale”, Orientamenti pastoraliDossier LXIX/5 (2021) 45). Un’indicazione irrinunciabile per l’itinerario che ci si apre davanti.

Chiesa sinodale significa perciò Chiesa-sacramento, sacramento della promessa di Gesù che lo Spirito sarà con noi. Papa Francesco che chiama l’intera Chiesa a camminare insieme, ricorda che, sempre, ci saranno discussioni ma che le soluzioni vanno ricercate dando la parola a Dio e alle sue voci in mezzo a noi; pregando e aprendo gli occhi a tutto ciò che ci circonda; praticando una vita fedele al Vangelo. Egli chiede ad ogni Chiesa di interrogare la Rivelazione “secondo un’ermeneutica pellegrina che sa custodire il cammino incominciato negli Atti degli Apostoli”:

Questo è importante: il modo di capire, di interpretare. Un’ermeneutica pellegrina, cioè che è in cammino. Il cammino che è incominciato dopo il Concilio? No. È incominciato con i primi Apostoli, e continua. Quando la Chiesa si ferma, non è più Chiesa, ma una bella associazione pia perché ingabbia lo Spirito Santo. Ermeneutica pellegrina che sa custodire il cammino incominciato negli Atti degli Apostoli. Diversamente si umilierebbe lo Spirito Santo. Gustav Mahler sosteneva che la fedeltà alla tradizione non consiste nell’adorare le ceneri ma nel custodire il fuoco. Io domando a voi: “Prima di incominciare questo cammino sinodale, a che cosa siete più inclini: a custodire le ceneri della Chiesa, cioè della vostra associazione, del vostro gruppo, o a custodire il fuoco? Siete più inclini ad adorare le vostre cose, che vi chiudono – io sono di Pietro, io sono di Paolo, io sono di questa associazione, voi dell’altra, io sono prete, io sono Vescovo – o vi sentite chiamati a custodire il fuoco dello Spirito? […] C’è una felice formula di San Vincenzo di Lérins che, mettendo a confronto l’essere umano in crescita e la Tradizione che si trasmette da una generazione all’altra, afferma che non si può conservare il “deposito della fede” senza farlo progredire: «consolidandosi con gli anni, sviluppandosi col tempo, approfondendosi con l’età» (Commonitorium primum, 23,9) – “ut annis consolideturdilatetur tempore, sublimetur aetate”. Questo è lo stile del nostro cammino: le realtà, se non camminano, sono come le acque. Le realtà teologiche sono come l’acqua: se l’acqua non scorre ed è stantìa è la prima a entrare in putrefazione. Una Chiesa stantìa incomincia a essere putrefatta.

Non possiamo non dirci che la nostra organizzazione ecclesiale, sostanzialmente, si è cristallizzata a quella degli anni ’50-’60 del secolo scorso e così è rimasta. È vero che, di fronte alle trasformazioni, si sono approfonditi i temi della secolarizzazione, della nuova evangelizzazione, della riscoperta della catechesi battesimale ma, tuttavia, cogliamo che tali tentativi si sono dimostrati insufficienti davanti ai cambiamenti epocali che ci hanno (quasi) travolto. La velocità delle trasformazioni ci ha colto di sorpresa e, anche se è triste dircelo, non ne abbiamo compresa la portata. Semplicemente perché non avevamo tra le mani efficaci strumenti di lettura e, per rimanere nell’immagine della guardianìa delle ceneri, abbiamo erogato una marea di energie a mantenere strette urne cinerarie invece che la fiamma viva del Vangelo. Certo è che la nuova visione del mondo appare agli antipodi dalla visione e dalla prassi ecclesiale in cui noi siamo cresciuti, siamo diventati credenti e siamo stati ordinati diaconi e preti… Il divario tra il “nostro” mondo e il mondo è diventato abissale.

Ma distinguere il fuoco dalle ceneri, per esperienza concreta, non è sempre facile. “Eppure è possibile concentrarsi sulle briciole che l’animo umano nasconde e non dimentica. Probabilmente l’opera dello Spirito opera in quelle briciole. Da qui l’impegno a non aver paura delle circostanze che sono cambiate, ma di restare fermi nella sostanza del messaggio evangelico. Pastoralmente significa rimanere nella verità della fede, non sottolineando eccezioni e contraddizioni. Soprattutto in due ambiti di impegno che restano significativi: i ragazzi e le giovani famiglie. Di fronte agli adolescenti, i genitori e gli adulti rimangono senza risposte. I loro figli hanno abbreviato le tappe della crescita; sono diventati aggressivi, ma anche fragili e facilmente influenzabili. Sono soprattutto “digitali nativi”. Girano il mondo della rete e sono propensi a seguire miti e tendenze. I nostri oratori sono attrattivi per troppo pochi soggetti: occorre andare a cercare i ragazzi, superare la loro diffidenza, comprendendone linguaggi e atteggiamenti. Si mostrano a chi così agisce, che hanno cuore, generosità e soprattutto apprezzamento per quanti si prendono cura di loro. La riflessione si fa doverosa perché impegna l’ascolto di culture che, nel breve tempo di qualche decennio, sono profondamente cambiate. […] Rileggendo le analisi dei cambiamenti negli ultimi quarant’anni, occorre prendere coscienza che la sintesi culturale della nostra gente è altra. Dando ascolto ad analisi pertinenti e scientificamente fondate, il soggetto moderno è considerato e strutturato come semplice consumatore. Sono saltati i riferimenti e le sintesi cristiane, marxiste, liberiste della persona, per tradursi in un consumismo il cui potere è nelle mani di pochi grandi gruppi di intermediazione che, tramite la pubblicità, inducono all’acquisto ossessivo di beni e di merci, senza altri riferimenti. […] Si sono dileguati i concetti di persona, di comunità, di dignità.  Vengono in mente le parole della Lettera di Giacomo: «Siete pieni di desideri e non riuscite a possedere; uccidete, siete invidiosi e non riuscite a ottenere; combattete e fate guerra!». […] Senza entrare nei dettagli di studi sociologici complessi, è esperienza comune registrare le difficoltà che la proposta religiosa incontra nelle nostre parrocchie per suggerire ascolto e dialogo.” (V. Albanesi, Settimananews 21.9.2021).

Come presbiteri e diaconi, chiediamo allo Spirito di essere custodi del fuoco del Vangelo e non di mucchietti – più o meno consistenti – di ceneri che, mai più potranno ricomporsi in ciò che erano. Come presbiteri e diaconi, ognuno nella sua particolare condizione biografica attuale, facendo memoria di quel libro dei Vangeli ricevuto nell’ordinazione diaconale e di quel calice con la patena che ci hanno posto tra le mani il corpo dato e il sangue versato del Signore, offerto per tutti in remissione dei peccati, vorremmo ri-comprendere, per conservare realmente il “deposito della fede”, l’adagio scandito nella scultoreità latina: ut annis consolideturdilatetur temporesublimetur aetate. Per me, oggi, è vero consolidamento? Per me, oggi, è vero sviluppo? Per me, oggi, è vero approfondimento? Quale progressione del deposito della fede riscontro in me e nel mio ministero?

Tornando al processo sinodale, la fase diocesana è molto importante, perché realizza l’ascolto della totalità dei battezzati, soggetto del sensus fidei infallibile in credendo. Ci sono molte resistenze a superare l’immagine di una Chiesa rigidamente distinta tra capi e subalterni, tra chi insegna e chi deve imparare, dimenticando che a Dio piace ribaltare le posizioni: «Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili» (Lc 1,52), ha detto Maria. Camminare insieme scopre come sua linea piuttosto l’orizzontalità che la verticalità. La Chiesa sinodale ripristina l’orizzonte da cui sorge il sole Cristo: innalzare monumenti gerarchici vuol dire coprirlo. I pastori camminano con il popolo: noi pastori camminiamo con il popolo, a volte davanti, a volte in mezzo, a volte dietro. Il buon pastore deve muoversi così: davanti per guidare, in mezzo per incoraggiare e non dimenticare l’odore del gregge, dietro perché il popolo ha anche “fiuto”. Ha fiuto nel trovare nuove vie per il cammino, o per ritrovare la strada smarrita. Questo voglio sottolinearlo, e anche ai Vescovi e ai preti della diocesi. Nel loro cammino sinodale si domandino: “Ma io sono capace di camminare, di muovermi, davanti, in mezzo e dietro, o sono soltanto nella cattedra, mitra e baculo?”. Pastori immischiati, ma pastori, non gregge: il gregge sa che siamo pastori, il gregge sa la differenza. Davanti per indicare la strada, in mezzo per sentire cosa sente il popolo e dietro per aiutare coloro che rimangono un po’ indietro e per lasciare un po’ che il popolo veda con il suo fiuto dove sono le erbe più buone.

Papa Francesco ci ricorda che il sensus fidei qualifica ogni credente nella dignità della funzione profetica di Gesù Cristo (cf LG, 34-35): è grazie a tale sensus che si può discernere quali sono le vie del Vangelo nel tempo presente. E tutti, rispetto al Pastore grande del gregge che è il Signore, siamo sue pecore. Ma se è davvero questo tutti è la volontà di Gesù – e tutti i santi giorni, quando celebriamo, in persona Christi, alle parole della consacrazione del vino, ripetiamo e aderiamo a tale volontà: “versato per voi e per tuttiallora, dunque, le conseguenze sono assai concrete:

Nel cammino sinodale, l’ascolto deve tener conto del sensus fidei, ma non deve trascurare tutti quei “presentimenti” incarnati dove non ce l’aspetteremmo: ci può essere un “fiuto senza cittadinanza”, ma non meno efficace. Lo Spirito Santo nella sua libertà non conosce confini, e non si lascia nemmeno limitare dalle appartenenze. Se la parrocchia è la casa di tutti nel quartiere, non un club esclusivo, mi raccomando: lasciate aperte porte e finestre, non vi limitate a prendere in considerazione solo chi frequenta o la pensa come voi – che saranno il 3, 4 o 5%, non di più. Permettete a tutti di entrare… Permettete a voi stessi di andare incontro e lasciarsi interrogare, che le loro domande siano le vostre domande, permettete di camminare insieme: lo Spirito vi condurrà, abbiate fiducia nello Spirito. Non abbiate paura di entrare in dialogo e lasciatevi sconvolgere dal dialogo: è il dialogo della salvezza.

La citazione, poi, del “De pastoribus” di Agostino, nel discorso lateranense di Papa Francesco, diventa un ulteriore, luminoso, tassello esplicativo: “Con voi sono pecora, per voi sono pastore”: due aspetti, personale ed ecclesiale, inseparabili: “non può esserci sensus fidei senza partecipazione alla vita della Chiesa, che non è solo l’attivismo cattolico, ci dev’essere soprattutto quel “sentire” che si nutre dei «sentimenti di Cristo» (Fil 2,5)”:

L’esercizio del sensus fidei non può essere ridotto alla comunicazione e al confronto tra opinioni che possiamo avere riguardo a questo o quel tema, a quel singolo aspetto della dottrina, o a quella regola della disciplina. No, quelli sono strumenti, sono verbalizzazioni, sono espressioni dogmatiche o disciplinari. Ma non deve prevalere l’idea di distinguere maggioranze e minoranze: questo lo fa un parlamento. Quante volte gli “scarti” sono diventati “pietra angolare” (cf Sal 118,22; Mt 21,42), i «lontani» sono diventati «vicini» (Ef 2,13). Gli emarginati, i poveri, i senza speranza sono stati eletti a sacramento di Cristo (cf Mt 25,31-46). La Chiesa è così. E quando alcuni gruppi volevano distinguersi di più, questi gruppi sono finiti sempre male, anche nella negazione della Salvezza, nelle eresie. Pensiamo a queste eresie che pretendevano di portare avanti la Chiesa, come il pelagianesimo, poi il giansenismo. Ogni eresia è finita male. Lo gnosticismo e il pelagianesimo sono tentazioni continue della Chiesa. Ci preoccupiamo tanto, giustamente, che tutto possa onorare le celebrazioni liturgiche, e questo è buono – anche se spesso finiamo per confortare solo noi stessi – ma San Giovanni Crisostomo ci ammonisce: «Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non permettere che sia oggetto di disprezzo nelle sue membra cioè nei poveri, privi di panni per coprirsi. Non onorarlo qui in chiesa con stoffe di seta, mentre fuori lo trascuri quando soffre per il freddo e la nudità. Colui che ha detto: “Questo è il mio corpo”, confermando il fatto con la parola, ha detto anche “Mi avete visto affamato e non mi avete dato da mangiare” e: “Ogni volta che non avete fatto queste cose a uno dei più piccoli tra questi, non l’avete fatto neppure a me”» (Omelie sul Vangelo di Matteo, 50, 3). I poveri, i mendicanti, i giovani tossicodipendenti, tutti questi che la società scarta, sono parte del Sinodo?”. Sì, caro, sì, cara: non lo dico io, lo dice il Signore: sono parte della Chiesa. Al punto tale che se tu non li chiami, si vedrà il modo, o se non vai da loro per stare un po’ con loro, per sentire non cosa dicono ma cosa sentono, anche gli insulti che ti danno, non stai facendo bene il Sinodo. Il Sinodo è fino ai limiti, comprende tutti. […] Se noi non includiamo i miserabili – tra virgolette – della società, quelli scartati, mai potremo farci carico delle nostre miserie. E questo è importante: che nel dialogo possano emergere le proprie miserie, senza giustificazioni. Non abbiate paura.

Il pellegrinaggio regionale ad Assisi rende viva, palpitante e imperativa, l’identificazione di Gesù con chi ha fame, sete, è forestiero, nudo, ammalato, carcerato (Mt 25, 31-46). Gesù elegge a suo sacramento ogni affamato, assetato, forestiero, nudo, ammalato, carcerato. Ogni emarginato, povero, senza speranza e senza voce o senza peso sociale, è il Signore stesso che ci visita, che bussa alla porta, che desidera comunione. San Francesco, povero e vero compagno di tutti, si fa per noi icona evangelica vivente di Gesù e nostro potente intercessore. Sarà il bacio al lebbroso di Francesco e la prossimità, non di facciata, a questa parte dolente di umanità, a convertire il suo cuore: “Il Signore diede a me, frate Francesco, d’incominciare a far penitenza in questo mondo: mentre ero nei peccati, mi sembrava troppo ripugnante la visione dei lebbrosi: ed ecco il Signore stesso mi condusse tra loro e li trattai con misericordia. E allontanandomi da essi, quello che prima mi era sembrato ripugnante, mi si era convertito in dolcezza per l’anima e per il corpo” (Testamento, 1-2.4.11).

Unum presbyterium

Come dicevo, dalle ecclesiologie sostitutive di cui ci ha parlato Papa Francesco, inevitabilmente, nascono forme di ministero afone, incapaci di essere eloquenti e che non ministrano più. Una sorta di “ius… solo”! O del diritto del presbitero a stare da solo, a fare da solo, a camminare da solo. Il tutto corredato da relazioni selettive, soppesate a bilancino, ponderate da molteplici punti di vista, soprattutto all’interno del presbitèrio. Relazioni non libere e non liberanti.

È a noi tutti ben noto che l’incipit sacramentale del presbitero è tutto iscritto nel presbitèrio: nasce nel grembo di questo riunito intorno al vescovo e non da un’autocandidatura, non da una autoordinazione, non da un autoinvio, non da un’eterea e disincarnata solitudo spiritualis: “Tutti i presbiteri, costituiti nell’ordine del presbiterato mediante l’ordinazione, sono uniti tra di loro da un’intima fraternità sacramentale; ma in modo speciale essi formano un unico presbitèrio […] ciascuno [dei presbiteri] è unito agli altri membri di questo presbitèrio da particolari vincoli di carità apostolica, di ministero e di fraternità: il che viene rappresentato liturgicamente fin dai tempi più antichi nella celebrazione in cui i presbiteri assistenti all’ordinazione sono invitati a imporre le mani, assieme al vescovo che ordina, sul capo del nuovo eletto. […] Ciascuno dei presbiteri è dunque legato ai confratelli col vincolo della carità, della preghiera e della collaborazione nelle forme più diverse, manifestando così quella unità con cui Cristo volle che i suoi fossero una sola cosa, affinché il mondo sappia che il Figlio è stato inviato dal Padre” (PO 8). Ribadito nella Lumen gentium che, va ricordato, è una Costituzione dogmatica sulla Chiesa: “I presbiteri costituiscono con il loro vescovo un unico presbitèrio (unum presbyterium)” (LG 28). Unum presbyterium che «non è il ‘prodotto’ di particolari strategie di consenso di ‘tattiche’ di omologazione o di dinamiche corporativistiche, ma è il ‘frutto’ di una genuina spiritualità di comunione, creata dall’unità sacramentale del presbitèrio nella Chiesa. La comunione non si organizza, ma si genera. Il presbitèrio è un organismo, non una organizzazione» (F. Lambiasi, “La vita e la formazione permanente dei presbìteri”, in CEI, Assisi 10-13 novembre 2014 – Atti della 67a Assemblea Generale, Roma 2016, 34).

In un paragrafo significativamente intitolato “Non ci bastano i presbiteri, ci occorrono i presbitèri”, il vescovo Lambiasi scrive: «Pertanto il sacerdote non può agire da solo, ma sempre all’interno del presbitèrio, divenendo confratello di tutti coloro che ne fanno parte. Per i presbiteri è più importante essere a servizio della comunione che diventare “appaltatori di servizi”. È più importante vivere l’unità nel presbitèrio, che buttarsi da soli, a capofitto in un attivismo scriteriato e convulso» (F. Lambiasi, “Preti da ri-formare. Nell’orizzonte della riforma della Chiesa”, Orientamenti Pastorali Dossier LXIV/4 (2016) 5).

Il Concilio Ecumenico Vaticano II ci ha consegnato la nitida percezione che “Nessun presbitero è in condizione di realizzare pienamente la propria missione se agisce da solo e per proprio conto e se non unisce le proprie forze a quelle degli altri presbiteri, sotto la guida di coloro che presiedono la Chiesa” (PO 7). Il Concilio afferma che oggi, per le concrete situazioni storiche, è impossibilitata una missione presbiterale solitaria – seorsum ac veluti singillatim – scollegata da vescovo e da confratelli.

Giovanni Battista Montini, San Paolo VI, durante la Messa Crismale del 1961 nel duomo di Milano, esortava il suo presbitèrio: «Davvero si stenda fra di noi una rete di affezione, una nuova e più sentita e più solida e più espressa e più vera carità. Se mai uno spirito di isolamento (io faccio da me), uno spirito di indifferenza (che me ne importa degli altri?), uno spirito di pura osservazione (io sto a vedere gli altri), uno spirito di sufficienza (io non ho bisogno di alcuno) fosse in noi, sia sgombrato il nostro animo da questi arresti, da queste paralisi della carità e sentiamoci davvero quello che il Signore ha voluto che fossimo: fratelli. […] Dobbiamo far vedere che il Clero è unitissimo, che il Clero è compatto, che il Clero è esultante della sua solidarietà» (G.B. Montini, Discorsi e scritti milanesi (1954-1963) – III (1961-1963), Brescia 1997, 4245).

Se questa è la verità della Chiesa e del ministero, se l’ecclesiologia di comunione riconsegnataci dal Concilio è quella cattolica, universale, ecco perché lo “ius… solo” è uno dei nervi scoperti che fanno gemere maggiormente le nostre Chiese.

Ma, oltre quei casi eclatanti – e per grazia di Dio non comunissimi, dove il confratello fisicamente si esilia, taglia i canali comunicativi con i più (lasciandosi rare frequenze di trasmissione con qualcuno ancora non depennato dalla lista di proscrizione, vescovo compreso) – dove si rintraccia questo “ius… solo”? Dove fa capolino? Dove si materializza?

Certamente si riafferma, puntuale, quando snobbiamo gli incontri diocesani, foraniali, sia di carattere formativo che spirituale e conviviale: quando rifuggiamo dallo stare insieme, dal dialogare insieme, dal pregare insieme, dal mangiare insieme; quando si boicottano con sufficienza o con sdegno o con rabbia gli orientamenti pastorali della Chiesa, della regione ecclesiastica, della Diocesi. Quando si scaricano su altri confratelli generosi (che, più o meno segretamente, identifichiamo per fessi!), ciò che si percepisce pesante, fastidioso per sé e per i propri ritmi o implica scelte che hanno un prezzo che non intendiamo sborsare. Chi è cristiano e prete, sa quanto cristiano e “ministeriale” tutto questo non è.

 

È per la fede in Cristo Gesù che ci siamo dati al suo Vangelo, nella Chiesa e per la Chiesa.

È per la fede in Cristo Gesù che, con l’Apostolo delle genti, possiamo ripetere: “ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura/sterco, per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui” (Fil 3,8-9).

È per la fede in Cristo Gesù che, il giorno della nostra ordinazione presbiterale, testimone la Chiesa celeste e quella pellegrina sulla terra, alla domanda del Vescovo “Vuoi essere sempre più strettamente unito a Cristo sommo sacerdote, che come vittima pura si è offerto al Padre per noi, consacrando te stesso a Dio insieme con lui per la salvezza di tutti gli uomini?”, abbiamo risposto: “Sì, con l’aiuto di Dio lo voglio!”

Facciamo memoria di tutte e singole le parole grandi e sante ascoltate e pronunciate da ognuno di noi, il giorno della nostra ordinazione diaconale e presbiterale: esplicitano comunione, corresponsabilità, affidamento a Dio, obbedienza alla Chiesa, passione per il popolo di Dio che ci veniva con-fidato.

Facciamo memoria che questo è il tempo che il Signore ci dà da abitare come diaconi e presbiteri e proprio in quel presbitèrio che è il nostro: un tempo che non vedrà riedizioni né tempi supplementari. Un tempo, quindi, da vivere con tutta la serietà del credente. Con quella serietà e fede che Ignazio di Loyola quantificava nei termini noti: “Agisci come se tutto dipendesse da te, sapendo poi che in realtà tutto dipende da Dio”. Noi non possiamo latitare: la nostra assenza, neppure Dio potrà colmarla.

È il tempo favorevole per combattere spiritualmente ignavia, irresponsabilità, antipatie, giudizi e pregiudizi che possono deturpare – e assai dolorosamente – il dono che di noi abbiamo fatto a Dio e alla Chiesa.

Sì, proprio a Dio e alla Chiesa!

Senza l’apporto umile e generoso di tutti, il volto luminoso della Sposa di Cristo, la Chiesa, viene offuscato. Deprivata della presenza comunionale tra vescovo, presbiteri e diaconi, per Ignazio di Antiochia, la Chiesa cessa di essere tale: “Nulla facciate senza il vescovo e [siate] sottomessi al collegio presbiterale come agli apostoli di Gesù Cristo […] Tutti rispettino i diaconi come Gesù Cristo, onorino particolarmente il vescovo, che è immagine del Padre e i presbiteri quale senato di Dio e assemblea degli apostoli. Senza di essi non si può parlare di Chiesa” (Cc. 1,1-3,2; 4,1-2: 6,1; 7,1-8,1).

Ma, soprattutto, ci risuona in cuore la parola di Gesù: solo “da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri”.

Associandomi affettuosamente ad ogni Confratello nell’episcopato oso, fiducioso nella fede e nella disponibilità con cui avete risposto alla personale chiamata al ministero, fare nostre le parole che Sant’Ignazio di Antiochia rivolge ai cristiani di Tralle: “È necessario che ciascuno di voi, e soprattutto i presbiteri, confortino il vescovo ad onore del Padre di Gesù Cristo e degli apostoli”.

Ad ognuno di voi il mio abbraccio, la mia stima e la mia gratitudine incondizionata. L’Eucarestia che abbiamo grazia di celebrare diventi, per noi, fermento di rinnovata fraternità, allargamento degli spazi di carità, farmaco di immortalità.

Maria, Madre della Chiesa, tutti ci custodisca nella pace.

Di cuore

 

                                                                                          ✠ Mauro Maria Morfino