Natale: a testa alzata e cuor leggero. Il Messaggio del Vescovo Padre Mauro Maria

Natale: a testa alzata e cuor leggero

Messaggio di Avvento-Natale del Vescovo Mauro Maria Morfino

L’intenso Avvento che abbiamo vissuto ci ha educati a rinnovare l’attesa del Signore Gesù: attesa non vana, perché lui è già venuto e ancora verrà alla consumazione del tempo. Lui che sempre è Veniente, per introdurre tutta la storia e ogni storia dentro il disegno d’amore del Padre suo e Padre nostro.

L’ascolto della Parola di Dio in questo santo tempo di attesa dell’Ad-ventus del Signore, ci ha (ri)educato a vivere i nostri giorni non come tempo di inazione, da dis-attivati o passivi, ma come un’occasione propizia e generativa per “crescere e sovrabbondare nell’amore” (1Ts 3,12), così come, ardentemente, l’Apostolo Paolo ci ha esortato nella Prima Domenica di Avvento. Consapevoli che l’intera storia dell’umanità e dei mondi non si sta sviluppando di fronte a un’impenetrabile e terrificante buco nero, ma “davanti a Dio e Padre nostro” fino “alla venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi” (1Ts 3,13).

Ma ogni discepolo del Regno sa che, per saziarsi della gioia del Natale, è necessario abitare l’attesa della venuta del Signore in ascolto della sua Parola: nella sua presenza rivestita di assenza, la Parola diventa “lampada ai nostri passi, luce sul nostro cammino” (Sal 119,105). È la gioiosa esperienza che ogni comunità cristiana fa lungo l’intero anno liturgico: dal tesoro inesauribile della Scrittura, tracìma il sanante balsamo che risana le forze del cuore, si spalancano gli striminziti orizzonti della quotidianità e rinasce, senza sosta, il pungente desiderio dell’incontro. È la gioiosa esperienza che, ancora una volta, io stesso, ho fatto. Confesso, con il profeta Geremia, che “quando le tue parole mi vennero incontro, le divorai con avidità” (Ger 15,16). Ed è proprio l’esperienza di bramosìa e di saziamento, accompagnandomi lungo l’Avvento verso il Natale di questo 2021, a farmi riaffermare con stupore e con gioia che, comunque e sempre, questo anno così tribolato – e quanto per la nostra Chiesa colpita dal flagello del fuoco! –  è e resta realmente anno di grazia perché tempo visitato, instancabilmente, dal Signore.

 

Sconvolgimento e angoscia

La Parola di Gesù, nitida e senza alcuna possibilità di fraintendimento che mi è venuta incontro e che ho divorato con avidità, è quella che ci consegna il Vangelo di Luca come portale d’ingresso nel tempo di Avvento. Gesù preannuncia uno sconvolgimento certo e una dissoluzione inappellabile degli equilibri esistenti che, nel suo Natale, diventa realtà tangibile, inoppugnabile:

“Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con potenza e gloria grande. Quando cominceranno ad accadere queste cose, alzatevi e levate il capo, perché la vostra liberazione è vicina. State bene attenti che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso improvviso; come un laccio esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra. Vegliate e pregate in ogni momento, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che deve accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo” (Lc 21,25-28.34-36).

Parole eloquenti che mi/ci vengono incontro e, sorprendentemente, dipanano e accendono questo nostro presente incerto, indecifrabile, insicuro, impenetrabile. E, certo, non solo per lo spudorato perdurare del COVID-19…

Come non riconoscerci, anche noi, radicalmente segnati dalla stessa “angoscia”, “ansia” e “paura”? E, proprio perché consegnateci dalla bocca del Figlio dell’Uomo, quelle parole non possono non interessarci, interrogarci, scuoterci.

Come non confessare che viviamo abbarbicati ad equilibri precari, tanto spesso vistosamente incapaci di mantenere in piedi anche solo brandelli, scampoli di vita? Equilibri traballanti e inaffidabili, pericolosi come armi senza sicura, eppure sdoganati come assoluti – e perciò divinizzati – promossi a pieni voti a inespugnabili bastioni su cui fondiamo i nostri (fragili) giorni. Con la conseguente amara disillusione che ognuno di noi, tristemente, degusta.

Per l’Israele storico, i motivi di angoscia, ansia e impaurimento potevano essere dettati dall’impietoso dominio egiziano, poi babilonese, poi romano o per l’inaudita sciagura della distruzione del Tempio, o per l’inspiegabile interruzione della dinastia davidica, o per le alleanze improvvide con tanti vicini fratelli-coltelli, o per l’empietà di coloro che avrebbero dovuto salvaguardare giustizia, verità, solidarietà … Tutti equilibri che, la storia, si incaricherà puntualmente di sconvolgere, dissolvere e liquidare. Ma le pagine bibliche, per un verso o per l’altro, registrano e declinano – con mille sfaccettature – le tre grandi paure-madri che pervadono ogni vita umana: la paura della morte, la paura della solitudine, la paura della povertà.

Per noi oggi – affetti dalla medesima sindrome –, cambia la verniciatura, ma sussiste il medesimo disagio. Anche noi, figli di questa contemporaneità, siamo ipotecati da quella che appare come un’eredità inalienabile: ancora la paura della morte, la paura della solitudine, la paura della povertà. E non possiamo nasconderci che, quasi tutte le nostre angosce, quasi tutte le nostre nevrosi, quasi tutti i nostri comportamenti irrazionali e distruttivi, sono riconducibili a tali paure.

In questo preciso momento storico così complesso e frantumato, dalle paure-madri gemmano e si ingigantiscono paure nuove: perché inedite, perché di difficile gestione e perché, soprattutto, ci colgono impreparati e sguarniti di strategie vincenti.

Una ricerca svolta tra il 2016-2017 dal Pew Research Center, in 38 nazioni di tutti i continenti, restituisce un importante quadro di riferimento per comprendere quali sono le minacce da noi più paventate.

Dalla ricerca, emerge uno spaccato interessante che fotografa i tanti spettri che ci affliggono:

  • da un punto di vista globale: il 62% è impaurito dal terrorismo islamico; il 61% dai cambiamenti climatici e il surriscaldamento globale; il 51% dalle condizioni economiche globali e dalla povertà; ancora il 51% dai cosiddetti cyberattacchi; il 39% dalla questione dei migranti e dei rifugiati. È evidente come, ai primissimi posti, sono posizionate le tre macro-questioni del momento: la “vittoria” del terrorismo, in barba a tutti i sofisticatissimi servizi di intelligence; la povertà generalizzata e la paura per il futuro economico del pianeta; i cambiamenti climatici che “gridano” sempre di più e che potrebbero avere riflessi catastrofici non solo sull’economia globale, ma sulla stessa sopravvivenza umana;
  • da un punto di vista italiano: la classifica dei ‘top 3’ del nostro Belpaese è la seguente: al primo posto, con l’85%, troviamo il terrorismo islamico; al secondo posto, con il 65%, l’aumento del numero dei rifugiati; ugualmente al 65% è posizionata la questione del surriscaldamento globale. Ma anche il CENSIS offre uno sguardo lucido sulla nostra realtà nazionale: in prima battuta troviamo la paura degli altri. Il 75,4% degli italiani dichiara di non sentirsi sicuro quando frequenta luoghi affollati; il 59,3% ha paura di camminare per strada e di prendere i mezzi pubblici dopo le otto di sera. Certamente si tratta di sentimenti fortemente condizionati dalla paura, ancora elevata, del contagio. Ma non solo. Poi abbiamo le paure delle donne. In questi due anni di COVID, molte donne chiuse in casa, sono state maggiormente esposte alla violenza di partner e conviventi. Le richieste di aiuto al numero antiviolenza e stalking 1522 hanno avuto una notevole impennata. Da marzo ad ottobre 2020 le chiamate sono state 23.071: un anno prima, nello stesso periodo, erano state 13.424 (+71,9%). Le donne che hanno paura mettono in atto comportamenti che ne condizionano fortemente la qualità della vita: il 75,8% ha paura di camminare per strada e di prendere i mezzi pubblici di sera, l’83,8% ha paura di frequentare luoghi affollati, l’88,5% ha paura di incontrare persone sconosciute sui social network, il 76,3% ha paura di condividere immagini sul web, il 22,5% ha paura di stare a casa da sola di notte.

Tante le angosce, le ansie, le paure, che si inanellano fino a consolidarsi così tanto da diventare catene paralizzanti, insopportabili, mortifere. Quei nostri fastidiosi e invadenti flash pluriquotidiani che fanno incursione nel cuore e che – proprio come persone non gradite che suonano, inattese, il campanello di casa – ci imprimono un brivido penoso al pensiero della possibile perdita della propria integrità fisica e mentale e di quella delle persone amate, o dell’autonomia personale o dei pregiudizi che possono accanirsi ingiustamente contro di noi e annientarci o… di tanto altro.

 

Testa alzata

Le immagini usate da Gesù nel testo evangelico lucano sopra citato sono iconiche: da un lato la sollecitazione a tenersi dritti anakŷpsate – e con la testa alzata epàrate tas kephalàs – perché su un corpo… vivo, realmente “umano”; dall’altro, il monito a “stare attenti” – proséchete – per la pericolosità di un cuore appesantito barethòsin – perché ingombro. Bisogna alleggerirlo perché batta bene, pulsi liberamente.

Di fronte ad uno scenario di così grande desolazione e scoramento, come quello descritto, ora come allora, quando tutto, proprio tutto, sembrerebbe indicare fallimento e fine, proprio allora, il Signore Gesù ci invita a “sollevare il capo”, ad alzare la testa, alzarla perché leggera, alzarla perché fiduciosa. Solo a capo ritto si riesce ad intuire la venuta di un tempo favorevole. Dove lo sfacelo contemplato indurrebbe a gettare la spugna e concludere che proprio non c’è speranza né salvezza e che non vale la pena dar credito a chicchessia, il credente è chiamato e abilitato ad alzare la testa.

Chi crede in Gesù, chi cioè gli dà credito, non si abbatte, non si consegna al (comodo) disimpegno, ma alza la testa, può proprio alzare la testa. Assume questa postura chi è in cammino, chi è sorretto dalla speranza e non è centrato su di sé; chi dà spazio alla curiosità nei riguardi della vita ed è abile ad orientare i desideri del cuore per farli maturare, crescere, fiorire; chi, desiderando scorgere le stelle, ha il coraggio di sottrarsi alle luci della ribalta, ad ogni proscenio dove, l’inquinamento luminoso, acceca e disequilibra; chi corre il rischio della solitudine: “Scopriremo allora che l’oscurità è popolata e potremo perfino scorgervi degli ‘angeli’, dei volti radiosi senza orchestra e senza piume” (M. D. Semeraro).

A testa bassa, al contrario, guardando ostinatamente e disperatamente giù e ancora giù, nessuno può sperare di vedere qualcosa di grande, di bello, di aperto. Vedere cieli spalancati, gustare la dolcissima prossimità di Dio, avere la forza di vivere oggi, restano desideri inappagati. No, proprio non siamo fatti per razzolare!

L’immagine della testa alzata usata da Gesù, indica un umano in piedi, mosso dalla convinzione che ciò che accade è per la salvezza, per la sua salvezza; è un umano che non teme e quindi cammina sicuro verso il Signore Veniente; è un umano perseverante: “designa un uomo che attende senza muoversi, a dispetto di tutti i colpi con cui si cerca di smuoverlo” (S. Weil). È un umano che, con un’espressione cara alla Scrittura, “teme Dio”, vale a dire che lo prende sul serio. Solo chi prende sul serio, ama. È la postura dell’umano che è teso e che desidera ardentemente l’incontro con chi ama e attende.

Ma, nella Bibbia, è anche la postura della sentinella vigile, attenta, tutta tesa a scrutare l’orizzonte per essere pronta a gridare a gran voce che il Signore viene, che la salvezza è alle porte, che Dio è fedele da sempre e per sempre: “La vedetta ha gridato: «Al posto di osservazione io sto sempre, tutto il giorno e nel mio osservatorio sto in piedi, tutta la notte»” (Is 21,8).

Al profeta Geremia, cittadino di un mondo totalmente all’incanto, disfatto e senza speranza alcuna di ricomposizione e rinascita, Dio fa alzare il capo per intravedere un germoglio inatteso, insperato e insperabile, dato il momento storico: “In quei giorni e in quel tempo farò germogliare per Davide un germoglio giusto, che eserciterà il giudizio e la giustizia sulla terra” (Ger 33,15).

Ma è il Signore Gesù ad assicurarci che, proprio nel momento in cui tutto sembra essere giunto all’inevitabile, rovinoso disfacimento, Dio ha ancora capacità, voglia e creatività di rendere “vicina” non una semplice promessa di bene e di cambiamento, ma un’autentica “liberazione” (Lc 21,28).

Chi la vedrà? Chi ne gusterà l’imprevedibile vitalità? Chi potrà indicarla autorevolmente a tutti gli angosciati-ansiosi-impauriti compagni di viaggio e di vita? Paradossalmente, solo coloro che sapranno riconoscerne la traccia e l’orma, proprio dentro il misterioso venir meno di ogni punto di riferimento, di ogni equilibrio assolutizzato, di ogni certezza diventata talmente solida da stoppare quel surplus di visione indispensabile per continuare il cammino: “Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte” (Lc 21,26).

 

Cuore leggero

La seconda immagine menzionata da Gesù, il cuore pesante, ha la stessa forza evocativa ed eloquenza della prima.

Se tutto porta a tremare di spavento in mezzo allo sconvolgimento generale richiamato dal Maestro, è la sua stessa parola che indica l’atteggiamento da custodire con perseveranza e risolutezza interiore: “State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano” (Lc 21,34).

Per vivere urge alleggerire il cuore! È l’impresa giornaliera più bella, più necessaria, più impegnativa. È l’esercizio di umanità più fecondo, ma anche più latitato. Ma è decisamente troppo importante per essere preso in mano, una volta ogni tanto, in qualche commovente incontro spirituale o in affrettati, quanto inutili, esami di (in)coscienza…

Ho pensato come quantificare esistenzialmente e spiritualmente, innanzitutto per me, ma per la nostra Chiesa di Alghero-Bosa, per il Presbiterio, per i fratelli e le sorelle nella Vita consacrata, per i giovani, per i candidati agli Ordini, per chi vive nel sacramento della Coniugalità, per ogni battezzata/o e per ogni donna e uomo di buona volontà, il monito del Signore ad alleggerire il cuore.

Per alleggerire il cuore, è necessario, innanzitutto, affrontare l’incognita di vivere seorsum, vivere “presso di sé”: una disciplina che si attua – anche – nel coraggio della solitudine, nella vigilanza, nel silenzio, nell’aversi tra le mani.

Per alleggerire il cuore, non si può dare per scontato che, anche il proprio cuore, possa essere affetto da “pietrificazione”: quella sklerokardìa di cui parla Gesù (Mc 10,5; 16,1); senza intelligenza, incapace di comprendere e discernere (cf Mc 6,52; 8,17-21); può chiudersi alla compassione (cf Mc 3,5); può nutrire odio (cf Lv 19,17), gelosia e invidia (cf Gc 3,14); può essere menzognero e “doppio” (dípsychos: Gc 1,8; 4,8) … Divenire smemorati circa queste assai concrete possibilità, contribuisce pesantemente ad affossare il proprio cuore (la verità che sorregge questa smemoratezza, è che tutti pensiamo che il cuore complicato e malato sia quello degli altri, non il proprio…).

Per alleggerire il cuore è indispensabile rendersi conto di cosa c’è dentro: essere distratti e non tematizzare, è dare carta bianca a rabbie, delusioni e illusioni che, non chiamate per nome e non ben identificate, decidono di darsi identità camuffate, di più facile sdoganamento e, non raramente, facendosi passare per il perfetto contrario di ciò che, in realtà, sono. Un autentico… Monte Bianco seduto sul cuore! Smascherare le contraffazioni di dentro è la prima, seria, pratica della vita umana. Certamente lo è di ogni autentica vita nello Spirito.

Per alleggerire il cuore è necessario desiderare ardentemente affrancarci da noi stessi per essere più liberi e imparare a chiamare per nome tutte quelle “furberie” messe in atto con Dio, con gli altri, con se stessi. Per arrivare, forse, a dirsi che, più che furberie, sono mascalzonate, ingiustizie, ferite inferte.

Per alleggerire il cuore bisogna fare i conti con i ricordi: nel cuore di ognuno vivono e si agitano frammenti di vita che ci sfuggono di mano, la cui cicatrice ancora sanguina ed è dolente. Accettare che la ferita ci sia – e tante volte resti aperta – permette alla vita di fluire e ri-nascere. Se non la ignoriamo, la ferita è, come ogni sintomo, indizio e inizio della cura stessa. Fare pace con il proprio passato, qualunque esso sia, è dare ali al cuore! Senza dimenticare che la carità di Dio non sa posarsi su chi non ha piaghe. Quante paure non dette, mai consegnate, mai chiamate per nome: né a Dio, né ad un’altra/o e, quasi quasi, neppure a sé stessi. Ma, a lungo andare, diventano ingombri mortali per qualsiasi cuore umano: “Date parole al vostro dolore: il dolore che non parla bisbiglia al cuore sovraccarico e gli ordina di spezzarsi” fa dire scultoreamente Shakespeare nel Macbeth (Atto IV, scena III).

Per alleggerire il cuore si è chiamati a divenire consapevoli che il terreno del nostro cuore è in larga parte buono, ma vi hanno messo radici (anche) rovi ed erbacce e si può facilmente inciampare in sassi e pietre. Ancora una volta, chiamati ad aprire gli occhi di dentro, ad abitare il proprio cuore senza attendarsi e attardarsi nelle sue periferie.

Per alleggerire il cuore è sanante prestare attenzione a non rimanere intrappolati nella grossolana mistificazione che fa scambiare i bisogni per desideri: ciò che appesantisce il cuore, spesso, non sono tanto le difficoltà e le contraddizioni intorno a noi, quanto lo scambio cordiale – ingenuo quanto fatale – tra bisogni e desideri. Quanto spazio ed energie sperperate concesse a bisogni travestiti da desideri o concedersi, a corpo morto, a bisogni che non-abbisognano affatto di essere esauditi… “I nostri bisogni toccano una parte della nostra persona sia essa fisica, come spirituale, come intellettuale. I desideri coinvolgono tutta la persona. I bisogni sono cose momentanee che hanno una loro importanza, ma solo i desideri si spingono oltre la siepe a ricercare quel senso della vita che sembra che noi abbiamo perso di vista. Confondere i due momenti significa declassare i nostri desideri a bisogni trattandoli nella stessa maniera. I bisogni chiedono una gratificazione quasi immediata e terminano con la gratificazione, i desideri no! I desideri non chiedono gratificazione, chiedono senso. I desideri sono per loro natura irrealizzabili nella loro totalità. I desideri sono l’orizzonte verso cui camminare: più ci avviciniamo a lui e più lui si allontana e si amplia. Ma non crea frustrazione perché, più si allontana e si amplia, più alimenta in noi la voglia di conoscere e amare e di comprendere di più. Il desiderio è una lancia scagliata verso il futuro, il bisogno è una continua richiesta di gratificazione qui ed ora. Riuscire a cogliere i nostri bisogni alleggerendoci di quelli che necessari non sono e lanciandoli verso il futuro, rinunciando a rispondere ad essi in modo automatico, apre il nostro cuore al desiderio” (G. Nicoli).

Per alleggerire il cuore, paradossalmente, è necessario evitare di raccogliere le pietre che ci hanno tirate per rilanciarle. È strano ma vero: si alleggerisce nella misura in cui, le pietre, vengono trattenute e non rispedite al mittente… Il cuore smette di essere in sofferenza solo quando si rifiuta di pagare il male con il male.

Per alleggerire il cuore è bene non sperperare energie preziose per rincorrere progetti che non possono appagare o coltivare illusioni che invece, strizzate per bene, possono essere riconosciute come pericolose fantasie, trabocchetti esistenziali, ingenti perdite di tempo, di energie, di entusiasmo da dedicare, indubbiamente, a miglior causa.

Per alleggerire il cuore è benefico non affannarsi a tenere tutto sotto controllo, cercando di addomesticare l’impetuoso flusso della vita piuttosto che imparare a scorgere, passo dopo passo, il mistero di amore che in essa è seminato.

Per alleggerire il cuore è saggio non essere troppo presenti a se stessi e risucchiati ossessivamente dal frammento di vita che si sta vivendo, talmente tanto tirannizzati dal proprio mondo emotivo, da dimenticare che la minuscola particella della propria esistenza è inscritta, e dunque va vissuta, anche in prospettiva di ciò che la storia va imbandendo e il Provvidente desidera. Non solo per noi stessi ma per altri, per tutti.

Per alleggerire il cuore, infine, è cosa buona, giusta e salvifica smetterla di rattristarsi quando le cose non procedono nella direzione che si è immaginato, si è progettato, si è attuato.

 

Alleggerire il cuore significa diventare e rimanere umani, introducendosi in quella libertà tanto agognata, mai conquistata e sempre ricercata. Una libertà agita come desiderio che consente di guardare oltre e non come bisogno affannoso da gratificazione seduta stante. Una libertà che, solo così, è terreno dissodato, dove il germe della fede può nascere e crescere: non “di lato”, non “giustapposto” ma proprio nella nostra umanità, facendoci così più umani e quindi più veri e perciò credibili.

Ma perché accada di sollevare la testa e di alleggerire il cuore, il Signore Gesù ci consegna lo stile, il mandato, il viatico per ogni istante della vita: “Vegliate in ogni momento pregando” (Lc 21,36). Lo vogliamo accogliere per vivere gioiosamente, costruttivamente, cristianamente questo Natale. Solo pregando in ogni momento si resta lucidi e attenti, così da poter ri-scegliere lui – Via, Verità e Vita – con cuore libero e fedele. Il Signore dona e “chiede un cuore leggero e attento, per vegliare sui germogli, su ciò che spunta, sul nuovo che nasce, sui primi passi della pace, sul respiro della luce che si disegna sul muro della notte o della pandemia, sui primi vagiti della vita e dei suoi germogli. Il Vangelo ci consegna questa vocazione a una duplice attenzione: alla vita e all’infinito. La vita è dentro l’infinito e l’infinito è dentro la vita; l’eterno brilla nell’istante e l’istante si insinua nell’eterno. In un Avvento senza fine” (E. Ronchi).

Così sarà un buon Natale.

 

Ad-orare

Gli incontri di cui, ogni giorno, sono testimone stupito e riconoscente, mi spingono a constatare che mai nessuna persona umana può essere ascritta alla categoria dell’irrimediabilmente rovinato, del definitivamente sconsacrato, dell’irrecuperabilmente secolarizzato. Nessuno è così “ridotto” dal punto di vista dello sguardo interiore da non reclamare intimità con l’Ulteriorità che sempre, senza sosta, urge; nessuno può permettersi di condurre i suoi giorni senza che la “cicatrice del divino” sanguini e reclami decisamente cura, attenzione, ristoro. La persona umana è e sarà sempre religiosa, proprio per quel di più che lo attrae e lo muove, anche se gliene sfugge l’origine. E questo perché lo Spirito del Signore, che è Santo, continua incessantemente a permeare ogni persona e tutta la persona; continua a fasciare della sua presenza ogni cuore e ogni segreto desiderio di Bene, di Vero, di Bello. Ecco perché permane radicalmente, in ognuno, l’anelito, la nostalgia di un autentico rendez-vous con Dio.

Nel 2005, David Foster Wallace, scrittore e accademico americano particolarmente sensibile al tema del desiderio e del desiderare umano, fu invitato a parlare ai neolaureati del Kenyon College, nell’Ohio e, tra le altre cose, disse queste parole “inattese” in quel contesto e da quell’uditorio:

“Ecco una cosa che può sembrare strana, ma che è vera: nella trincea quotidiana in cui si svolge l’esistenza non c’è posto per l’ateismo. Non è possibile non adorare qualche cosa. Tutti credono. La sola scelta che abbiamo riguarda che cosa adorare. Forse la ragione più convincente per scegliere un dio o qualcosa di spirituale da adorare è che praticamente, qualsiasi altra cosa in cui credete, finirà per mangiarvi vivi. Se adorerete il denaro o le cose, se a queste cose affidate il vero significato della vostra vita, allora vi sembrerà di non averne mai abbastanza. Adorate il vostro corpo e la bellezza e l’attrazione sessuale e vi sentirete sempre brutti. I segni del tempo e dell’età si cominceranno a mostrare, morirete un milione di volte prima che abbiano ragione di voi. Adorate il potere e finirete per sentirvi deboli e impauriti, avrete bisogno di sempre più potere sugli altri per rendervi insensibili alle vostre paure. Adorate il vostro intelletto, cercate di essere considerati intelligenti, e finirete per sentirvi stupidi, degli impostori, sempre sul punto di essere scoperti. L’insidia di queste forme di adorazione è che rispondono a un bisogno di base, le assecondiamo lentamente, diventando sempre meno aperti riguardo a ciò che vogliamo vedere e a come valutarlo”.

Un pizzico di elementare etimologia ci è di aiuto: ad-orare significa rivolgere – ad –, la bocca – os/oris –, verso chi o ciò da cui attendiamo vita. Ecco perché portiamo alla bocca, mangiamo – fino a mordere e ingerire –, respiriamo, baciamo: per vivere di più!

Tutti ad-orano. Nessuno può farne a meno. È indispensabile ad-orare. Non si può non ad-orare.

L’intera letteratura, sotto ogni cielo e in ogni tempo, racconta l’umana ricerca della via della vita. Nelle forme più diverse, per i cammini più disparati e, spesso, opposti: adoratori della verità, della libertà, della virtù o, al contrario, della gloria, del denaro, del divertimento, del piacere, del potere, dell’apparire, di ogni tipo di dipendenza, del vizio… ma tutti, sempre, cercatori di una via per guarire dalla morte. Tutti, sempre, affamati di vita!

Via che, ahimè, sembra ostruita alle sole forze umane… Sembra che ogni umano respiro sia un infinito ferito a morte. Anche chi, tra noi, molto ama e molto è amata/o, sperimenta che la dolcezza del vivere-con, del vivere-insieme, del vivere-per, quando viene caricata di attese che l’altra/o non può soddisfare o quando non riusciamo a perdonarle/gli di non amarci come noi vorremmo, gusta l’amara delusione delle nostre (reali) infinite aspettative.

In questo undecimo Natale che viviamo insieme, come negli anni precedenti, non posso che indicarvi, ancora una volta e ancora più consapevolmente e gioiosamente che, la via della vita, per noi affamati di vita, non è ostruita, né impraticabile.

 

Natale è la via

Nella via che è il Natale, incontriamo, sempre, i pastori. Ogni anno non posso “saltarli”, con la scusa di averne già parlato l’anno precedente. Non posso non chiamarli in causa perché, semplicemente, sono proprio loro a ricevere l’annuncio che la via che è il Natale, è aperta, è percorribile, è per tutti coloro che sono affamati di vita. Soprattutto, è per coloro che vivono nella ferialità più scontata, nella quotidianità che, nessuno, oserebbe indicare come luogo di vita, anzi, di epifania della Vita: “Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia” (Lc 2,11-12).

Ma perché ai pastori, ultimi nella scala sociale e religiosa del tempo, il Natale è svelato per primi?

Vi scrivevo nel Natale del Signore del 2019: “I pastori a cui si rivolge l’annunzio angelico, non sono i bei pastorelli dell’immaginario tirato a lucido: rubicondi, che con sguardo trasognato fanno intravedere squarci bucolici, melodie melliflue e dolcezze campestri. No. Sono gente disprezzata perché ritenuta inaffidabile: scorrazzano e invadono spazi altrui e arraffano anche ciò che non è loro. Gente considerata incapace di vera religiosità perché tanto legati al gregge da disattendere ogni prescrizione rituale, ogni adempimento liturgico, ogni purità indispensabile per il culto. In realtà, l’annuncio che ha sconvolto questa “gentaglia”, è che il Capo, quello vero, quello non facsimile-divino [Augusto, imperatore romano] ma divino sul serio, l’Unto di Dio, si manifesta loro in forma assai diversa dalle attese umane. La grandezza di Dio è consegnata loro – proprio ai pecorai – dentro la debolezza del Bambino. In realtà, il vero Divino Augusto è proprio quello che appariva loro nella fragile carne di un neonato. Incredibilmente sottomesso all’editto imperiale, lui è l’unico Divus; nato nella stalla e assiso tra steli di fieno, lui è il vero re. È questa voluta povertà di ingresso nel mondo, che si incrocia con la subìta povertà dei primi destinatari della buona notizia, i pastori, che frantuma l’immagine del Dio forte, dominatore e castigatore e svela, in realtà, il volto del Dio inerme, servo, misericordioso: che “perdona tutte le colpe, guarisce tutte le malattie; che salva dalla fossa la vita, e corona di grazia e di misericordia; che è buono e pietoso, lento all’ira e sconfinato nell’amore; che non continua a contestare e non conserva per sempre il suo sdegno; che non tratta secondo i peccati e non ripaga secondo le colpe; che allontana dal peccatore le colpe, come dista l’oriente dall’occidente” (cf Sal 102). Dicendo ai pastori che questo Signore, quello vero, è nato per loro, si dice semplicemente che i marginali e i dimenticati, gli insignificanti e gli esclusi, i feriali, sono al centro dell’interesse di Dio”.

Il segno dato ai pastori sono le fasce. Un’indicazione che va al di là dell’apparenza esterna. Le fasce: segno di una condizione fragile, debole, scontata, feriale. Se da una parte vi è la gloria del Signore che “avvolge” i pastori e li investe di luce intensa (Lc 2,9), dall’altra il Bambino è “avvolto” in fasce. Il contrasto è stridente: la “gloria del Signore” indica sempre la glorificazione pasquale che il Padre conferisce al Figlio Gesù (Lc 9,26.31.32). L’evangelista intende dire che il bambino di Betlemme è tutto divino: è il “Salvatore-Cristo-Signore” (Lc 2,11), tre titoli che la catechesi lucana degli Atti degli Apostoli attribuisce al Risorto. Ma di questa natura gloriosa del Bambino, all’esterno, non traspare nulla! Ora che egli è nato per noi, per tutto il popolo (Lc 2,10.11), condivide realmente, in tutto e senza finzione, la condizione di vita umana. Attorno a lui non brilla alcun alone “di gloria e di splendore”.

In una godibile e densa pagina, Alessandro D’Avenia, a commento di questo testo, nella vigilia di Natale 2018, notava: “Il segno per riconoscere il Salvatore è un non segno: per un pastore, un bimbo in fasce, in quell’ambiente, è vita di tutti i giorni. È quindi un segno contraddittorio: non segnala niente. La religiosità naturale porta l’uomo a proiettare ciò che gli manca su ciò che adora. In questo caso, invece, il divino è privo di qualsiasi dote: nessuno si sarebbe accorto di quella nascita. La via alla felicità è aperta a tutti, non solo a élite religiose o di potere, ed è proprio lì dove siamo, dove tutto nasce e accade quotidianamente, in mezzo alla ripetizione delle opere e dei giorni. Sarà proprio questo che i compaesani non perdoneranno a Cristo quando dirà di essere Dio: ma non è il falegname, il figlio di Maria? Per loro il quotidiano non può essere il luogo del per-sempre: non è così che fa un vero dio. Invece, Natale, è proprio la totale novità del ‘per sempre’ versato nel ‘quotidiano’: ogni dettaglio diventa via per una vita più grande lì contenuta, ma che va liberata. Solo se accogliamo ogni cosa, persona, evento, come un ‘appena nato’, vi troveremo la vita per-sempre […] Diventa vita tutto ciò che nell’ordinario accogliamo come un bambino indifeso, da curare con le nostre mani. Se un Dio-onnipotente si fa Bambino-impotente, allora dalle nostre mani esce vita quando si disarmano e si prendono cura della vita: ecco la via. Tutto dipende dal rinnovare sguardo e atteggiamento verso la realtà. La parola bambino, pàis nel testo di Luca, significa anche servo. Dio si fa bambino e servo. Questo è la via del rinascere: ricevere e servire. La vita per sempre è solo la vita sempre per, ogni giorno”.

Maria riveste il suo piccolo di fasce: queste raccontano delle cure materne che, assieme a Giuseppe presta a Gesù, perché potesse crescere amato, curato e così diventare grande. Ma ad un certo punto Luca sembra… impappinarsi e dimenticare ciò che ha appena scritto. Al v. 12, l’angelo indica ai pastori il segno: “Troverete un bambino, avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia”. Poi, invece, al v. 16, quando i pastori vanno lì dove l’angelo ha loro indicato, il segno pare svanito. L’evangelista scrive che essi “trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, che giaceva nella mangiatoia”. Luca pare proprio essersi confuso… Nel v. 12, il segno dato ai pastori è: bambino/fasce/mangiatoia; al v. 16, invece, i pastori trovano Maria-Giuseppe/Bambino/mangiatoia. Difficile non accorgersi che dei tre elementi indicati dall’angelo al v. 12 ai pastori – bambino/fasce/mangiatoia – soltanto due appaiono nel v. 16: bambino/mangiatoia. E le fasce? Sparite! Luca, al loro posto, come segno, pone Maria/Giuseppe. Perché? Chi ha un po’ di familiarità con la Bibbia, sa che un neonato avvolto in fasce fin dalla nascita, è figlio amato, curato, custodito senza risparmio da chi lo ama. Questo neonato non è un abbandonato, non è NN, non è un incomodo (cf Sap 7,4; Gb 38,8-9 ed Ez 16,4). Se sul frutto del grembo, abbandonato in aperta campagna nel giorno della sua nascita in Egitto, si chinò amorevolmente Dio stesso (Ez 16,4-6), sul primogenito Figlio Gesù, vegliano con cura amorosa Maria e Giuseppe (Lc 2,7.16). Le fasce sparite del v. 16 non sono uno svarione dell’evangelista. Le fasce sono sostituite dal ministero amoroso di Maria/Giuseppe che “avvolge” Gesù, lo “circondavano” di cure. Quel ministero di cura amorosa che lì, e a Nazaret, permette a Gesù di crescere “in sapienza, età e grazia, davanti a Dio e agli uomini” (Lc 2,52). Sì: “questo è la via del rinascere: ricevere e servire. La vita per sempre è solo la vita sempre per, ogni giorno”.

 

Nel primo Natale del grande Sinodo, chiediamo allo Spirito di Dio che ci doni testa alzata per guardare negli occhi tutti – nessuno escluso – e darle/gli parola; ci doni anche cuore alleggerito – poiché non ripiegato su di sé e pacificato – cuore capace di offrire spazio vitale ad altri. Perché “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore” (Gaudium et spes, 1).

Maria e Giuseppe, amorosamente sempre-per Gesù, accompagnino cuori e passi verso di lui, il sempre Veniente Signore e Salvatore. Lui, l’Amatissimo Figlio, il sempre-per-noi, ci renda attenti e disponibili a tutti coloro che ci stanno attendendo come solleciti sempre-per loro.

Fraternamente vi abbraccio tutti e ciascuno nella luce del Natale che desideriamo celebrare “con gioia pura ed umile”, come ci suggerisce l’innodìa liturgica.

Maranatha! Signore nostro, vieni!

 

✠  padre Mauro Maria Morfino
vescovo di Alghero-Bosa