‘Natale lumitenebroso’: il messaggio del Vescovo per l’Avvento-Natale 2023

2023. Natale lumitenebroso

Ogni Natale è incastonato, come sfolgorante diamante, nel buio della notte. Per incendiarla. Anche in questa notte tragica in cui siamo immersi, divorata dal buio infernale di una umanità assatanata, di una fraternità tanto selettiva quanto omicida, di una disamina tanto pregiudiziale quanto cannibalesca. Sì: incendiata luce in nefasta tenebra!

È l’ormai intramontabile luminosità della divina compassione che, anche in questa densissima caligine che avvolge la nostra storia, fa silenziosa ma irriformabile irruzione. Sì, anche in questi giorni così piagati di ingiustizia, così esiliati di senso, così orfani di vita, “una luce risplende”.

Da oltre quarant’anni, porto sempre con me, nella Liturgia delle Ore, le righe che Dietrich Bonhoeffer, già caduto in mano alle SS, scriveva la vigilia di Natale del 1943 all’amico e collaboratore Eberhard Bethge e sua moglie Renate, dalla prigione di Tegel. Sedici mesi più tardi, il 9 aprile 1945, verrà ucciso nel campo di concentramento di Flossenbuerg, per la sua strenua opposizione, in nome del Vangelo, a Hitler e alla sua folle ideologia.

Da un tempo di così sanguinaria follia della selezione umana, come quello vissuto dal teologo e martire, rimbalza fino a noi nella solennità del Natale, una parola ancora così grondante di luce, da poter suggerire qualche assennato passo al nostro faticoso andare di credenti. Oggi, è tristemente certo, viviamo una riedizione, non meno assassina di quella medesima, dispotica e dissennata cernita di umano. Ma oggi, gli attoniti testimoni, siamo noi:

Cara Renate, caro Eberhard,

sono le 9,30 di sera; ho passato un paio di ore belle, in pace, pensando con molta gratitudine al fatto che voi oggi potete stare insieme…

Mi è dispiaciuto un po’ di non avervi potuto regalare questa volta niente di carino; ma i miei pensieri e i miei auguri vi sono stati vicini con una cordialità, se possibile, maggiore che mai. Vorrei dirvi qualcosa per il periodo di separazione che vi sta davanti. Non c’è proprio bisogno di dire quanto dura tale separazione ci risulti. Ma essendo io separato da tutte le persone cui sono legato ormai da nove mesi, ho fatto alcune esperienze di cui vorrei parlarvi…

Anzitutto: per noi non c’è nulla che possa rimpiazzare l’assenza di una persona cara, né è cosa questa che dobbiamo tentare di fare; è un fatto che bisogna semplicemente sopportare e davanti al quale bisogna tener duro; a prima vista sembra molto difficile, mentre è anche una grande consolazione; perché, restando effettivamente aperto il vuoto, si resta anche reciprocamente legati da esso. Si sbaglia quando si dice che Dio riempie il vuoto; non lo riempie affatto, anzi lo mantiene appunto aperto e ci aiuta in questo modo a conservare l’autentica comunione tra di noi, sia pure nel dolore. Inoltre: quanto più belli e densi sono i ricordi, tanto più pesante è la separazione. Ma la gratitudine trasforma il tormento del ricordo in una gioia silenziosa.

Portiamo allora dentro di noi la bellezza del passato non come una spina, ma come un dono prezioso. Bisogna guardarsi dal frugare nel passato, dal consegnarsi ad esso, così come un dono prezioso non lo si rimira continuamente, ma solo in momenti particolari, e per il resto lo si possiede come un tesoro nascosto della cui esistenza si è sicuri; allora dal passato si irradiano una gioia e una forza durature. 

Ancora: i periodi di separazione non sono perduti e sterili per la vita in comune, in ogni caso non lo sono necessariamente; ma, al contrario, in essi può costruirsi, nonostante tutti i problemi, una comunione straordinariamente forte. Infine: qui ho imparato particolarmente come ai dati di fatto si possa sempre far fronte, e che sono soltanto la preoccupazione e la paura davanti ad essi ad ingrandirli enormemente. 

Da quando ci svegliamo a quando ci addormentiamo, dobbiamo semplicemente affidare a Dio gli altri uomini e lasciarli nelle sue mani, e far sì che dalle nostre preoccupazioni per gli altri nascano preghiere a lui. ‘Con preoccupazioni e con pene… Dio non si lascia carpire nulla’.

È buio dentro di me,
ma presso di te c’è luce.
Sono solo,
ma tu non mi abbandoni.
Sono impaurito,
ma presso di te c’è aiuto.
Sono inquieto,
ma presso di te c’è pace.
In me c’è amarezza,
ma presso di te c’è pazienza.
Io non comprendo le tue vie,
ma tu conosci la mia via.

Attendarsi nell’Assenza

“Si sbaglia quando si dice che Dio riempie il vuoto”. Dalla penna di un uomo ormai già segnalato per la soppressione, sgorga ciò che il suo cuore percepisce come ineludibile, ciò che egli percepisce e vive come necessarium, ciò che deve essere consegnato come scintilla di vita a coloro che ama e da cui si deve ormai staccare. Dio non riempie affatto il vuoto “anzi lo mantiene appunto aperto e ci aiuta in questo modo a conservare l’autentica comunione tra di noi, sia pure nel dolore”. Dio, volutamente, tiene spalancato il vuoto: non lo riempie e non lo vuole riempire perché precluderebbe un’autentica comunione. Quella autentica, quella in qualche modo “certificata”, richiede, differentemente dal pensiero e dalla prassi (quasi) unanime, uno stazionamento voluto quanto sofferto, nello “spalancato vuoto”: senza appigli, senza sapere in anticipo quanto e come il vuoto sia vuoto, e quando e se il vuoto si tramuterà in pienezza o in altro.

Nell’abitare questo (divino) crepaccio, nell’attendarsi nella frattura di una assenza, Dio ci aiuta a conservare la comunione tra noi “sia pure nel dolore”. Quante improvvide e intempestive velocizzazioni o rallentamenti, anche nella nostra quotidianità, per rabberciare o far sopravvivere alcune nostre relazioni: parole che infrangono gli altrui e propri silenzi, che cadono come randellate sulle parole che dovrebbero dirsi o dovrebbero essere ascoltate. Un autentico horror vacui riempito con le modalità le più variegate e, talvolta, le meno sagge.

Ma il non sempre comodo domicilio nella fenditura dell’assenza (ma che talvolta è un vero e proprio abisso), resta, e a maggior ragione, l’ineludibile e feconda propedeutica per “conservare l’autentica comunione”, proprio con colui che è Presente ma (quasi) sempre rivestito di assenza. È in questa caparbia volontà di non demonizzare il gravame dell’assenza, che si “conserva” – per usare il medesimo vocabolo di Bonhoeffer – la comunione con Dio.

Anche in questo Natale lumitenebroso, sarà davvero festa, se non invocheremo Dio perché riempia il vuoto, ma se lo invocheremo perché lo custodisca spalancato e ci dia semplicemente di abitarlo, così da conservare autentica comunione con Lui e con i fratelli e le sorelle che intessono di sé la nostra storia. Diversamente, sottolinea il martire della Chiesa Confessante, si sbaglia. Errore plurale, non solo di prospettiva, ma dai risvolti esistenziali e spirituali tanto rovinosi da inficiare troppe storie discepolari.

Il “fattore G”

Ma sarà solo il “fattore G” – mi perdonerà l’Autore, perché nella sua corposa lingua, sarebbe il “fattore D”, Dankbarkeit… – a poter trasformare la sanguinolenta ferita della memoria in gioia serena: “La gratitudine trasforma il tormento del ricordo in una gioia silenziosa. Portiamo allora dentro di noi la bellezza del passato non come una spina, ma come un dono prezioso”. È solo la memoria che si fa ri-conoscente, a cicatrizzare la ferita. Solo allora, la ferita diventa feritoia di luce. Riandando a ciò che immeritatamente e incondizionatamente si è ricevuto in dono – da Dio come salvezza e grazia incommensurabile, dagli altri come benevolenza e prossimità non dovuta – che si converte e trasfigura il tormento in festa né caotica né chiassosa, ma quieta, tranquilla, rigenerante. In gioia silenziosa.

Senza “fattore G”, senza gratitudine, il “tormento del ricordo” può produrre frutti avvelenati: rammarico, inadeguatezza, rimpianto, amarezza, disappunto, rabbia… Verso Dio che “non si fa né vedere né sentire”, rendendosi, quindi, assente; verso chi mi ha amato e, per motivi noti o non noti ma, sempre, a me avversi, si è strappato da me, infliggendomi la pena dell’abbandono. Una dolorosissima spina conficcata nell’anima, nel cuore, nella testa, nelle membra.

La “bellezza del passato”, tutti quegli ineffabili momenti di vita, di libertà, di verità e di amore offertimi da Dio e da coloro che mi hanno offerto la loro attenzione, si riattiva come fonte preziosa di vita, quando ridiventiamo consapevoli di essere stati oggetto di un dono. Solo nella raggiunta persuasione del dono ricevuto, la spina smette di ferire e diventa, invece, motivo di ulteriore, insperata bellezza.

Solo quando si è proprio sicuri di questo inesausto serbatoio di vita, autentico “tesoro nascosto”, allora si smette di “frugare nel passato, [di] consegnarsi ad esso, così come un dono prezioso non lo si rimira continuamente, ma solo in momenti particolari”. Non si riapre una cassaforte ogni dieci minuti, spinti dal tarlo del dubbio che, il prezioso contenuto, o non sia mai stato depositato lì, o sia stato nel frattempo trafugato, o sia misteriosamente sparito. Sarebbe una indisciplina che tradirebbe solo l’assoluta incertezza di possedere il tesoro. Non si fruga senza soluzione di continuità nel cassetto del cuore, né ci si consegna a corpo morto al passato, come se il presente fosse ostile, fonte di insuccesso, inadeguato a ciò che si è già vissuto. In questo modo, dal passato non “si irradiano una gioia e una forza durature”. Ma ognuno di noi necessita, per vivere, di una forza duratura e di una gioia sorgiva.

L’esperienza del credente Bonhoeffer, proprio in quella vigilia del Natale del ‘43, ci esemplifica un criterio irrinunciabile di vita per chi intende fidarsi e affidarsi al Dio raccontatoci dal Signore Gesù. Sperimentare il silenzio di Dio e il suo rivestirsi di assenza, come anche maledire la perdita – definitiva o temporanea – di relazioni significative, non è necessariamente né una sottrazione né la premessa del peggio: “i periodi di separazione non sono perduti e sterili per la vita in comune […] ma, al contrario, in essi può costruirsi, nonostante tutti i problemi, una comunione straordinariamente forte”. Molti e gravi possono essere i problemi da affrontare, eppure si può essere in grado di sperimentare, proprio nella complessità del problema in cui ci si dibatte, una comunione straordinariamente forte, generata, costruita e consolidata – quanto paradossalmente l’esperienza ce lo insegna! – proprio dalla e nella gravosità drammatica di ciò che, di problematico, si sta vivendo. Bonhoeffer, dall’altezza di quell’acme esistenziale di cui abbiamo testimonianza, confessa di aver sperimentato tante volte la fortezza comunionale che fluisce dall’ordinarietà della vita. Ma in quel frangente così inedito e angosciante che vive a Tegel, confessa – e, credibilmente, senza infingimenti di maniera data la situazione – la consapevolezza di esperire una “comunione stra-ordinariamente forte”. Mentre tutto annuncia fine, fallimento e rottura di affetti, di legami e di prospettive, Dietrich confessa di vivere una comunione fuori dell’ordinario. Davvero nulla di “perduto e di sterile”. Tutt’altro!

Ma perché nell’assenza si scorga la Presenza, perché nella complessità della vita personale e comunitaria, il “fattore G” possa risvegliare, rigenerare e rilanciare la vita, perché la stra-ordinarietà di una comunione forte possa essere sperimentata anche quando tutto parrebbe essere votato alla disfatta, al fallimento, all’impossibilità di vita e di amore, resta necessario sempre e ancora sempre, ben oltre il tempo di Avvento e di Natale, sì, sempre e sempre più, vigilare.

Vigilare perché il buio è fitto e dunque, poter scorgere tempestivamente da dove sorge la luce; vigilare perché il cuore è pesante, per poter individuare chi possa davvero alleggerirlo, sostenerlo, custodirlo; vigilare perché in ogni separazione, o allontanamento o frattura possiamo intravedere, oltre la perdita e la sterilità, le possibilità, di vita, di bene, di futuro ancora criptate ma presenti.

Anche quest’anno, nel cuore della santissima notte, veglieremo vigilando. Nella liturgia della Parola della divina Eucarestia, daremo parole alla Parola, l’ascolteremo e questa ci parlerà. E in quell’ora già irrimediabilmente intrisa di buio, sia nella prima lettura sia nella pagina evangelica, ci verrà detto che, tenebre e luce, si affrontano: nel profeta Isaia, un popolo che vaga nelle tenebre, viene abbagliato da “una grande luce” (Is 9,11); in Luca, mentre i pastori sono immersi nelle tenebre badando alle greggi, al rendersi presente dell’angelo, vengono come “avvolti/circonfusi” – perièlampsen – di luce (Lc 2,9). Abbiamo necessità di essere illuminati, per comprendere meglio e per poter vivere meglio ancora.

Ma quando se non oggi, se non ora, se non sempre?

Vigilare. Oggi

Come ogni anno, l’Avvento mette in crisi il nostro presente, l’oggi. E in questo nostro oggi c’è da ripesare, da ripensare, da purificare e convertire non realtà di contorno, ma atteggiamenti essenziali. Il Salmo 84, ammonisce un presente saturo del giudizio di Dio: “Rialzaci, Dio nostra salvezza, e placa il tuo sdegno verso di noi, di età in età estenderai il tuo sdegno?” (Sal 84,5-6). Emerge, nitida, l’identità e la missione della comunità cristiana e del/la singolo/a discepolo/a del Signore: offrire al nostro tempo un giudizio critico ma non di critica su un presente ancora (più) impoverito di umanità e perciò stesso impoverito di Dio e della sua forza risanante; un presente che, proprio perché depotenziato di umanità, frena e smentisce l’irruzione salvifica del Regno nella persona di Gesù di Nazaret.

San Paolo VI parlava della Chiesa come di “esperta di umanità”. Non credo ci possa essere più felice espressione per identificare una comunità cristiana. No. Non può esserci. Non deve esserci. Ogni nostra comunità può, dunque, mettere in crisi e senza criticare, un oggi dis-umanizzato e privo di speranza, ma solo a patto di vivere nel presente, una misura alta – la più alta possibile – di umanità, tra noi e con coloro che il Signore ci dona da amare e servire. Ogni nostra comunità così umanizzata, umanizza.

Come i profeti, così nella Chiesa, ogni comunità resasi disponibile per il Vangelo, annuncia nell’oggi inquieto degli uomini, il giudizio di Dio, giudizio che salva e che traccia strade per il ritorno a lui: “Signore, sei stato buono con la tua terra, hai ricondotto i deportati di Giacobbe. Hai perdonato l’iniquità del tuo popolo, hai cancellato tutti i suoi peccati. Hai deposto tutto il tuo sdegno e messo fine alla tua grande ira” (Sal 84,1-4).

Come Maria, ogni comunità incarna il Verbo della vita nel tribolato oggi dei popoli, in un presente che è sempre gravido di un Dio da generare, non fuori dell’oggi, non oltre l’oggi, non nonostante l’oggi.

Come il Battista lo indichiamo presente come “Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”, nell’oggi incerto di questo nostro tempo. A patto che ogni nostra comunità cresca come esperta di umanità. È, questo, un “lusso” che ci possiamo permettere, ma nella misura in cui sempre e sempre più, veniamo ri-umanizzati dal Verbo della vita e dal salvifico Corpo del Signore. Al termine dell’Avvento, solo se vissuto intensamente e perché toccati dall’intima gioia della buona Notizia, possiamo giungere a cantare nel giorno santo del Natale, insieme all’intera Chiesa: “Oggi sapete che il Signore viene a salvarci” (Introito della messa vespertina della Vigilia); “Oggi è nato per voi un salvatore” (Vangelo della notte); “Oggi su di noi splenderà la luce, perché è nato per noi il Signore” (Introito della messa dell’aurora); “Oggi Cristo è nato, è apparso il Salvatore; oggi sulla terra cantano gli angeli… oggi esultano i giusti” (antifona al Magnificat dei secondi Vespri di Natale).

Il tempo santo dell’Avvento che precede il Natale, riporta alla soglia della nostra attenzione di credenti, quell’atteggiamento che i testi biblici e liturgici indicano come vigilanza. È interessante notare che, quanto il Primo Testamento offre tanta importanza al sonno e ai sogni come “orizzonte profetico”, privilegiato da Dio per svelare le sue intenzioni, tanto il Signore Gesù, nel Nuovo Testamento, inviti pressantemente a non dormire, non ubriacarsi, non dissiparsi, non distrarsi, vegliare, essere pronti, non perdere d’occhio, custodire, conservare, tutelare, proteggere, interessarsi, salvaguardare…

Il credente sa che vigilare come il Signore chiede, non corrisponde né all’apprensione, né all’inquietudine, né al turbamento. La pagina evangelica della prima domenica di Avvento, ci ha indicato la giusta traiettoria per inoltrarci sapientemente nella vigilanza fruttuosa che ci ha preparato al Natale: “È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare” (Mc 13,34). Benedetta partenza! Egli ci ha posto nelle mani “la propria casa”, tutto ciò che aveva di più prezioso e di pià caro. Di più suo! Sarebbe sano non vigilare sul tesoro che il Signore ci ha posto nelle mani? Come potremmo ubriacarci, dormire, dissiparci, perdere d’occhio, sperperare, manipolare e rovinare la grandezza, la bellezza e l’unicità di questo lascito? Come potremmo abituarci ai tesori di Cristo? Come potremmo assopirci dimenticando che ormai egli opera con le nostre mani e suggerisce con le nostre labbra?

Vigilare oggi, nella complessità e nell’esigenza di autenticità di questo crudissimo Avvento, significa avere occhi aperti, cuore sveglio e mani laboriose. In particolare dove viviamo, ma con gli occhi “lunghi” fino a scavalcare la nostra comfort-zone, il cuore “dilatato” fino alle medesime latitudini frequentate da Dio, le mani industriose di quella operosità non faccendiera, non tronfia ma umile, discreta, fattiva.

Vigilare oggi significa rimanere credenti nella notte, con l’unica strumentazione necessaria che il Signore consegna a chi sta nella condizione di tenebra (come è, spesso, la nostra vita): la sua Parola, che è “lampada ai miei passi” (Sl 118,105). È nell’impenetrabile buio di questa ora infame che si colloca il tempo e il luogo della nostra fede. E, per continuare a credere anche nelle tenebre, il Signore ci dona, ogni giorno, la sua Parola. Non siamo stati noi a scegliere la difficile condizione di essere credenti nella notte, ma a noi spetta il posizionarci, come Dio vuole, ricchi solo della luce e della forza della Parola. Ma questa è, e resta, appunto, lampada: data e offerta non per tutto vedere, tutto illuminare, su tutto, spocchiosamente, discettare. La lampada offre luce quanto basta per sapere dove porre i piedi, dove muoversi per non essere inghiottiti dalle tenebre. Quanto basta per piacere al Signore.

Vigilare oggi ci rende più consapevoli che la nostra fede, generata dalla Parola, non è una batteria di riflettori abbaglianti o come quelle sorprendenti cascate di luce prodotte dalla lanterna di Fresnel che, nei teatri, illuminano più che a giorno, fino ad accecare… No. La Parola è una tenue fiammella che permette di intravedere, di scorgere, di avvistare e non di vedere tutto come in piena luce, istantaneamente e con chiarezza assoluta. Ciò significa che, chi vigila, impara a dismettere la convinzione di presumere di possedere tra le mani tutta la verità e di esserne l’unico depositario e l’unico paladino. Con la lampada della fede accesa dalla Parola, possiamo non cedere alla tentazione di voler vedere e sapere tutto, perché allora non ci muoveremmo più nell’intervallo della fede, ma della trasparenza dell’evidenza. Condizione, evidentemente, non umana ma ultraterrena.

Vigilare oggi in questo tempo dove tutto è strillato, tutto è amplificato, tutto è esagerato, ci spinge a fare memoria che il Maestro “istituendoci credenti nella notte, vuole che la sua parola, il suo evangelo si misuri con il silenzio della notte. L’evangelo non è un’ideologia di cui far propaganda nelle piazze, non è un prodotto da svendere sul mercato e per questo non va né gridato né sbandierato. L’evangelo è una buona notizia, e la notizia buona la si racconta. Un racconto si addice più all’intimità e al silenzio della notte che alla piazza affollata di gente nell’ora di mezzogiorno. Vegliare in questo Avvento sarà dunque per noi saper raccontare l’evangelo senza infrangere il silenzio della notte […] Gesù fa di noi dei credenti nella notte in attesa, e colui che attende, fa anzitutto l’esperienza dell’assenza, della mancanza, del vuoto, del non avere tutto e subito. Attendere è sempre invocare una presenza, una pienezza, un compimento. Essere credenti in attesa significa, allora, stare nel mondo non come chi possiede già tutto e non ha nulla da aspettarsi, ma come coloro che mancano non solo di qualcosa, ma mancano dell’essenziale: del loro unico Signore. Noi credenti spesso stanchi, delusi a volte frustrati da duemila anni di attesa, siamo tentati di colmare questa mancanza, di riempire questo vuoto tanto difficile da sostenere. L’apostolo Pietro già conosceva la fatica di rimanere cristiani in attesa e scriveva alla sua comunità: ‘Verranno negli ultimi giorni schernitori beffardi … e diranno: Dov’è la promessa della sua venuta?’” (E. Bianchi).

Vigilanti e vigiliari

Possiamo proprio dire, allora, che la vigilanza, nella Rivelazione, appare come l’atteggiamento proprio del credente, il suo habitus. E ogni battezzato può, a pieno titolo, rivendicare per sé la funzione di vigilante: l’essere tale ci identifica, ci racconta, ci spiega. Perché chi vigila, spera; chi vigila è animato dall’insopprimibile desiderio di ri-incontrare; chi vigila è certo che ciò che deve av-venire, verrà e non tarderà.

Come, anche, e a pieno titolo, ci compete l’essere vigiliari: donne e uomini che pre-annunciano la festa, la solidarietà, la fraternità, la salvezza e la pre-dicono anticipandola nella loro vita, la certificano già attivanei loro stili, nelle loro scelte, nei loro affetti, nella loro postura dentro la storia. Vigiliari perché pre-festivi, perché autentica festa per altri.

Riunificati nel cuore dall’ascolto della Parola, interiormente attenti alle sue esigenze, noi vigilanti e vigiliari, tentiamo di vivere, prendendo seriamente Dio, gli altri, noi stessi, la storia e ogni storia. Diventiamo così,via via, sempre più consapevoli di doverci prendere cura di altro-da-noi, vigilando su altre sorelle e altri fratelli, per camminare con loro, per custodirli, per consolarli, per invitarli alla festa, per essere, noi stessi, festa per loro.

La familiarità con i testi biblici vissuta in queste settimane, ci ricorda che le espressioni “vigilare”, “essere pronti”, “essere svegli” – ben diversamente dall’uso corrente – non evocano diffidenza, sospetto, impaurimento. Non suonano come inquietante spauracchio o minaccioso ammonimento. Al contrario, nella logica della rivelazione ebraico-cristiana, la vigilanza rivendica, per la persona umana, la capacità di saper e poter cogliere e ac-cogliere Dio che si offre come dono di gratuità, come visita inattesa e sempre salvifica, come eccedenza di vita che irrompe nelle vite. È la vigilanza che ci rende “vigiliari”, pre-monitori credibili di vita, di gioia e di salvezza realmente sperimentata.

Il nocciolo incandescente, la “buona notizia” del discepolato cristiano, è proprio questo: accogliere il dono che è Dio, accogliere Dio come dono. La nostra chiamata non è a fare o a non fare qualcosa, quanto piuttosto, a spalancare cuore, mani e spazi vitali per diventare aperti e disponibili a questo Dono. Capiamo dunque perché questo tempo liturgico di ad-ventus, di ad-divenire del Dono ci spinga a vigilare. Nella Scrittura santa, il contrario di vigilare non è tanto il dormire, quanto piuttosto la distrazione, la dissipazione, la fuga dal centro, dimenticando l’essenziale perché non (più) intravisto. È il sonno e l’ottundimento dello spirito. Quanti testi profetici, sapienziali ed evangelici ci ricordano che Dio stesso vigila, è “sentinella”, è all’erta perché sempre cura, mai dimentica, mai abbandona.

 Dio vigila sull’umanità per accompagnarla, per recuperarla perché non si rassegna che qualcuno vada perduto; Dio vigila sulla sua Parola per mandarla ad effetto; Dio vigila perché è pastore buono che non vuole che il lupo gli sbrani le pecore; Dio vigila perché nulla ha di più caro che l’umano; Dio vigila perché chi si è allontanato ritorni e si ritrovi; Dio vigila perché solo ama, sempre ama.

La vigilanza riproposta dall’Avvento, è dunque apertura e risposta attiva e dinamica al Vigilante, a Dio che vigila. È di questa nostra diuturna imitatio che, Dio stesso, gioisce dicendoci che è possibile non desistere. Per capire senza fraintendimenti, per capire di non aver ancora capito bene, per discernere come stare da umani e da credenti dentro una storia complessa, frammentata, di difficile decodificazione: “Vivere nell’attesa del ritorno del Signore non è fuga dalla storia: è vivere più pienamente la storia nell’orizzonte del suo destino ultimo. L’atteggiamento evangelico della vigilanza, fonda così un’etica del discernimento: chi attende il Signore si sa chiamato a vivere responsabilmente, ogni atto, alla presenza del suo Dio, e comprende che il valore supremo di ogni scelta morale sta nello sforzo di piacere a Dio e di santificare il suo Nome compiendo la sua volontà. Dio, quale orizzonte ultimo e patria vera, diviene il criterio della decisione morale; il discernimento di ciò che è penultimo rispetto a ciò che è ultimo e definitivo si offre come la forma concreta in cui si esercita la responsabilità etica” (C.M. Martini).

Ma vigilare perché il Signore è veniente, è il Veniente, non significa trascurare il qui-e-ora, deprezzare o peggio disprezzare il “nostro” tempo (l’unico che ci sia dato). Al contrario. Dobbiamo vigilare per tenerci pronti per gli interventi ravvicinati di Dio nella nostra quotidianità, lui che ci passa accanto rivestito della ferialità del tempo umano e mai nell’appariscenza, nell’eclatanza, nella prepotenza, sì da attrarre l’attenzione. Vigilare è l’unico antidoto contro il trascurare: Dio, gli altri, se stessi. Solo chi vigila diventa responsabile verso la storia, dando risposta ad ogni segmento di storia incrociata.

Chi vigila lo fa innanzitutto su di sé, perché il vero nemico è in se stessi, non fuori.

Chi vigila aderisce alla realtà, senza sgattaiolare nella fantasticheria.

Chi vigila si rimbocca le maniche senza paura di sporcarsi, né di perdere i gradi.

Chi vigila ri-conosce gli indizi e le orme del Dio vivente, dentro le pieghe e le piaghe della storia.

Chi vigila sa prendere adeguatamente tra le dita le trame dell’esistenza quotidiana, vivendola non come storiella o come storiaccia,ma come storia di salvezza. Come storia salvata.

Chi vigila può permettersi il lusso di vivere intensamente il presente, ma tenendo lo sguardo rivolto all’incontro definitivo.

Chi vigila non svaluta né presente né passato, e può diventare libero cittadino del futuro perché affrancato dall’ansia per il domani.

Chi vigila si accoglie senza compiacersi di sé, fiorendo così al cambiamento, alla conversione, alla novità.

Chi vigila ha il domicilio in una illuminata pazienza e, insieme, in una urgenza quasi impaziente, perché ormai libero prigioniero della speranza.

Chi vigila sa che l’unico tempo su cui ha effettivo potere è l’adesso, quel presente di cui sa cogliere il senso, leggendovi in trasparenza le attese e le speranze terrene, illuminandole proprio nel loro essere penultime, nella loro peculiare dignità, che è sempre quella di rinviare ad un oltre, ad un Altro.

Chi vigila vive capace di ascolto, trovando sempre la scelta più umana e umanizzante, tra le molteplici che il vissuto pone tra le mani.

Chi vigila diventa umano ma, mai appagato dell’umanità raggiunta, ne brama ancora e ancora e ne mette in circolo ancora e ancora. Perché “troppo umano” è solo Dio.

Chi vigila fa di tutto per farsi compagno della verità, ma mai dimenticando che la verità si può solo servire, senza mai servirsene.

Chi vigila non si consegna a corpo morto al torpore dell’immediato e allo scintillio dell’apparenza, perché il suo domicilio è l’ulteriorità di Dio.

Chi vigila sa che Dio c’è, ma c’è da Dio: mai addomesticabile, mai prêt-à-porter, mai a proprio servizio, mai a propria immagine e somiglianza.

Chi vigila è sanato dalla follia della grandiosità, iniziando a godere la meraviglia della vita nella sua piccolezza e fragilità, senza più infastidirsene.

Chi vigila riesce a strapparsi dalla sigillata corazza della propria pelle e ad affacciarsi sull’infinito di Dio e dell’uomo.

Chi vigila sa di doversi disfare di infinite, inutili vacuità che non saziano, per aprire gli occhi sulle inestimabili ricchezze rimaste seppellite dal sovrappeso (mortifero) delle vanità.

Chi vigila vive sempre inizi, senza essere sgretolato dal tarlo dell’incompiuto, scoprendo che la fedeltà all’umano e al Vangelo è tutta nella perseveranza che non si stanca di ri-iniziare.

Chi vigila apprende che il peccato, ogni peccato, non è infrazione di una regola, ma spappolamento del sogno che Dio ha sognato, sognandoci.

Chi vigila sperimenta che ogni chiusura in sé, è amarissima atrofia del vivere.

Chi vigila non si scandalizza della via lenta del seme e, nel cuore dell’inverno, già intravede il grano che spunterà.

Chi vigila non si scandalizza del Dio-bambino, del Dio-carpentiere, del Dio-che piange, del Dio-deriso, del Dio-crocifisso, del Dio-risorto… Semplicemente, attende.

Chi vigila non viene derubato di sé, ma riceve in dono sé stesso in una misura mai compiuta.

Chi vigila esulta perché l’inconcepibile è Concepito, perché la Vergine partorisce, perché Giuseppe il giusto, sognando, sogna i sogni di Dio. E gli obbedisce.

Chi vigila scorge in chi vive attorno a sé, sillabe di Dio, messaggeri di infinito, portavoce di invisibile.

Chi vigila intercetta lo spropositato amore di sé, della propria immagine e vi pone mano senza indugio.

Chi vigila non ha bisogno di essere violento: è forte perché è mite. Il bene lo ha così interiormente con-vinto da essere convincente anche quando deriso, beffeggiato, umiliato. E mai si sentirà svilito e frustrato.

Chi vigila ha cura di sé, del bambino che lo abita, dell’infinità che lo pervade, del di più che lo reclama.

Chi vigila è capace di sdegnarsi per ogni ingiustizia, per ogni sopraffazione, per ogni manipolazione e, insieme, è capace del coraggio di fare altrimenti e di cambiare registro.

Chi vigila scopre le sorprese di Dio.

L’onnipotenza in fasce

Dio sorprende senza sosta e dà appuntamento lì dove proprio mai si sarebbe pensato potesse essere. Qualcuno poteva, forse, immaginarsi che l’Altissimo avrebbe potuto prendere sul serio le rimostranze di un’accozzaglia di tribù turbolente, soggiogate forzatamente per fare mattoni per le faraoniche – è proprio il caso di dirlo – costruzioni egiziane? Qualcuno poteva, forse, supporre che quel Mosè, ricercato per omicidio e braccato come destabilizzatore dell’establishment, sarebbe potuto diventare non solo liberatore, non solo legislatore, ma anche colui che avrebbe potuto parlare con Dio “bocca a bocca” e da Dio stesso essere indicato come il più mite e umile degli uomini? Qualcuno poteva presupporre che nel casato di Jesse il betlemmita, sarebbe stato scelto – tra l’altro in contumacia perché al pascolo – e poi unto re dal profeta Samuele, proprio Davide, l’ultimo dei figli, a preferenza dei suoi fratelli, uomini fatti e finiti, atti alla guerra e ben piazzati? Qualcuno avrebbe potuto dar credito a quei Giudici e Giudicesse che, al loro stesso dire, si sentivano del tutto impari a far fronte sia alle sconsideratezze idolatriche dei membri del proprio popolo, sia agli attacchi crudeli dei loro infidi confinanti?

Ma a Natale, la sorpresa di Dio è davvero inconcepibile: Dio-carne, Dio-uomo, Dio-con-noi, Dio-in-fasce! Il Bambino in fasce, per coloro che presumono di sapere di Dio, è la sorpresa delle sorprese. Il Bambino della mangiatoia è colui che già anticipa gli stili e le scelte di Dio: colui che in vita non avrà dove posare il capo, povero come le volpi e gli uccelli che pure hanno tane e nidi (Lc 9,58). Anche la tomba dove verrà posto non gli appartiene e sarà prestata (Mt 27,60). È colui che sta fuori della porta e bussa attendendo e, se l’inquilino vorrà, sgancerà il chiavistello (Ap 3,20)…

È inaudito, è, realmente, ab-surdus! In questa medesima occasione, nel 2017, ci siamo soffermati, un po’ puntigliosamente dato il loro peso nel racconto evangelico, sulle fasce del presepio e sulla mangiatoia: fasce gloriose, fasce amorose, fasce mortali, per scoprire l’onnipotenza dell’Amore rivestitasi e celatasi proprio in quelle fasce. Insieme a tutti quei possibili s-fasci che, nella comunità credente, si innescano ogni qual volta le fasce vengono occultate, fraintese, sostituite. E ammonivo: guai s-fasciarci!

“Egli si è fatto uomo, è diventato uno di noi. E, per farlo, ha scelto un popolo, una terra, un momento storico. Ha avuto bisogno di una famiglia, di una madre e di un uomo che gli facesse da padre, due creature che gli offrissero affetto e cure, cibo e sostegno e lo preparassero alla vita. La perfezione, la potenza, la grandezza di Dio si è rivelata nella carne di un uomo. È il mistero dell’Incarnazione, mistero del Natale: ognuno di noi viene messo davanti ad un amore smisurato che vuole raggiungere ogni creatura e, per farlo, affronta disarmato e disarmante la nostra esistenza, le nostre vicende, i nostri limiti. Dio entra nella nostra vita per farci entrare nella sua. La lunga attesa è terminata, ma c’è l’inatteso. Si sperava l’onnipotente, Dio ci manda un bambino. Si sperava lo straordinario, e Dio viene nel quotidiano. Si attendeva qualcuno su cui appoggiarsi, ed ecco che egli ha bisogno di noi, bisogno di amore, bisogno di tenerezza, di una donna e di un uomo. Alcuni pastori che vegliano capiscono. Gli ultimi sono dunque i primi e i rifiutati sono finalmente riconosciuti” (R. Laurita).

Leggevo tempo fa, in una fonte anonima: “tutti vogliono crescere nel mondo: ogni bambino vuole essere uomo. Ogni uomo vuole essere re. Ogni re vuole essere ‘dio’. Solo Dio vuole essere bambino”. È qui l’incontenibile forza del Natale: Dio nella piccolezza. Il Creatore-vasaio che usa l’argilla per dare forma e vita all’Adam, ora, lui stesso, si fa piccolo vaso d’argilla, fragile e unico come ogni creatura che si affaccia sulla terra. Su quella carne si china la tenerezza e l’affetto invincibile di una madre e di un padre. Che faranno le cose semplici, e indispensabili che ogni mamma e papà compiono quando danno alla luce la loro creatura: la mamma lo nutrirà di latte, di carezze e di sorrisi e suo padre con il coinvolgimento nella vita, nel lavoro e con l’inserimento sereno nelle dinamiche della comunità. Il piccolo Gesù sopravviverà sulla terra, semplicemente perché Maria e Giuseppe se lo sono presi a cuore, ne hanno avuto cura. Lo hanno amato. Potrà diventare uomo e vivere la sua vita solo perché, come ogni figlio preso sul serio, viene introdotto, senza sosta, nella vita attraverso la loro attenzione larga e benevola. “Dio vive per il nostro amore. Tocca agli uomini prendersi cura di Dio. Dio viene ed è subito, con tutto se stesso, solo mendicante d’amore. Dio si mette nelle tue mani, vivrà se tu lo ami. Tu puoi essere la culla o la tomba di Dio” (E. Ronchi).

No, non sono state le schiere angeliche, specializzate in nursery, a prendersi cura del piccolo Gesù, ma due giovani inesperti e innamorati: il Verbo di Dio si è fatto bisognoso di cura, di tenerezza. Di umano.

Maria “depose” il Bambino “nella mangiatoia” (Lc 2,7). Il verbo anéclinen usato da Luca, indica il porsi a tavola, l’accomodarsi, come anche il gesto compiuto dal padrone di casa che mette a proprio agio gli ospiti, e li invita a prendere comodamente posto. Anéclinen è il gesto di chi imbandisce la tavola, di chi prepara l’ambiente, di chi porge la mano e dà il benvenuto: “Accòmodati!”. È l’esplicito segno di dichiarare all’ospite il gradimento e la gioia della sua presenza, mettendolo a proprio agio. È farlo sentire di casa.

Maria anéclinen il figlio in una mangiatoia: per Luca non si tratta semplicemente di aver trovato un indispensabile sostitutivo alla culla per Gesù, visto che si trovano in una situazione molto avara di comodità. La mangiatoia (phàtne) evoca la tavola imbandita, il pasto; è allusiva alla mensa che il neonato cresciuto, imbandirà per i suoi, facendosi lui stesso mangiabile. C’è un rimando, neppure troppo velato, al Pane della vita, quel pane che si rende disponibile ad ogni umano che deve potersi nutrire per continuare il cammino. È il Panis viatorum, il Pane dei pellegrini. È cifra dell’Eucarestia.

Luca, in Maria che anéclinen il bimbo nella mangiatoia, già vede l’inizio della festa, già annuncia che il bambino sarà corpo spezzato e sangue versato per la vita del mondo. Gesù, “deposto nella mangiatoia”, è già tavola imbandita e cibo sostanziale per quei tutti per i quali deporrà sé stesso in dono.

 “Il pane è un segno bellissimo e terribile. Passa attraverso la macina e il fuoco, fa vivere e si annulla, nutre e scompare. Dio come pane ti alimenta e scompare in te. Fino a questo punto va l’Incarnazione! L’amore non ha protetto Dio, lo ha esposto. L’amore espone e disarma, e mette Dio a rischio perfino di essere rifiutato. Ma Dio, lui, non potrà mai rifiutare l’uomo. Questa è la forza invincibile del Natale. Il Verbo si è fatto pane. Non so spiegare, ma è così bello! Guardo il Bambino, il neonato che cerca il latte della madre, e dico: il Verbo si è fatto fame […] È nella mangiatoia che s’intrecciano esclusione e comunione, che saranno, per tutta la sua vita, la caratteristica di Gesù. Fasce e mangiatoia incarnano la cifra di un Dio innamorato di quotidiano, ma contengono anche un anticipo del Vangelo totale. Tanto è vero che in molte icone orientali della Natività, il Bambino è deposto in una culla che ha la forma di un sarcofago ed è avvolto in fasce esattamente come un defunto preparato per la tomba. Il mistero del Natale apre già sul mistero della Pasqua, il legno della mangiatoia evoca il legno della croce, la notte anticipa l’ora del buio su tutta la terra” (E. Ronchi).

Eredi di Erode

Mai e poi mai, Erode il “grande” o l’Ascalonita (così appellato perché nato ad Ashkelon nel 73 circa a.C.), avrebbe sognato di avere così tanti eredi in tutte le latitudini della Terra e sotto ogni cielo. Una progenie inestinguibile, sfrontata e, quasi (sempre), impunita.

A quante stragi degli innocenti dovremo ancora assistere? Quanto sdegno ancora dovremo provare davanti agli scenari infernali che ci subissano, con il tormento di non riuscire a far sì che lo sdegno diventi coraggio di parola e coraggio di azione? Più o meno, sono una sessantina i conflitti che in questo momento stanno sbriciolando l’umanità e che, inesorabilmente, paiono polverizzare l’umanità che ognuno di noi incarna.

Se è vero – e per noi è sommamente vero – che ogni persona umana che appare sulla terra, senza esclusione alcuna, è intrisa di quella luce increata, che le tenebre non hanno potuto vincere e che mai potranno spegnere, quella luce che “illumina ogni uomo” (Gv 1,9) perché proprio in quel bagliore “era la vita” (Gv 1,4); se realmente c’è un frammento di Vita, una particella di Unicità, una scintilla di Santità in ogni carne, qualcosa di Dio in ogni respiro umano; se è così superbamente splendida la vita, così da convincere Dio a farsi uno di noi, allora è davvero tempo che gli Eredi di Erode smettano di violentare la vita, di saccheggiare la speranza, di dissanguare di futuro quelle carni che stanno smembrando e riducendo in brandelli.

Le immagini che, anche a telegiornale concluso, insistono ad affollare cuore e testa, persistono nella memoria sconfinando nel sonno e consistono nel quasi totalizzante scenario quotidiano, in questo tempo di Natale non defluiscono, non mollano la presa e non diventano, neppure un tantino, né bucoliche, né romantiche, né diversamente interpretabili. E, tuttavia, il Vangelo, non può esservi dissociato. Mai.

Rivedo le folle, vocianti, lacere, terrorizzate, affamate e capaci di rara violenza, per una mela, un pomodoro, un pezzo di pane e, insieme, capaci di rara generosità nel condividere l’incondivisibile. Cercano acqua, la contendono, la sottraggono, la nascondono, la offrono, la cercano per altri…

Sì, il Verbo si è fatto pane e bevanda di vita. Si è sversato per sfamare e dissetare.

Rivedo le sale operatorie, che negli ospedali smettono di essere illuminate, non per mancanza di malati ma per l’incalcolabile eccesso di essi, perché i farmaci sono finiti, l’energia elettrica non ha più energie. Perché l’ospedale è solo una montagna informe di macerie…

Sì, il Verbo si è fatto vita, si è fatto luce.

Rivedo i fiumi di lacrime visti scorrere in questi anni, e aumentati a dismisura in questi ultimi due mesi. Lacrime di madri sui corpi di figli lacerati; lacrime di figli sulla fotografia della mamma, unica reliquia su cui poter versare il pianto; lacrime di medici che più non possono aiutare pazienti, se non per allinearli in fosse comuni… Ma le lacrime non hanno nazionalità, né appartenenza etnica, né colorazione politica. Sono lacrime. Sono dolore. Sono vita strappata. Sono quelle medesime lacrime di Gesù, versate sul suo amico Lazzaro, sono le medesime lacrime di Gesù su Gerusalemme, incapace di gioire della sua presenza…

Sì, il Verbo si è fatto lacrime.

Rivedo gli abbracci e i baci infiniti agli ostaggi rilasciati, ai figli ritrovati, ai genitori creduti morti e miracolosamente ricomparsi, agli amici scovati tra i cumuli di macerie e le cataste di cadaveri; come, anche, gli abbracci straziati e le mute carezze a, ormai, facsimili di cadaveri che, un minuto prima, erano corpi vivi, palpitanti, colmi di sogni e di futuro. E penso agli abbracci di Gesù a Betania, a Nain, a Nazaret e a quella carezza sugli occhi spenti del cieco nato, con quel po’ di fango e di saliva…

Sì, il Verbo si è fatto abbraccio, carezza, bacio, tenerezza.

Rivedo le croci divelte, le chiese sventrate, le moschee polverizzate, le sinagoghe collassate su se stesse… “Ecco l’Agnello che toglie il peccato del mondo”: ecco colui la cui carne è stata appesa, il cui corpo è stato posto in un sepolcro prestato, il cui cadavere è stato unto con amore indicibile da donne amiche…

Sì, il Verbo si è fatto Crocifisso e ha conosciuto la morte.

Rivedo fotogrammi di sguardi. Quanti sguardi! Di speranza, di terrore, di rabbia, di compassione, di sfida, di paura, di sollievo, di domanda, di impetrazione, di sconforto. Sguardi feroci, sguardi sconfitti, sguardi violati…

Sì, il Verbo si è fatto sguardo e il suo sguardo è lo sguardo di Dio.

Rivedo (con tormento) la straziante ecatombe di bambini. La loro incomputabilità è la nostra vergogna, la negazione della loro vita è l’asserzione della nostra dis-umanità, il terrore previo dell’attimo precedente la loro morte, è il nostro inferno sulla terra. A Natale, la Parola è un bambino che non sa parlare, che non può parlare. Lo stesso Eterno si fa in-fante, agnello afono. Che paura può fare un neonato? Che strategia di attacco può perpetrare? Vive solo se qualcuno lo ama e si prende cura di lui. E non lo uccide. Erode e i suoi Eredi continuano a uccidere gli innocenti. Quegli stessi innocenti, come l’Innocente, nati lontani dai palazzi del potere, abitatori di quasi-stalle ma che, proprio per la loro inviolabile presenza, diventano luoghi di Infinito, altari propiziatori, figli dell’Uomo. Che ancora, gli Eredi di Erode, uccidono.

Sì, il Verbo si è fatto Bambino e il Bambino, Agnello condotto al macello. Vertigine della storia

Rivedo l’impotenza (inerte? inerme? inattiva? inoperosa? insensibile? imbelle? infiacchita?) delle istituzioni: quelle locali, quelle regionali, quelle statali, quelle sovranazionali, quelle… tutto maiuscolo. Risento la loro sostanziale afonìa o, come dire, i loro goffi? calcolati? teatrali? doppiogiochisti? opportunisti? trasformisti? intenzionali? misurati? premeditati? tattici? voluti? interventi, silenzi, rettifiche, narrazioni e ri-narrazioni, precisazioni… Ragione da vendere aveva Tito Livio (Storie XXI,7,1): Dum [e qui, ogni centro di potere o di smistamento di potere, può essere lecitamente citato] consulitur, Saguntum expugnatur. Discorsi, affari, proclami e ancora morte, morte, morte.

Non possiamo però non ricordare che duemila anni fa, mentre nel cuore dell’Impero Romano si decidevano le sorti del mondo che contava, e si contenevano i popoli con armatissime legioni, è nato un Bambino e, come ebbe a scrivere padre Ronchi in un commento al Natale “in questo meccanismo perfettamente oliato cade un granello di sabbia, nasce un bambino, sufficiente a mutare la direzione della storia. La nuova capitale del mondo è Betlemme. Dio sembra giocare con la storia degli uomini! Ma è la sua misteriosa e mai revocata scelta: quella di fare storia con chi non ha storia, di scegliere ciò che nel mondo è debole per confondere i forti”.

Sì, il Verbo si è fatto granello per fare storia con chi non ha storia.

Solo una parola contundente: perché tutto ciò? Infiniti i discorsi possibili, mille i plausibili e dotti “distinguo”. La durezza del cuore non convertito, ben più che un indizio. La Buona notizia del Natale, una storia da abitare perché possa diventare risposta.

Rainer Maria Rilke, rispondendo al giovane Franz Xavier Kappus, così scrive: “Vorrei pregarla come posso, di essere paziente verso tutto l’insoluto nel suo cuore e di tentare di amare le domande stesse come stanze chiuse e come libri scritti in una lingua molto estranea. Non ricerchi ora le risposte, che non possono esserle date perché non le potrebbe vivere. Mentre si tratta di vivere tutto. Ora viva le domande. Forse così, a poco a poco, insensibilmente, si troverà un giorno lontano a vivere la risposta”.

Abitiamo tutti la domanda che è Gesù, perché a tutti coloro che domandano ragione della nostra fede, possiamo credibilmente, sapientemente, gioiosamente rispondere:  

A Natale Dio guadagna l’ultimo posto perché l’ultimo valga come Dio.

A Natale Dio inaugura una passione insana: quella per i poveri, i perseguitati, gli oppressi, gli esclusi e che diventerà incandescente sul monte delle Beatitudini e irrefrenabile il mattino di Pasqua.

A Natale Dio si fa uomo perché l’uomo diventi umano; prende un volto tra innumerevoli volti perché in ogni volto brilli il suo volto.

A Natale Dio invade umilmente la carne perché ogni carne cammini liberamente per vie di compassione, di mansuetudine, di pazienza e di benevolenza.

A Natale Dio libera il suo sogno e gli da corpo in un fragile frammento di carne umana. Così compie quel sogno di amore inciso in ogni cuore umano.

A Natale Dio diventa precario nella carne perché ogni carne venga assunta a tempo indeterminato da Dio stesso.

A Natale Dio consegna il suo desiderio: vuole che tutti siano riconosciuti grandi e importanti come è lui e accende nella carne il medesimo desiderio: apprezzare quelli che non contano, perché gli ultimi diventino primi e perché questi primi siano davvero umani.

A Natale Dio decreta che la storia, ormai, deve camminare “a rovescio”: se i pecorai sono gli invitati d’onore e i Magi porteranno i loro doni all’ultimo nato dell’impero romano, allora – e per sempre – gli idoli della ricchezza, del potere e del prestigio sono infranti.

Per sempre.

Il Veniente Signore e Salvatore tutti colmi di Sé e a ciascuno si doni come pace che guarisce e viatico verso il Regno. Fraternamente vi abbraccio nella luce di quella tenebraormaisquarciatache nessuno e nulla potrà più contenere

✠ padre Mauro Maria Morfino                                                              
vescovo di Alghero-Bosa