Messaggio per la Quaresima-Pasqua 2021 del Vescovo Mauro M. Morfino

Dal Rabbi adultero il viatico del “d’ora in poi”

Messaggio per la Quaresima-Pasqua 2021

 

Quel necessario “far male” quaresimale

Risuona ancora nella Chiesa e per la Chiesa, l’annuncio che il Vangelo di Marco consegna all’inizio della sua testimonianza: “Convertitevi e credete al Vangelo (euanghelion)” (Mc 1,15). In Gesù Cristo, il tempo ha raggiunto la sua pienezza e il Regno di Dio ha fatto irruzione, lì dove donne e uomini si muovono, vivono la vita, cercano senso.  Si può credere solo nel cuore: il luogo, nella Scrittura santa, non dei sentimenti, ma della decisione, del coraggio della scelta e della sequela, della responsabilità. La conversione è ri-orientare l’esistenza, scegliendo di assumere decisamente Dio e i suoi stili, dismettendo decisamente gli stili e le prassi della mondanità. La conversione è dare finalmente credito a Dio dando credito al Figlio Gesù, facendo proprie le sue preferenze, impersonando i suoi sentimenti, scegliendo ciò che lui predilige fino a poter umilmente e gioiosamente confessare: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me!” (Gal 2,20).

Ma non dobbiamo nasconderci che, molte volte, pensiamo di poter convertire i nostri stili di vita senza credere alla buona Notizia che è Gesù. Senza l’accoglienza del suo annuncio dirompente, però, cuore e prassi non cambiano. Senza sentirsi completamente avvolti da un amore pre-veniente, privo di calcolo e smodato, non riusciamo a fare alcun passo, non usciamo da noi stessi e non spendiamo nulla, o quasi, di noi, per Dio e per gli altri. Ai pescatori sulle rive del lago di Galilea (cf Mc 1,14-20), Gesù dice “Convertitevi credendo!”, cioè: “Fidatevi di me, datemi credito!”.

Ma all’orecchio di quegli uomini, come del resto dei più dei loro contemporanei, sentir parlare di teshuvah – “ritorno, inversione di rotta, conversione, ritorno sui propri passi” – significava decidersi di fermarsi, di rientrare nell’Alleanza di impegnarsi nell’osservanza della Legge. È certo che tale significato dato alla conversione, decidendo di cambiare costumi e riformare la propria vita, ha un grande valore morale. Ma sulle labbra di Gesù di Nazaret, lui buona Notizia, lui, volto dell’inconoscibile Padre, questo significato cambia. La Conversione cede il passo alla salvezza: si scambiano il posto! In Gesù, la salvezza irrompe come offerta generosa, gratuita, senza ragione, esagerata, eccessiva, sproporzionata da parte di Dio, strappando alla conversione il diritto di prelazione. La conversione c’è, ci sarà, non potrà non esserci, ma come risposta alla prevenienza della sproporzionata e traboccante salvezza. Proprio in questo consiste il lieto annuncio, il carattere gioioso della conversione evangelica.

L’affermazione “Convertitevi e credete” non significa dunque due cose diverse e successive, ma indica la stessa azione fondamentale: “Convertitevi: cioè credete!”. Sì: “Convertitevi credendo!”. La fede è la porta di entrata nel Regno. Ve lo scrivevo nell’Anno giubilare della Misericordia del 2016: “Se Gesù ci avesse detto: la porta è l’osservanza esatta di tutti i comandamenti, la porta è l’innocenza, la porta è la purezza, la porta è la pazienza, la porta è non sbagliare mai… avremmo potuto rispondere: «Signore è

tutto bellissimo e vero, ma io non ci riesco, non ne sono capace. Mi spiace… bello e impossibile!»”. Gesù, come porta di entrata nel Regno, ci indica la fede, il dargli credito, il fidarsi di lui.

Anche il cammino quaresimale di questo 2021, non riguarda il fuori, ma il dentro di ciascuno di noi: la sua meta è la Pasqua, vale a dire la promessa di futuro eterno che il Padre continua a donarci in Gesù Cristo. L’esortazione paolina, quasi un grido di allerta, “Lasciatevi riconciliare con Dio!” (2Cor 5,21), richiama ad un qui ed ora, ad una risurrezione che espande, fin dal presente, la sua forza e che tende alla sua pienezza, per la fedeltà di Dio. In questa Quaresima, ancora così pesantemente segnata dalla pandemia, veniamo reimmersi nella nostra scelta di credere: la sovrabbondanza della Parola e dei segni sacramentali, l’assiduità nella preghiera, nel digiuno e nelle opere buone, ci rimette ogni giorno di fronte all’agire di Dio nella nostra esistenza personale e comunitaria e ci fa fare memoria salutare che ciò che siamo è grazia! Una grazia che strappa dalla passività, che non ci esonera dalla scelta, dal metterci in questione, dall’assunzione di responsabilità.

Una conversione autentica fa male. Sempre. Ma libera. Sempre.

La Quaresima, per fiorire nella Pasqua, non si trastulla con delle idee, non gioca al ribasso, né staziona sul filo del rasoio negli stili e nelle scelte dis-ordinate, non si nutre di estetismi vagamente spiritualoidi, né si sazia di fumose progettualità di bene. Convertirsi è “morire con Cristo per risuscitare con lui”. È solo questo evento che porta a riformare, a tagliare, a cambiare. A ri-nascere. E ciò non potrà non far male. In Quaresima dobbiamo far male all’uomo vecchio che ci abita (cf Col 3,9-10). Se non ci asteniamo dal peccato e dall’egoismo, la Quaresima non entra nel cuore. Ma tale assenza sarà preludio certo di un’altra privazione, ben più luttuosa: quella della Pasqua! Tutti quei piccoli o grandi “digiuni” che non ci trasformano interiormente, nel cuore, non fanno fare Pasqua: “Laceratevi il cuore e non le vesti, ritornate al Signore vostro Dio” (Gl 2,12).

 

Condotti dalla Parola

La Liturgia di questo tempo forte della vita della Chiesa, ci accompagna sapientemente in questo rifacimento del cuore: il cammino di vera ri-appropriazione della verità di sé davanti a Dio, è sorretto dalla Parola, ne veniamo come immersi in essa. Momenti di particolare intensità, insostituibili per poter fare Pasqua, restano il Mercoledì delle ceneri e le Domeniche (quest’anno del ciclo B).

* Mercoledì delle ceneri: “Laceratevi il cuore e non le vesti!” (Gl 2,12). È l’invito esigente, ma indispensabile, a dismettere ogni forma di religiosità dell’apparenza e (ri)scoprire e (ri)vivere ciò che è essenziale: una vera relazione con Dio. Una relazione è vera quando, dentro, tira in ballo il cuore e, fuori, si dice con gesti e scelte concrete che esplicitino un concreto “ritorno a Dio”.

* Prima domenica di Quaresima: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino” (Mc 1,15). Dio si fa prossimo a noi in Gesù. In lui e attraverso lui, il Padre offre riconciliazione piena e duratura. L’evangelista presenta Gesù come nuovo Adamo che, capace di vera obbedienza al Padre, è anche capace di ricreare l’armonia originaria, diventando seme incorruttibile di umanità nuova.

* Seconda domenica di Quaresima: “Figlio amato!”. Nella figura di Abramo, deciso risolutamente a donare il figlio (Gn 22,1ss), è anticipato e simboleggiato il dono che Dio fa a noi: “Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!” (Mc 9,7). Solo permanendo in tale ascolto e contemplando la gloria del Figlio, si può mantenere saldo il passo verso l’altra altura: il Golgota.

* Terza domenica di Quaresima: “Non fate della casa del Padre mio un mercato! (Gv 2,16). Introducendosi decisamente nel cammino quaresimale, questa “purificazione del Tempio” fatta così irosamente da Gesù, è un esplicito monito a sfilarsi di dosso la maschera di ogni religiosità che amoreggia con l’ipocrisia. Colui che abita il Tempio, Dio, è sempre smisuratamente più grande e altro da ogni forma di religiosità.

* Quarta domenica di Quaresima: “Dio ha tanto amato il mondo, da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16). Dio è Fedeltà. In Gesù, il Padre ha detto la sua fedeltà ad ogni umano, a tutta l’umanità. Il luogo dove il giudizio salvifico del Padre si manifesta è la croce. Nel Figlio innalzato, s’infrangono il fallimento e ogni desiderio di vendetta, l’insuccesso e ogni lontananza da Dio.

* Quinta domenica di Quaresima: “Vogliamo vedere Gesù!” (Gv 12,21). Questo desiderio, espresso da alcuni greci ai discepoli del Nazareno, è l’esplicitazione concreta del desiderio che tiene desto il nostro cammino verso la Pasqua: incontrarlo, riconoscerlo, gioire di lui! Solo nella sua parola e nella sua persona possiamo incontrare il Padre. È l’attualizzazione della promessa antica: nell’ora in cui il Figlio “sarà innalzato”, tutti attirerà a sé. Certo, una ora paradossale, in cui tutte le realtà cambiano segno: morire è vivere, perdere è guadagnare.

* Domenica delle palme: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore!” (Mc 11,9). È il grido gioioso degli abitanti di Gerusalemme ed è anche il nostro grido che saluta e confessa il Cristo. La sua parola, la sua passione e la sua croce, svelano noi a noi stessi, sanano le nostre ferite, ci educano a desiderare i desideri di Dio, a far nostro il suo modo di essere. Essere cristiani significa avere e vivere i sentimenti di Cristo.

Nel corso di questi anni, nelle Quaresime vissute insieme, siamo stati accompagnati ed educati alla vita cristiana da alcuni testi evangelici che ci hanno consegnato alcuni tratti caratteristici ed essenziali dell’essere discepoli di Gesù: il Figlio di Dio lava i piedi ai suoi, donando, così, se stesso per loro (Gv 13,1-15); la consegna della sua identità di Messia alla Samaritana e al suo desiderio, mai colmo, di vita (Gv 4,1-42); la compassione inesausta di Gesù (Mt 9,35-10,5; Mc 5,25-28 e 10,46-52); come è solo dalla sua compassione che fiorisce la nostra fraternità (1Cor 13); la sua Passione smaschera ogni caricatura del volto del Padre e Gesù, per svelarlo in verità, non scende dalla croce (Mt 27,38-44); le tentazioni di Gesù nel deserto come possibilità di vita per noi: egli ha vinto per noi (Lc 4, 1-13); il Padre, che resta sempre Padre, di figli che mai smetteranno di essere trattati tali (Lc 15,11-32).

 

Una collocazione accidentata

In questa Quaresima del 2021 ci accompagnerà alla Pasqua del Signore, il racconto della donna adultera portata davanti a Gesù per essere condannata, pagina che troviamo in Giovanni 8,1-11. In verità, nel contesto attuale del testo, per scribi e farisei, il vero adultero della Legge è proprio Gesù. La sua interpretazione della Legge mosaica, alla luce della misericordia del Padre, lo rende, ai loro occhi, un pericoloso traditore e sovvertitore. La sua interpretazione è adulterina!

Nella liturgia quaresimale, la pericope è proclamata la quinta domenica del ciclo C e, ogni anno, nel lunedì della quinta settimana. Inevitabile e cospicua la sua proclamazione durante tante liturgie penitenziali.

È un testo con una storia complessa e la sua sorte è veramente curiosa e strattonata: da una parte le Chiese, quasi di ogni Confessione, lo dichiarano certamente testo canonico delle sante Scritture in cui è contenuta la Parola di Dio, ma, dall’altra, lo han vissuto come “scandaloso”, imbarazzante, certamente scomodo. Ai Padri orientali la pagina non è nota sino al medioevo mentre è attestata da un certo numero di codici latini. Al Concilio di Trento, parte dei padri conciliari è ancora perplessa nei riguardi del racconto dell’adultera rimandata, perdonata da Gesù, anche se lascia aperta la porta al dibattito circa la sua storicità.

La prima evidenza, leggendolo, è che non rientra nello stile giovanneo, ma piuttosto in quello di Luca, molto attento ai gesti di misericordia di Gesù. Tanto è vero che in alcuni manoscritti, il racconto è collocato ora nel quarto Vangelo, ora nel terzo, proprio per le molte affinità stilistiche e di contenuto. Molti commentatori troverebbero la giusta collocazione del racconto al termine di Luca 21, prima degli inizi del racconto della Passione. Probabilmente, proprio perché Giovanni ha una particolare attenzione alla figura femminile nel suo Vangelo, facendola protagonista di pagine uniche – si pensi a Maria a Cana, alla Samaritana al pozzo, alle sorelle Maria e Marta a Betania, a Maria ai piedi della croce, a Maria di Magdala dopo la risurrezione – il testo dell’adultera è stato incastonato lì dove ora si trova. Certo è che Gesù ha affidato molto della sua rivelazione del Padre a colloqui e incontri con delle donne.

In realtà, questo “meteorite” lucano si è ben inserito nel tessuto narrativo dove ora si trova e va letto come parte integrante e coerente del Vangelo giovanneo. Letta in obbedienza al canone delle Scritture, che pone il racconto dell’adultera all’inizio del capitolo 8, nel contesto di una discussione sul rapporto tra Legge e peccato, la pagina acquista tutta la sua eloquenza.

Gli esponenti delle Istituzioni, scribi e farisei, non nascondono il desiderio di togliere di mezzo questo scomodo Rabbi che li aveva invitati a giudicare con giudizio giusto, impegnandosi in prima persona a vivere la Torah, smettendola di giudicare secondo le apparenze (Gv 7,19-24), Di più: ai farisei, duramente ribatte: “Voi giudicate secondo la carne; io non giudico nessuno” (Gv 8,15). Ora, proprio per la sua collocazione, il racconto diventa un’icona luminosa della giustizia e della misericordia di Gesù verso chi ha gravemente peccato. Il suo agire appare così in totale contrasto con il giustizialismo sommario dei suoi antagonisti. Giustizialismo, tra l’altro, non conforme alla Legge. Poco prima (Gv 7,50), è Nicodemo ad interrogare gli esponenti dei giudei su quella stessa prassi messa sotto giudizio da Gesù in 8,1-11: “La nostra Legge giudica forse un uomo prima di averlo ascoltato e di sapere ciò che fa?”. Gesù, nel caso di questa adultera, sta mettendo pesantemente in questione il procedere giuridico e morale di coloro che invocano l’autorità della Legge: voi non ascoltate! Né la donna, né la Legge, né me.

Gesù impersona la giustizia che è tutta tesa al recupero del peccatore, mentre il gruppo di esagitati che strattonano l’adultera, non distinguono tra peccato e peccatrice che, per essi, rappresenta un tutt’uno da eliminare. La scena cristallizza la vocazione di ogni persona umana che è chiamata a prendere in seria considerazione il proprio peccato davanti a Dio, il solo giusto. Così giusto da voler recuperare, sempre, chi ha peccato. Così giusto da non confonderlo e identificarlo, mai, con il suo peccato. Sant’Agostino, commentando questo testo, dirà: “Relicti sunt duo, misera et misericordia – Sono rimasti in due, la misera e la misericordia” (In Joh. 33,5). La misera non è la miseria fatta persona. È solo… misera. Lei, davanti alla Misericordia, può non temere di essere identificata con ciò che di grave ha commesso. Sì, la giustizia di Dio racchiude in se stessa il perdono: proprio per questo, di fronte al peccato, Gesù fa giustizia perdonando.

 

1 Gesù si avviò allora verso il monte degli Ulivi. 2 Ma all’alba si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui ed egli, sedutosi, li ammaestrava. 3 Allora gli scribi e i farisei gli conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala nel mezzo, 4 gli dicono: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. 5 Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». 6 Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo. Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra. 7 E siccome insistevano nell’interrogarlo, alzò il capo e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei». 8 E chinatosi di nuovo, scriveva per terra. 9 Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi. Rimase solo Gesù con la donna là in mezzo. 10 Alzatosi allora Gesù le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». 11 Ed essa rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù le disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più».

 

L’architettura del nostro testo è semplice e, rappresentarla, può aiutare nella lettura e nella comprensione, così da diventare nutrimento per la vita, nell’ascolto e nella preghiera:

  1. 1-2: è presentato il luogo – il Tempio – e i personaggi. Mentre Gesù sta insegnando, scribi e farisei scaraventano “nel mezzo”, proprio come un oggetto, la donna;
  2. 3-7a: all’accusa spietata contro una “donna come questa” e all’attesa nervosa di scribi e farisei che esigono una sentenza esemplare, è contrapposto un Gesù silenzioso, non partecipe nell’immediato, tanto da tracciare segni per terra;
  3. 7b-9: al capzioso quesito postogli da scribi e farisei, Gesù risponde con una sentenza del tutto inattesa che smonta la baldanza degli accusatori che, uno ad uno, lasciano la scena;
  4. 10-11: il dialogo tra Gesù e colei che viene identificata gentilmente come donna, ri-crea in lei una nuova opportunità di vita. Brevissimo, luminosissimo dialogo: oltre la riconosciuta, inalienabile dignità della persona – donna – confermata da Gesù, rimbalza anche la medesima identità del Maestro: giusto, obbediente alla Legge del Padre e, al medesimo tempo, fedele al Vangelo di misericordia da lui proclamato.

 

Il Tempio scosso

Il ministero pubblico di Gesù, nel quarto Vangelo, inizia in due luoghi diversi e distanti: il segno delle nozze di Cana (Gv 2,1-12) e la cacciata dei venditori nel Tempio (Gv 2,13-22). Mentre a Cana vi è l’epifania della gloria di Gesù, nel recinto del Tempio avviene una rottura violenta con le istituzioni di Israele che appaiono, in quel frangente, svuotate, irrecuperabili e ingombranti. Svuotate di senso proprio come quelle sei mastodontiche giare vuote, approntate “per la purificazione dei giudei” (cf Gv 2,6). Fin dalla cacciata dei venditori nel Tempio, il ministero di Gesù entra in collisione di rotta con le istituzioni di Israele; le parole e i gesti di Gesù disturbano non poco l’establishment, che si sente pesantemente posto in questione. Il quarto evangelista evidenzia come Gesù metta in discussione il senso vero delle feste e delle istituzioni di Israele: la guarigione del paralitico avviene durante lo Shabbat (Gv 5,14), la spiegazione delle Scritture durante la festa di Sukkot (Gv 7,14ss) e, nel cuore della festa di Chanukkah, la Dedicazione del Tempio, inizia a esplicitare la sua missione (cf Gv 10).

Collocare il racconto dell’adultera colta in flagrante nel recinto del Tempio, significa che Gesù, venuto a stretto contatto con questa istituzione, la sta ponendo in discussione: le modalità dei maestri accreditati nel Tempio, camminano ormai lontane dalle intenzioni del Padre. Il Tempio è scosso dalle fondamenta. Cadrà. Perché il Tempio, se è, come è, il luogo tipico dell’incontro tra l’umano e il divino, può solo additare e custodire la vita, mai la morte, che è opera del Maligno.

È, e resta vero, che nel luogo santo per eccellenza, dimora della divina Shekinah, della presenza di Dio, non c’è e non ci può essere posto per il peccato. Ma è altrettanto vero che, proprio la divina Shekinah è lì precisamente per accogliere il peccatore pentito. Per restituire alla vita.

 

La Donna esposta

Fa impressione la collocazione della donna sulla scena: l’espressione greca è cruda: “messa davanti a tutti”, in mezzo. Esposta. La sua identità non riveste alcun interesse e neppure nessuna delle sue possibili caratteristiche o qualità. Semplicemente è colei che è stata “colta in adulterio”. È stordente, per il lettore, la brutalità dei suoi accusatori, la violenza morale usatale, il fare scempio del suo sbaglio, l’essere silenziata senza che possa aprire bocca, l’essere sfruttata come oggetto contundente contro Gesù, la latitanza di ogni benché minima difesa… Come anche è assordante il silenzio del suo complice, colui che ha consumato con lei l’adulterio: per la Legge, anche costui doveva subire la medesima pena (cf Dt 22,22). Invece, solo lei è trascinata lì per essere condannata. Anche del marito (o fidanzato) non vi è traccia. Connivente con gli accusatori? Nessuna intenzione di difenderla? Lui stesso ingaggiato in scorribande extraconiugali? Alcuni commenti patristici spiegano tali assenze affermando che, in fondo, c’è poco da scandalizzarsi: si sta raccontando la storia dell’Israele infedele, che ha avuto tanti, tanti  amanti! Altri Padri e scrittori ecclesiastici scorgono nella donna quell’Israele che sta dando retta al Rabbi di Nazaret – proveniente da quella Galilea che mai ha visto sorgere profeti (cf Gv 7,52) – abbandonando la collaudata e intangibile Legge mosaica. È con lui, con Gesù che l’Israele/donna fedifraga sta peccando: per questo, scribi e farisei, vogliono lapidare, in realtà, entrambi (come alla fine del c. 8, di fatto, avverrà: Gv 8,59).

C’è una violenza omicida insita nel fanatismo, nell’osservanza letterale della legge, nel sentirsi custodi e difensori ineccepibili, unici – e per mandato divino – dell’ortodossia.

C’è una violenza omicida che si attiva quando si smette di guardare la persona, di considerarla e accoglierla come tale, anche se macchiata di vera, grave, oggettiva colpa.

C’è una violenza omicida che si attiva quando cediamo all’atroce spettacolarizzazione delle colpe e dei peccati. Altrui. Quando spudoratamente o velatamente, accendiamo i riflettori su debolezze, incongruenze, cedimenti di stile. Altrui.

C’è una violenza omicida che si attiva quando siamo così pervasi dalla convinzione di essere i portatori esclusivi della verità, i soli ad averla in dote o in tasca, che ci predispone – quasi naturalmente – a dividere il mondo tra buoni e cattivi, tra civili e incivili, tra chi merita e chi no.

C’è una violenza omicida che si attiva quando ci consegniamo a corpo morto al diffuso clima – mediatico, ma non solo – della superficialità: facciamo nostre mille buone ragioni, diventando così… onesti accusatori! Di tutti e di tutto.

C’è una violenza omicida che si attiva quando non riusciamo a sospingere la legge fuori dagli spazi sacri, oltre le paratie del noto e dello scontato, perché intrecci i percorsi reali della vita e delle vite, lì dove c’è sete di verità e di liberazione.

C’è una violenza omicida che si attiva quando il giudizio si consuma affrettatamente, quando viene emesso da giudici “distratti” o ripiegati su loro stessi o troppo intenti a prendere le misure di tutti e di ciascuno.

C’è una violenza omicida che si attiva quando amiamo umiliare, impegnando energie per far sentire altri senza dignità, senza diritto di rispetto, sazi solo di punizioni da dare, di sanzioni da comminare, di difetti da estirpare.

C’è una violenza omicida che si attiva quando la comunità cristiana perde la memoria di essere “casta meretrix”, compagine casta e insieme peccatrice e “immaculata ex maculatis”, comunità senza macchia, pur accogliendo, in sé, uomini e donne macchiati di peccato (Ambrogio di Milano).

Una violenza omicida che Gesù vuole spezzare. Lo farà in silenzio, con un semplice, magnifico, eloquentissimo gesto: la donna, che era stata collocata in piedi davanti a Gesù seduto, mentre ammaestra, e che ha alle spalle i suoi accusatori con le pietre pronte nelle mani, vede Gesù chinato a terra di fronte a lei. Dalla posizione seduta, il Maestro passa a quella di chi si china verso terra. Ma in questo modo Gesù si inchina di fronte alla donna che è in piedi davanti a lui.

Gesù sembra essere preoccupato solo di una cosa: salvaguardare la relazione con quella adultera, che resta, per lui, sempre persona-donna. È solo in funzione di lei che deve essere amministrata la giustizia. L’attitudine di Gesù ci mette di fronte ad una misericordia unilaterale: questo è il peculiare agire di Dio. Lo stile di Gesù esige ed insiste che guardiamo gli altri con profondità, non distrattamente, non con supponenza, non con presunzione e arroganza. La misericordia e non la condanna è la parola di Dio sulla infedeltà. Rigidità, fanatismo e durezza appartengono al cuore di chi non conosce Dio.

Perché allora, anche tra noi, persiste il piacere sadico di vedere umiliato e annientato, costi quel che costi, chi ha sbagliato?

 

Il Rabbi adultero

I capitoli 7 e 8 del quarto Vangelo narrano della presenza e dell’insegnamento di Gesù nel Tempio a Gerusalemme durante la festa delle Capanne. In questo contesto sono riportati i commenti di chi indica il Nazareno come autentico profeta e di chi, invece, trama per toglierlo di mezzo e ucciderlo. Nella scena della donna adultera condotta a Gesù, si coagula la polemica montante contro di lui. Alla fin fine, il vero imputato è Gesù, è lui il vero adultero della Legge.

Per la sensibilità religiosa di Israele, l’adulterio è uno dei casi drammatici, una ferita insanabile inferta al vincolo matrimoniale. Soprattutto perché, tale vincolo, è stato il paradigma per eccellenza attraverso cui, Dio, sposo fedele di Israele, si è reso conoscibile e prossimo nella storia della salvezza, fin dal suo in-principio: “Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò” (Gn 1,27). Non si può dimenticare, poi, come i profeti insistano senza sosta, identificando adulterio con idolatria e, per contro, cantino l’alleanza tra Dio e Israele proprio con la metafora del patto nuziale: privo di crepe e di inquinamenti, inscindibile, indissolubile, incontaminato (cf Osea 3; Ezechiele 13; Geremia 2-3).

Per cogliere qualcosa di Dio in questa dimensione umana, per Israele nulla esiste di più eloquente della metafora matrimoniale. Spezzare il vincolo matrimoniale, specchio fedele del riflesso di Dio e sua insostituibile icona, e proprio perciò sacro e inviolabile, significa non poter più godere della sua stessa identità, mistero capace di coniugare le diversità e di associare le differenze. Tutti coloro che infrangono il patto matrimoniale, alterano e contaminano la possibilità di scorgere Dio stesso. È bandire Dio, silenziarlo, oscurarlo. Ecco perché coloro che si macchiano di un tale peccato devono essere estirpati dalla comunità di Israele. Sia Deuteronomio 22,22 che Levitico 20,10 lo affermano inconfutabilmente. Si comprende, allora, la durezza della pena prevista: l’adulterio è una smentita del piano creazionale di Dio e, insieme, una grave contraddizione con l’alleanza.

Ecco perché, scribi e farisei, messe letteralmente le mani addosso alla donna colta in flagranza di reato, la pongono in mezzo, sotto lo sguardo di tutti, lì dove Gesù parlava e insegnava e chiedono un suo giudizio, inchiodandolo alla Torah che comanda la lapidazione per tale crimine: “Mosè ci ha comandato di lapidare donne come questa (v. 5). Ma “dicevano questo per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo” (v. 6). Sotto processo, dunque, è Gesù. La donna, come già detto, viene semplicemente usata, appare tragicamente come un oggetto che, per la situazione in cui si è venuta a trovare, può diventare un utile espediente per incastrare Gesù.

Il “metterlo alla prova” è una situazione ricorrente nei racconti evangelici (cf Mc 12,10; Lc 202,20; Mt 16,1; 19,3; 22,15.35): scribi e farisei, esperti della Legge, della sua interpretazione e della sua applicazione, lo insidiano per porlo contro la Legge. Senza dimenticare che, proprio costoro, scribi e farisei, sono anche molto, molto infastiditi per il crescente successo del giovane Rabbi… Comunque, se è vero che Gesù ha messo in discussione molte delle istituzioni di Israele come si diceva sopra, mai egli ha messo in discussione la Legge di Mosè. Di più: proprio lui, il Rabbi di Nazaret, ha ribadito, e con forza, l’indissolubilità del matrimonio, chiudendo la porta ad ogni possibilità di divorzio (cf Mt 19,1-9; Mc 10,1-9; Lc 16,18). E questo dato, i dottori della Legge, l’hanno ben registrato. Se questo, dunque, è un punto fermo per il giovane maestro galileo, allora il suo giudizio sulla donna che mette in pericolo, con la sua infedeltà, la stessa immagine umanamente decifrabile di Dio, non potrà che essere severo e implacabile. Esemplare secondo la Legge.

“Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?” (v. 5).

Il pensiero dei rappresentanti della Legge è questo: fino ad ora hai disquisito e insegnato e ti è andata molto bene, imbambolando tanta gente e tirandotela dietro. Ora devi giudicare! E vediamo come te la cavi, perché, o una parte o l’altra, resterà ben scontenta del tuo verdetto. Tu che predichi il perdono di Dio, la remissione dei peccati, che dici di essere venuto a cercare i peccatori e non i giusti (Mc 2,17), da che parte ti schieri in questo caso evidente ed eclatante? Scandaloso?

Il caso dell’adultera, per loro, appare una ingegnosa trappola contro il Maestro che, come suggerito, è il loro vero obiettivo. La donna adultera, suo malgrado ostaggio in mano di costoro, diventa lo strumento di verifica sia della coerenza e credibilità della predicazione di Gesù, sia della sua ortodossia e fedeltà alla Legge mosaica. Il tranello è ben congegnato e quasi “ingenuo” (!): se fa il duro, approvando l’esecuzione, manda all’aria tutte le affascinanti parole che ha sciorinato, come anche si affloscerebbe la sua prassi di misericordia incondizionata verso veri manigoldi e disgraziati, sintetizzata da quell’inaudito “non giudicare” (Gv 8,15). Così, finalmente, peccatori e prostitute, pubblicani e avventurieri di ogni tipo, si sentirebbero scaricati. Se, invece, non ratificasse la condanna, dissociandosi dalla lapidazione, lui stesso si porrebbe contro la Legge, trasgredendola. Lui stesso sarebbe adultero. Altro che Rabbi! Uno scandalo colossale. Sì, la posta in gioco, è alta: l’adempimento di quella Legge che Dio ha consegnato a Mosè perché Israele la compisse.

Per scribi e farisei, se qualcuno trasgredisce la Legge, l’unica soluzione lecita resta l’eliminazione del trasgressore. Solo così ci sarà emendamento e redenzione. Solo così è ristabilita la giustizia e la verità. Peccato e peccatore, perciò, coincidono. Non estirpare il peccatore di mezzo al popolo significherebbe lasciare impunito il peccato, permettendogli altra contaminazione.

Per Gesù, attento più alle persone concrete che ai paradigmi morali, agli schemi giuridici e alle convenienze istituzionali o tradizionali, la strada è un’altra. Nessuno come lui ha chiara percezione della Legge data da Dio a Mosè: “Sta scritto… sta scritto… è stato detto” (cf Lc 4,4; 8; 12); “Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento. In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, neppure un iota o un apice della Legge passerà” (Mt 5,17-18). Soprattutto “nessuno conosce il Padre come il Figlio” (Mt 11,27). Il testo Tentazioni benedette che ci ha accompagnato nella Quaresima-Pasqua del 2019, ci ha aiutato a contemplare l’obbedienza del Figlio Gesù al Padre che è nei cieli. È da questa conoscenza e obbedienza che Gesù, avvicinando la donna adultera, percorre un’altra strada: distingue tra peccato e peccatore. Per Gesù, tutta la Legge e ogni legge divina è a favore, a beneficio, a salvezza della persona umana. Anche un’imboscata come questa, Gesù riuscirà a trasformarla in un incontro umano e umanizzante.

“Chiamato a scegliere tra la Legge e la misericordia, Gesù sceglie la misericordia senza mettersi contro la Legge, perché sa distinguere il peccato dal peccatore. La Legge è essenziale quale istanza in grado di rivelare il peccato; ma una volta infranta la Legge, di fronte al peccatore concreto deve regnare la misericordia! Nessuna condanna, solo misericordia: qui sta la grandezza e l’unicità di Gesù. Infatti, ogni volta che Gesù ha incontrato un peccatore lo ha assolto dai suoi peccati e non ha mai praticato una giustizia punitiva; ha esortato con forza, ha pronunciato i «Guai!» in vista del giudizio (cf Mt 23,13-32; Lc 6,24-26), ma non ha mai castigato nessuno: egli infatti sapeva distinguere tra la condanna del peccato e la misericordia verso il peccatore, distinzione che a noi riesce così difficile” (E. Bianchi).

 

Disegno e attesa

Dinanzi alla richiesta perentoria di scribi e farisei di emettere la sua sentenza sulla donna adultera, egli, senza proferire parola, “si mise a scrivere col dito per terra” (v. 6). Questo gesto silenzioso, simbolico-profetico di Gesù, attrae l’attenzione di ogni lettore ed impone ad ogni commentatore del quarto Vangelo, di spendere preghiera, studio e tempo prima di passare oltre.

Più che incaponirsi a sapere cosa Gesù scrivesse per terra, è il gesto stesso di Gesù, ripetuto due volte (vv. 6-7), a dover essere compreso. Se, per la comprensione del racconto, fosse stato necessario indicare cosa Gesù stesse tracciando per terra con il suo dito, l’evangelista stesso si sarebbe soffermato ad indicarlo. Altro, invece, deve attirare l’attenzione. Il verbo usato dall’autore per indicare tale scrizione è katagrapho, che significa scrivere, graffiare, disegnare. Probabilmente è quest’ultima accezione che il narratore intende prediligere.

La scena è questa: Gesù è ritratto in una postura solenne, è seduto e insegna; la donna è al centro e, dietro di sé, gli accusatori pronti a lapidarla. Prendono la parola per accusare la donna e domandare a Gesù di dare la sua sentenza. E questi col dito, disegnava per terra. Gli accusatori della donna non demordono: vogliono una risposta. Gesù, a questo punto, e solo ora, senza rispondere a tono, indica loro ciò che è possibile fare se si ostinano per la soluzione che, evidentemente, hanno già deciso di intraprendere: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei” (v. 7). E chinatosi di nuovo disegnava per terra. Gesù non dà immediata risposta alla domanda di esternare una sentenza sulla donna. Disegna per terra. È importante notare che, nel quarto Vangelo, la partecipazione e la consapevolezza che Gesù ha di sé e di chi ha intorno, è sempre elevata e ben registrata. In questo caso viene, invece, registrata la sua reticenza nel dare risposta alla domanda di scribi e farisei. Gesù prende tempo, è riluttante. Chi lo interroga parrebbe esigere una sentenza-lampo, su due piedi. Gesù disegna per terra. Al reiterato invito a parlare, Gesù non sentenzia, ma dà il via libera solo a chi è senza peccato e scagliare per primo la pietra. E disegna per terra.

La scelta di Gesù è evidente: egli vuole non rispondere e non aprire un canale comunicativo con coloro che si sono presentati “per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo” (v. 6). Sono mossi dalla malizia e della pretestuosità, da null’altro. La loro interpretazione della Legge è agli antipodi dei parametri del Nazareno. E Gesù, per sottrarsi, mette in atto la tecnica efficace del silenzio, della pensosità, del non dar loro credito, del tirarsi fuori, del prender tempo. Li snobba. E, soprattutto, non ha alcuna intenzione, in quel frangente, di svolgere il ruolo di giudice così come i tali pretendono (giudice, per di più, in quota scribofarisea!). Era l’unico a potersi realmente assidere sullo scranno giudiziale. Non lo farà: “non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo” (Gv 12,47); “voi giudicate secondo la carne; io non giudico nessuno” (Gv 8,15); e quando giudico “il mio giudizio è veritiero, perché non sono solo, ma sono io con il Padre che mi ha mandato” (Gv 8,16). È evidente: è la stessa presenza di Gesù ad essere discriminante. Il giudizio, in fin dei conti, non è altro che l’auto-giudizio che ogni persona umana pronuncia su di sé, rifiutando di dar credito alla Parola che è Gesù. Sottrarsi alla sua forza benefica e salvifica di lui, rinchiude, dolorosamente, nel proprio peccato.

Anche il gesto ripetuto di Gesù di abbassarsi, disegnare/scrivere, rialzarsi e di nuovo riabbassarsi, attira l’attenzione e ha una sua eloquenza. Attende che scribi e farisei applichino ciò che ha appena indicato di fare e cioè “chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei” (v. 7). Gli accusatori, in fondo, non esigono altro da Gesù che una condanna di morte della donna, applicando, sine glossa, la Legge mosaica. Egli, invece “risponde con un giudizio più autentico: nessuno che si trovi ad essere trasgressore della legge può diventarne difensore e l’interprete autentico […] Se anche io sono trasgressore, non posso lapidare il mio fratello, perché anch’io subirei la stessa sorte. Il peccato rimane tale nella sua malizia intrinseca, ma il peccatore si ritrova capace di comprendere la bontà della legge divina che non condanna nessuno, ma a tutti chiede di essere obbedita” (M. Girolami).

Scribi e farisei ricordano che la Legge di Mosè è scolpita e scritta su tavole di pietra. Gesù “scrive” su quella terra di cui ognuno è fatto… Se la Legge non è inscritta nella carne, negli anfratti contorti delle precarie vite umane segnate dalla fragilità, dalla debolezza, dal peccato, la Legge uccide (cf 2Cor 3,6). Non a caso è detto che Gesù scrive “con il dito”, così come la Legge di Mosè fu scritta nella pietra “dal dito di Dio” (Es 31,18; Dt 9,10). Sulla polvere, come allora sulla pietra, è il medesimo “dito di Dio” a indicare i sentieri di vita.

Un’altra interpretazione di questo duplice chinarsi e rialzarsi di Gesù, credo debba tenersi in considerazione. Si tratterebbe di un gesto simbolico-profetico che allude alla duplice salita e discesa di Mosè sul monte Horeb dove riceve le tavole della Legge. Quella duplice “scrittura” del Nazareno, si riferirebbe così alla doppia redazione delle tavole della Legge, al primo mattan Torah, il dono della Legge e, al secondo, dopo la frantumazione delle prime, come si ricorda Esodo 32-34 (L. Manicardi)

Un’ulteriore valenza simbolica del movimento abbassamento-innalzamento di Gesù, si può riferire al suo chinarsi verso la polvere della terra, guardando e “toccando” la fragilità umana per farla sua, portandola con sé in quello che sarà il suo innalzamento verso il Padre. È la kenosis/abbassamento  del Figlio (cf Fil 2) che si china giù, giù fino alla polvere del peccato.

Anche se resta vero, come dicevo, che nell’economia globale del testo, per la sua comprensione, è indispensabile cogliere il senso fortemente simbolico, ma anche squisitamente educativo (e tattico), di quel chinarsi/disegnare/rialzarsi/parlare/disegnare – dove la parola pronunciata da Gesù giunge solo sul finale, in quarta posizione – tuttavia non si può passare sotto silenzio la ricchissima interpretazione, quasi bimillenaria che, affascinata da quello “scrivere” di Gesù, con il dito, per terra, ha cercato di decifrare cosa egli scrivesse. Tenere insieme questi frammenti luminosi con quanto detto sopra, arricchisce e illumina la comprensione del testo.

C’è chi riconosce nell’azione di Gesù, l’uso legato al diritto romano, secondo cui ogni giudice, prima di emettere la sentenza, doveva metterla per iscritto.

Molti commentatori, rifacendosi a svariati testi biblici, formulano diverse supposizioni. Ne ricordo, a mo’ di esempio, solo qualcuna:

– “scrivere sulla sabbia” potrebbe indicare l’inconsistenza sia delle accuse di chi conduce la donna adultera a Gesù, sia le trasgressioni dell’accusata;

– perché Esodo 23,1 vieta la falsa testimonianza e Esodo 23,7 impone di non uccidere l’innocente con le parole, la donna adultera verrebbe considerata vittima di una macchinazione perpetrata dai suoi accusatori;

– se ciò che Gesù scrive per terra sono i peccati degli accusatori, si rifarebbe a Geremia 17,13: “Quanti si allontanano da te saranno scritti sulla terra, perché hanno abbandonato il Signore, fonte di acqua viva”. Sarebbe questa un’accusa molto dura, perché significherebbe che, scribi e farisei sono, ormai, così lontani dalle vie di Dio – pur frequentando senza sosta le Scritture – da essere inconsistenti, volatili, come i nomi scritti sulla polvere. Così interpretano, tra gli altri, Agostino, Girolamo, Ambrogio;

– sempre Ambrogio, in Gesù che scrive, rintraccia Geremia 22,29-30: “terra, terra, scrivi questi uomini rinnegati”; come anche il testo di Matteo 7,3: “perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio?”.

 

Impeccabile chi?

La lapidazione è una tragica carneficina. Per attutire il coinvolgimento della responsabilità del singolo e ridurlo al minimo, una scarica simultanea di pietre risulterebbe essere il metodo migliore, così che nessuno possa individuare chi ha lanciato quella fatale. Sarebbe l’antidoto migliore per deresponsabilizzare il carnefice e sollevarlo dal peso tragico del suo operato. Tutti assassini, nessuno assassino. Ma la normativa impone un capofila (cf Dt 13,9-10). Nel centro di questo consesso di morte, sempre la donna esposta, terrorizzata.

È in questo clima che Gesù prende, finalmente, la parola. Parola che arriva, come abbiamo visto, dopo il silenzio, la non voluta attivazione di canali comunicativi, la duplice scrizione per terra, con i gesti simbolici del piegarsi e dell’alzarsi. È quello spazio per la resipiscenza che Gesù ha tenuto spalancato e offre agli accusatori.

Abbiamo visto lo svolgersi della scena e come Gesù riesca a far cadere dalle mani degli accusatori spietati, le pietre per la lapidazione della donna adultera. Lo ha fatto con l’unico modo possibile: facendoli diventare consapevoli del loro proprio peccato personale: “chi di voi è impeccabile – anamartetos – per primo scagli la pietra contro di lei” (v. 7). Anamartetos è un termine che, nel Nuovo Testamento, appare solo qui. Gesù, per dare inizio al macabro rito, fa appello a colui che si reputa impeccabile: solo chi si ritiene immune dal peccato può avere il diritto di lanciare, per primo, la pietra. Solo a chi fa memoria del proprio peccato, si può sfilare l’arma di mano. Diversamente, ucciderà. Agostino d’Ippona così commenta: “Questa parola di Gesù è eloquenza della giustizia: si punisca la peccatrice, ma non la puniscano i peccatori; si adempia la Legge, ma non la adempiano coloro che violano la Legge” (In Joh. 33,5).

Il Maestro costringe quel manipolo religioso, fanatico e violento, a passare da una questione di diritto penale ad una responsabilizzazione personale, del cuore. “Chi di voi è impeccabile, per primo scagli la pietra contro di lei” significa “lasciate cadere di mano quelle pietre che, altro non sono, che l’immagine della vostra durezza ipocrita; lasciate che il vostro cuore senta la paura come la sta provando questa donna, provate fino in fondo la paura di essere scoperti anche voi adulteri, ipocriti. Peccatori”.

Questo è il tempo opportuno per noi cristiani di questa santa Chiesa di Alghero-Bosa, di ascoltare il Signore! Per acquisire una coscienza più nitida, più consapevole del male che ci abita e che può strangolare la gioia e la vita. Chi non ha qualcosa da perdonare, da perdonarsi, da farsi perdonare? Alla spocchia e alla superiorità, devono cedere il passo umiltà e compassione.

Gesù sgretola, con la sua parola, la presunzione di sicurezza di coloro che ha intorno. Egli è pienamente d’accordo con loro circa l’obbligatorietà della Legge che impone al testimone principale di essere il primo a scagliare la pietra su chi ha violato l’alleanza (cf Dt 13,9-10 e 17,7). Tuttavia aggiunge che, per lanciare quella pietra, il tiratore deve essere anamartetos, senza peccato. La donna sarà quello che sarà, ma coloro che l’accusano, certamente non sono impeccabili. Perciò nessuno di loro, proprio nessuno, ha titoli ed autorità per dare inizio alla lapidazione. L’unico impeccabile è Gesù, che ha l’autorità per condannare, ma non condanna. Nella macchinazione messa in piedi da scribi e farisei per metterlo alla prova e trovarlo in fallo circa la sua adesione alla Torah, Gesù conferma la sua prassi salvifica e misericordiosa verso i peccatori. Ma straordinaria è anche la delicatezza con cui Gesù tratta anche scribi e farisei: come abbiamo visto, Gesù abita il silenzio, non si scaglia contro di loro che, da tutto il contesto, vengono fotografati senza alcun segno di autocritica. Li sprona semplicemente a guardarsi dentro, ad ascoltare la propria coscienza.

Gli accusatori se ne vanno: a iniziare dagli anziani, tutti lasciano la scena. Nessuno è senza peccato, tutti sono segnati dalla fragilità, tutti hanno il cuore ferito da scelte non vere, non trasparenti, non buone. Tutti costoro, e proprio in quel momento, oltre il proprio fardello personale di peccato, sono accomunati da una libidine religiosa che prende il volto della durezza e della violenza irragionevole.

Se ne va via quel mondo vecchio, quei rappresentanti di una interpretazione distorta della Torah, quegli scribi e farisei che non riescono più a cogliere l’intenzione prima della Torah stessa: dono di Dio per la salvezza di tutti e di ciascuno. Se ne va quella fascia di età che inizia ad avere una percezione più nitida del proprio peccato. Resta colei che doveva essere giustiziata da quella falsa interpretazione della Torah. Ella potrà vivere il suo domani, grazie alla parola di Gesù e alla interpretazione, come Dio vuole, della Legge. Resta quel Gesù che, proprio a conclusione del medesimo capitolo abitato dalla donna adultera, sarà rincorso da altri lapidatori che “raccolsero pietre per gettarle contro di lui” (8,59).

 

La grazia del “d’ora in poi”

Al capolinea del testo si spalanca l’orizzonte: colei che era stata presentata a Gesù come bubbone marcio e cancro da estirpare (cf Dt 17,7; 19,19; 21,21), oggetto anonimo e senza diritto di parola, viene finalmente considerata e chiamata in causa. Gesù le riserva il titolo di donna. Così come si è rivolto a sua madre, a Cana e ai piedi della croce (Gv 2,4; 19,26), alla Samaritana (Gv 4,21), a Maria di Magdala il mattino di Pasqua (Gv 20,15). È la restituzione piena della sua verità e della sua dignità. Sarà stata anche adultera e potrebbe aver avuto un corredo cospicuo di fragilità, ma resta donna. Gesù riconosce che la sua dignità non è circoscrivibile, come per nessuno, nel suo peccato. Per i suoi accusatori, al contrario, era solo adultera, era solo peccatrice. Coloro che l’hanno strattonata, trascinandola fin davanti a Gesù, non hanno voluto sentire nulla da lei e nulla le han chiesto. Il primo a rivolgerle la parola e a volerla ascoltare, è Gesù: “Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?”. Gesù le fa credito, le consegna il ricordo di uno sguardo comprensivo, non duro, non fanatico, non arrogante, non sprezzante; le lascia il gesto rispettoso del suo alzarsi in piedi davanti a lei e di quell’appellativo, donna, “signora”, così carico di possibilità, di futuro, di speranza.

“Ed essa rispose: Nessuno, Signore”. Signore: quasi un’implicita confessio fidei. Più che il maestro saggio e coraggioso, la donna riconosce uno “che parla con autorità” (cf Mc 1,22) ed è capace di riconsegnare, nel perdono, lei a se stessa. Intorno non c’è più nessuno dei suoi accusatori. Nessuna condanna. L’unico uomo rimasto presente sino alla fine, le consegna un viatico, un valido lasciapassare per la vita: “Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più”. Tutto il suo futuro palpita in quel d’ora in poi: è donato un tempo per il poi!

“La voce di Gesù ha il potere di ridare alla donna la sua voce, quella che gli accusatori le avevano tolto […] La voce di Gesù emerge in un contesto in cui si alternano il gesto e il silenzio, il gesto e la voce, l’accusa e l’imbarazzo, in un groviglio di voci segnate da libidine e moralismo. La voce ha una sua gestualità: si inchina, scrive per terra, poi si alza. L’inchinarsi sembra la prefigurazione della morte di Gesù, l’alzarsi l’anticipazione della risurrezione, mentre la voce di Gesù si pone come figura del giudizio finale. Quella voce che aveva risparmiato la lapidazione alla donna, al termine del capitolo, subirà il tentativo di lapidazione” (S. Gaburro).

L’Uomo non sminuisce la portata tragica del peccato – “non peccare più” – ma con la sua parola e la sua presenza, la ri-crea e le consegna opportunità di vita vera e nuova: io non ti condanno; torna alla vita e d’ora in poi, puoi non peccare più. Sono parole che grondano gratuità e possibilità di vita rinnovata. Non è buonismo accomodante. Gesù non le dice “poverina, non ti preoccupare, ti capisco… è la società marcia che ti ha ridotto così, torna pure, tranquilla a fare ciò che stavi facendo…”. Gesù le rivela di quale dignità è portatrice e a quale libertà è chiamata: il valore della sua vita è incalcolabile e non può più concedersi al degrado.

Il testo evangelico nulla dice sul pentimento della donna: chi scrive non è interessato immediatamente a registrare i sentimenti di lei, ma desidera consegnare al lettore di ogni tempo l’assoluta gratuità di quella assoluzione. Che è divina: Gesù non condanna, perché Dio non condanna, ma con questo suo atto di misericordia preveniente, eccessivo, incondizionato, le offre la possibilità di cambiare, di convertirsi per avere vita. Gesù non pretende dalla donna penitenze né pubbliche confessioni; non le dà indicazioni morali “da maestrino”, né le impone l’esecuzione di qualcosa di più o meno gravoso. L’avvolge con la grazia del da ora in poi. Quella grazia che Gesù, immediatamente, riconosce attiva nella donna, sono i suoi stessi gesti  a parlare: davanti alla donna, adultera, egli non si vergogna di avere una posizione insolita, lì con lei e – lui, il Signore – inchinato davanti a lei. Un Gesù che non teme di essere giudicato imprudente, lassista, sovversivo. È urgente, per lui, far riconoscere e assaporare alla donna la grazia del da ora in poi. Il testo tace del tutto sul futuro della donna scampata da morte: cambiò registro? Si pentì? Si convertì? Seguì Gesù come fedele discepola? Non sappiamo se la donna, una volta perdonata da Gesù, muti i suoi stili di vita. Sappiamo di certo della assoluta, gratuita, eccedente misericordia che Gesù le ha donato.

Non è forse questo che ognuno di noi – nessuno impeccabile – attende per sé? Non è questo che la comunità credente implora da Dio per ogni presbitero, per ogni ministro del Vangelo, per ogni consacrata/o, per ogni credente in Cristo? Questo la nostra Chiesa di Alghero-Bosa ardentemente chiede al suo Signore.

 

Il viatico del “d’ora in poi”

Anche la nostra Chiesa di Alghero-Bosa, come la donna adultera, è convocata alla gioia e alla grazia del da ora in poi. Un viatico che il Signore Gesù, in questo cammino quaresimale verso la sua Pasqua di Risurrezione, ci consegna e ci affida. Sarà solo la comunione con lui, attraverso la sua Parola, l’Eucarestia, la Riconciliazione, i sacramenti e il perdono offerto e ricevuto, la solidarietà, ad offrirci la gioia e la libertà di smettere di peccare. Quella concreta alternativa all’asservimento al male di cui, ognuno di noi, porta nel cuore la cicatrice mai rimarginata.

Quaresima 2021: un tempo per il poi che non vorremmo davvero sperperare, visto che il Signore Gesù, con larghezza inesausta, non cessa di donarsi a noi come Salvatore. Soprattutto non sperperare il suo amore eccedente, sproporzionato in questo tempo alterno e afflitto, risucchiati, come siamo, dalla voragine di angoscia che sembra sul punto di fagocitarci.

D’ora in poi non consideriamo scribi e farisei delinquenti patentati: nei cromosomi di ciascuno ce n’è traccia evidente. Così è: vorremmo un Dio disposto a comprendere e perdonare noi e le nostre storie, storielle e storiacce, disponibile a giustificarci sempre e comunque, ma che deve diventare inflessibile verso tutti gli altri che sbagliano. E quando si mette a perdonare non solo noi ma altri, tutti, siamo pronti a redarguirlo, a sconfessarlo, a togliergli ossequio e culto.

D’ora in poi, custodendo nel cuore le parole stra-ordinarie di Gesù rivolte agli accusatori, spostiamo anche noi il livello: dal “se giudicare” al “chi deve giudicare”. Ristabilire il primato di Dio, è il primo, vero, autentico segno di conversione quaresimale.

D’ora in poi consegniamo al Padre, nel segreto della preghiera, il nostro cuore indurito, di pietra, soprattutto quando lo sentiamo pesante perché infastidito dalla tenerezza di Dio. Senza questa consegna, questo atto di affidamento, questo chiamare in causa colui che mi ha pensato e voluto, nessuno avrà un cuore sufficientemente irrorato per amare.

D’ora in poi mettiamo mano, per bloccarla, la pendolarità a cui spesso ci consegniamo: mi piace/non mi piace; mi conviene/non mi conviene; si può/non si può. Interroghiamo la nostra coscienza davanti a Dio: è bene o è male? Dà vita o la spappola? È vero o è falso? La vita non è questione, semplicemente, di leggi da ottemperare, di mode da seguire, di istinti da soddisfare. Assumere la propria fragilità come criterio per stabilire ciò che è bene e ciò che è male, è strategia pericolosa e perdente. Perché, fatti a immagine di Dio, ogni sfilacciamento della propria verità, della propria dignità, della propria libertà, è già pregustazione di morte.

D’ora in poi facciamo memoria giornaliera di questa parola del Signore: “Va’, e non peccare più”: la vera libertà sta nel vivere l’amore, non l’odio; la prossimità, non la freddezza; la cura, non l’indifferenza. Sì, viviamo la libertà di non peccare più: la legge guarda al passato, al bene o al male compiuto. Gesù guarda al futuro: non cancella le regole ma ci esorta a non appoggiare la vita su di esse, ma su valori.

D’ora in poi chiediamo insistentemente al Padre uno sguardo nuovo su noi stessi: non demonizziamo la nostra creaturalità debole e ferita. Diventiamo adulti nella vita e nella fede, solo quando vi poggiamo sopra uno sguardo pacificato, non arrabbiato, non di vergogna. Accogliersi nel proprio limite e far pace con la propria storia, le proprie inconsistenze, le proprie ferite, ci partorisce alla pace e alla gioia.

D’ora in poi chiediamo insistentemente al Padre uno sguardo nuovo sugli altri: è indispensabile per accedere al “santuario” che ogni altro è. Quando una persona sperimenta di essere amata, gratuitamente e largamente, nonostante la sua colpa, questa comprende molto più agevolmente la stonatura del suo peccato. Così diventiamo cirenei della pena altrui.

D’ora in poi la constatazione degli errori e dei peccati altrui, deve vederci impegnati a mettere mano alla nostra esistenza, ai nostri stili di vita, smettendola di voler riformare, tanto spesso d’imperio e con malagrazia, le vite altrui. E vigilare per non far di peggio!

D’ora in poi, quando ci vien voglia di riformare la Chiesa, la diocesi, il presbiterio, la parrocchia, il gruppo, la famiglia, il luogo di lavoro… non dimentichiamo che “l’autodenuncia è migliore della critica”, così come diceva il Servo di Dio don Primo Mazzolari. Pagare di persona, resta la via cristiana per abitare la vita, impegnativa certo, ma l’unica credibile.

D’ora in poi non vogliamo perdere tempo a scoprire i peccati altrui, anche gravi, per arrogarsi il diritto di condanna e di lapidazione. Sant’Agostino ricorda che si può essere talmente tanto impegnati a registrare i peccati altrui, da non avere più né tempo né padronanza di sé per accorgersi del proprio.

D’ora in poi non lapidiamo più nessuno lanciando con leggerezza – talvolta anche con fierezza – la prima pietra della mormorazione, del pettegolezzo, della maldicenza, della calunnia, del sospetto. È bestemmiare la Pasqua.

D’ora in poi cerchiamo il silenzio, abitiamolo, preserviamolo dallo scempio: il “tutto e subito” preteso rumorosamente da scribi e farisei, se fosse stato assecondato, avrebbe prodotto morte. Gesù, a quella chiassosa pretesa, interpone silenzio e poi ancora silenzio. Facciamo come il Signore.

D’ora in poi non chiudiamo la nostra giornata senza rallegrarci del bene quotidiano che ci è dato di vivere, di incontrare, di testimoniare! Il male non può avere l’ultima parola perché falsa la realtà, mascherandola. Il male può essere seducente, affascinante, e apparire necessario, indispensabile e “bello per gli occhi”, come ricorda la Scrittura. Ma non mantiene mai le promesse. Non può. Non ne ha le possibilità. Ne possiamo restare atterriti e ingannati se non ne intercettiamo i rivestimenti contraffatti.

D’ora in poi non vogliamo essere una Chiesa delle pietre: una Chiesa arcigna, con poca empatia, che giudica a fa’ fatica nell’esborso della misericordia, della compassione, del perdono; e neppure una Chiesa pietrificata, così irrigidita e impaurita da diventare incapace di confronto con le sfide di oggi, non quelle di ieri o di domani.

 

La prossima quinta domenica di Quaresima, 21 Marzo, la nostra Chiesa celebra la Giornata per il Fondo Episcopale di Solidarietà. Tutte le offerte raccolte durante ogni celebrazione eucaristica in ciascuna Parrocchia e in ciascuna Chiesa destinata al culto divino, confluiranno in detto Fondo.

Domando ad ogni parroco e ad ogni presbitero di accompagnare le comunità e i singoli a crescere nella consapevolezza di poter e dover diventare fratelli, condividendo con chi fa fatica a vivere.

Il mio grazie a tutti coloro che, fino ad ora, largamente, in questi anni, hanno aperto il cuore, non hanno girato lo sguardo dall’altra parte, sono emersi dalla marea dei pregiudizi e hanno posto mano a ciò che possiedono, poco o molto che sia, perché altri potessero rasserenarsi. A tutti e a ciascuno la mia e la riconoscenza dell’intera nostra Chiesa e di coloro che son stati fatti segno di attenzione.

Entro il mese di maggio ogni presbitero depositerà le offerte raccolte in tale giornata presso l’Economato diocesano. Come ogni anno verrà reso noto, tramite il giornale diocesano Dialogo, quanto la carità avrà saputo smuovere la nostra generosità.

 

In questi mesi dolenti del COVID-19, ho potuto fare l’esperienza commossa e gioiosa di tanta generosità, spesso anonima, fattami scivolare nelle mani, per poter alleviare le sofferenze di tanti fratelli e sorelle rimasti senza lavoro o costretti a vera indigenza per la nota realtà che ognuno, in un modo o nell’altro, sta sperimentando. L’ho vissuta come un’autentica carezza del Padre!

Ci affidiamo vicendevolmente allo Spirito del Signore, perché ci conduca nel santificante cammino quaresimale verso la Pasqua di risurrezione, interiormente sorretti dalla luminosità e dalla novità evangelica di questa Parola letta, ascoltata, pregata. Scribi e farisei esigono di applicare la Legge scritta con il dito di Dio sulle tavole di pietra. Il Signore Gesù ricorda a ciascuno che questa Legge deve essere scritta nel cuore di carne, cuore riconciliato con la polvere della propria e dell’altrui fragilità. Il profeta Isaia ci consegna una luce calda per far memoria di quanto, ognuno, è caro a Dio: “Non ti dimenticherò mai! Sulle palme delle mie mani ti ho inciso” (Is 49,15.16).

La Parola conservata nel cuore, converta in noi quanto ha ancora il sapore dell’arroganza e della prepotenza, della superiorità e della presunzione di essere migliori degli altri e ci porti a gustare la dolcezza della fraternità condivisa, del rispetto affettuoso, dell’accoglienza sincera e discreta. La parola del Vangelo di Gesù strappi dal cuore l’ipocrisia: il grido di dolore delle vittime che miete, se potuto misurare, invaderebbe il cosmo!

Quando papa Francesco, nel suo primo Angelus in Piazza San Pietro, ha commentato proprio questa pagina di Vangelo, disse che “Dio non si stanca mai di perdonarci, siamo invece noi a stancarci di chiedere perdono a Dio”. Probabilmente, a rendere duro e cieco il cuore di scribi e farisei è stata proprio questa stanchezza ‘cordiale’ di fronte alla possibilità di trovare sempre una via per non negare mai la vita.

Non stanchiamoci mai di chiedere perdono!

La Vergine Maria, sorella e madre dal cuore puro, non doppio, non impaurito e tutto disposto all’obbedienza a Dio, ci custodisca saldi nella fede, gioiosi nella speranza, operosi nella carità.

Fraternamente tutti abbraccio e su tutti invoco la pace del cuore, la gioia del Vangelo e, ora più che mai, buona salute

 

✠ padre Mauro Maria