“Se ferocemente sperassimo insieme!” Il Messaggio di Natale del Vescovo Mauro Maria

Se ferocemente sperassimo insieme!

Tempo del primo avvento
tempo del secondo avvento
sempre tempo d’avvento:
esistenza, condizione
d’esilio e di rimpianto.

Anche il grano attende
anche l’albero attende
attendono anche le pietre
tutta la creazione attende.

Tempo del concepimento
di un Dio che ha sempre da nascere.

(Quando per la donna è giunta la sua ora
è in grande pressura
ma poi tutta la sua tristezza
si muterà in gaudio
perché è nato al mondo un uomo.)

Questo è il vero lungo inverno del mondo:
Avvento, tempo del desiderio
tempo di nostalgia e ricordi
(paradiso lontano e impossibile!)
Avvento, tempo di solitudine
e tenerezza e speranza.
Oh, se sperassimo tutti insieme
tutti la stessa speranza
e intensamente
ferocemente sperassimo
sperassimo con le pietre
e gli alberi e il grano sotto la neve
e gridassimo con la carne e il sangue
con gli occhi e le mani e il sangue;
sperassimo con tutte le viscere
con tutta la mente e il cuore
Lui solo sperassimo;
oh se sperassimo tutti insieme
con tutte le cose
sperassimo Lui solamente
desiderio dell’intera creazione;
e sperassimo con tutti i disperati
con tutti i carcerati
come i minatori quando escono
dalle viscere della terra,
sperassimo con la forza cieca
del morente che non vuol morire,
come l’innocente dopo il processo
in attesa della sentenza,
oppure con il condannato
avanti il plotone d’esecuzione
sicuro che i fucili non spareranno;
se sperassimo come l’amante
che ha l’amore lontano
e tutti insieme sperassimo,
a un punto solo
tutta la terra uomini
e ogni essere vivente
sperasse con noi
e foreste e fiumi e oceani,
la terra fosse un solo
oceano di speranza
e la speranza avesse una voce sola
un boato come quello del mare,
e tutti i fanciulli e quanti
non hanno favella
per prodigio
a un punto convenuto
tutti insieme
affamati malati disperati,
e quanti non hanno fede
ma ugualmente abbiano speranza
e con noi gridassero
astri e pietre,
purché di nuovo un silenzio altissimo
– il silenzio delle origini –
prima fasci la terra intera
e la notte sia al suo vertice;
quando ormai ogni motore riposi
e sia ucciso ogni rumore
ogni parola uccisa
– finito questo vaniloquio! –
e un silenzio mai prima udito
(anche il vento faccia silenzio
anche il mare abbia un attimo di silenzio,
un attimo che sarà la sospensione del mondo),
quando si farà questo
disperato silenzio
e stringerà il cuore della terra
e noi finalmente in quell’attimo dicessimo
quest’unica parola
perché delusi di ogni altra attesa
disperati di ogni altra speranza,
quando appunto così disperati
sperassimo e urlassimo
(ma tutti insieme
e a quel punto convenuti)
certi che non vale chiedere più nulla
ma solo quella cosa
allora appunto urlassimo
in nome di tutto il creato
(ma tutti insieme e a quel punto)
VIENI VIENI VIENI, Signore
vieni da qualunque parte del cielo
o degli abissi della terra
o dalle profondità di noi stessi
(ciò non importa) ma vieni,
urlassimo solo: VIENI!

Allora come il lampo guizza dall’oriente
fino all’occidente così sarà la sua venuta
e cavalcherà sulle nubi;
e il mare uscirà dai suoi confini
e il sole più non darà la sua luce
né la luna il suo chiarore
e le stelle cadranno fulminate
saranno scosse le potenze dei cieli.

E lo Spirito e la sposa dicano: Vieni!
e chi ascolta dica: vieni!
e chi ha sete venga
chi vuole attinga acqua di vita
per bagnarsi le labbra
e continuare a gridare: vieni!

Allora Egli non avrà neppure da dire
eccomi, vengo – perché già viene.

E così! Vieni Signore Gesù,
vieni nella nostra notte,
questa altissima notte
la lunga invincibile notte,
e questo silenzio del mondo
dove solo questa parola sia udita;
e neppure un fratello
conosce il volto del fratello
tanta è fitta la tenebra;
ma solo questa voce
quest’unica voce
questa sola voce si oda:

VIENI VIENI VIENI, Signore!
– Allora tutto si riaccenderà
alla sua luce
e il cielo di prima
e la terra di prima
non sono più
e non ci sarà più né lutto
né grido di dolore
perché le cose di prima passarono
e sarà tersa ogni lacrima dai nostri occhi
perché anche la morte non sarà più.
E una nuova città scenderà dal cielo
bella come una sposa
per la notte d’amore
(non più questi termitai
non più catene dolomitiche
di grattacieli
non più urli di sirene
non più guardie
a presiedere le porte
non più selve di ciminiere).

– Allora il nostro stesso desiderio
avrà bruciato tutte le cose di prima
e la terra arderà dentro un unico incendio
e anche i cieli bruceranno
in quest’unico incendio
e anche noi, gli uomini,
saremo in quest’unico incendio
e invece di incenerire usciremo
nuovi come zaffiri
e avremo occhi di topazio:

quando appunto Egli dirà
“ecco, già nuove sono fatte tutte le cose”

allora canteremo
allora ameremo
allora allora…

MARANATHA’, VIENI SIGNORE GESU’!

È un altro Natale nel cuore di un laborioso Sinodo nella Chiesa. E anche un Natale di guerra: come sempre impiastrata di sangue, come mai mortifera per gli inermi, ma oggi prepotentemente invadente con quel piede quasi sull’uscio di casa (nostra). Un altro Natale con assai più spilorce possibilità di vita per tanti, per troppi. Un altro Natale dolente per una interminabile e angosciata carovana di sorelle e fratelli: piccoli, grandi, vecchi, nuovi poveri ed ex ricchi, ma anche di straricchi e stradisperati, armatori di flotte di piacere eppure annegati dalla vita, inebriati dal consenso e defraudati del senso… E poi gli eredi di un disagio antico, di un malessere tenue e tenace, di un languore apolide, privo di anagrafe eppure ingombrante, pervasivo, incollato all’anima; e poi i rampolli di una rabbia ben truccata, ma non così tanto da passare inosservata, non così tanto da essere innocua, né per chi la traghetta né per gli sfortunati confinanti; e poi i disertori di domande mai evase o mai poste o mai accolte; e poi gli innumerevoli spergiuri della propria verità, i rinnegati dalla vita e i fedifraghi di essa. E poi il drappello, più sparuto – ma più agghiacciante e ancor più goffo – di tutti i despoti di turno fanciullescamente persuasi che l’impèrio toccato loro in sorte, non prevede data di scadenza…

Incommensurabile marea umana di dolore e di speranze, di progetti e fallimenti, di attese di vita e di aborti di essa.

Ma è Natale. Per tutti.

L’invocazione accorata e altissima di padre David Maria Turoldo consegnataci nella “Ballata della speranza”, sprigiona una inesausta contemporaneità profetica e implora una voluta e dovuta coralità cosmica, confessando la certezza che, solo insieme, si possa realmente attivare quell’universale grido di speranza che non può restare disatteso perché disperso in rivoli solitari, impercettibili proprio perché accartocciati in sé.

Sì, Natale per tutti.

In una condizione di esilio e di desiderio incolmabile di vita, tutto e sempre attende e tale attesa si incontra e ricongiunge con Dio che, caparbiamente, “ha sempre da nascere”.

In questa attesa che è innervata di desiderio e di nostalgia, di solitudine e di tenerezza, solo la speranza congiunta, corale e unanime diventa garanzia di futuro e caparra di visione: “Oh, se sperassimo tutti insieme tutti la stessa speranza!”.

 In un oggi che ha proprio le fattezze di questo oggi frantumato e complesso, è esatto il come “sperare insieme la stessa speranza”: sperare intensamente e ferocemente. Sperare con tutto ciò che appare incapace di sperare con la speranza che spero: pietre, alberi, foreste, mari e fiumi… e pure quel grano che è due volte seppellito nel solco e sotto la neve. Sperare congiungendo, in una sola emissione, il grido di speranza inespresso da carne, sangue, occhi e mani; sperare creando alleanze tra incomponibili: viscere, mente e cuore. Sperare Lui solo come speranza, perché, Lui solo è il desiderio desiderato dall’intera creazione; sperare congiungendo incomunicabili: i tutti e le cose tutte. Sperare con la forza cieca del morente che non vuol morire; sperare come l’innocente condannato che attende sentenza; sperare come il condannato davanti al plotone, certo che i fucili non spareranno; sperare come l’amante che ha l’amato lontano e non può non amare; sperare insieme, sì che la speranza condivisa permetta di convenire “a un punto solo”: e terra e umani e ogni essere che vive, domiciliata in un unico punto finalmente rintracciabile perché reso noto e unificato dalla medesima speranza. Così, che tutti e tutto, confluiti in “un solo oceano di speranza”, diano “una voce sola” alla speranza, voce, perciò, incontenibile come il boato del mare.

Turoldo offre una densità così eccedente, un accumularsi di frammenti incandescenti che il lettore ne rimane quasi abbacinato e inevitabilmente risucchiato dentro e chiamato in causa. Per ricevere quale tesoro? Che la speranza, oggi, non può che rivestire una corposità tangibile, una consistenza inalterabile e una concentrazione non dis-tratta da altro. Un desiderio gridato all’unisono con la caparbietà sfrontata di chi sa non esserci altra strada, altra possibilità, altra soluzione, altro tempo; con l’irremovibilità di chi sa di aver visto e toccato e che, quindi, non può ritrarsi come se nulla fosse accaduto, come se non avesse visto e toccato.

Chi spera, si allea con tutti e con tutto facendosi esso/a stesso/a speranza.

Così, solo quando tutti e tutto si sono coniugati facendosi speranza – speranza unanime e universale, speranza incrollabile e inalterabile, speranza invariabile e monolitica – allora si potrà gridare non qualche richiesta ma la richiesta, l’unica possibile, l’unica sensata, l’unica planetaria, l’unica necessitata: VIENI, VIENI, VIENI! Così nitida e credibile da esser capace di forare il silenzio altissimo/disperato, silenzio delle origini, e in-vocare quel solenne, necessario e improrogabile Adventus, quell’ingresso solenne e magnifico di Colui che giunge per prendere possesso e assidersi vittorioso perché universalmente in-vocato.

Sì, solo questa invocazione rende afono ogni rumore ingombrante, silenzia ogni ciarpame esistenziale e pone fine al vaniloquio irrefrenabile e mortifero che tutto attanaglia e tutto corrompe. Solo “quando si farà questo disperato silenzio e stringerà il cuore della terra e noi finalmente in quell’attimo dicessimo quest’unica parola perché delusi di ogni altra attesa, disperati di ogni altra speranza […] certi che non vale chiedere più nulla ma solo quella cosa ma tutti insieme e a quel punto”, solo allora l’invocazione VIENI, VIENI, VIENI! sarà assoluta, sarà sciolta da ogni condizione di richiesta, da ogni pilotata modalità attuativa, da ogni conduzione in autonomia. Sarà libera, liberata e liberante: “Vieni da qualunque parte del cielo dagli abissi della terra dalle profondità di noi stessi (ciò non importa) ma vieni, urlassimo solo: VIENI!”.

Unicum necessarium!

In-vocato, viene “come lampo che guizza dall’oriente fino all’occidente” e il suo ormai sfolgorante esserci, farà impallidire sole e luna e fulminerà le stelle, quasi vergognandosi della loro insignificante opacità. Ma a tutti coloro che ne imploravano la venuta, è offerta un’acqua che ristora e che rinsalda e rilancia speranza e voce, tensione e desiderio: “chi vuole attinga acqua di vita per bagnarsi le labbra e continuare a gridare: vieni!”.

E tra l’impetrazione e il suo esserci, non ci saranno rinvii, battute d’arresto o esitazioni: “Allora Egli non avrà neppure da dire eccomi, vengo – perché già viene”. L’assoluta risolutezza del suo esserci invade, senza trovare argine, quella materia che, più di ogni altra, avvolge l’umano, ogni umano e lo penetra, lo permea e lo violenta: il buio, “Vieni nella nostra notte, questa altissima notte la lunga invincibile notte”. E finalmente, riempie di Sé, rendendolo eloquente di presenza, il silenzio: “questo silenzio del mondo dove solo questa parola sia udita […] solo questa voce, quest’unica voce, questa sola voce si oda: VIENI, VIENI, VIENI Signore!”.

Un nuovo inizio. Una nuova luce. Una nuova creazione.

Solo allora “tutto si riaccenderà”, archiviando come logoro cielo, terra, lutto, dolore, lacrime. Morte. Tutto vecchio, tutto superato, tutto fuori luogo alla sua presenza, tutto assolutamente inadeguato davanti al Veniente.

Solo allora, un’altra urbanistica, bella come un talamo permanente, si potrà inaugurare: “una nuova città scenderà dal cielo bella come una sposa per la notte d’amore!”. Urbanistica dell’unico Architetto non censito in alcun albo professionale.

Solo allora potrà essere liquidato quell’orribile accumulo dis-umano di gente anonima, ammassata, impaurita e impaurente, tenuta al guinzaglio: “Non più questi termitai non più catene dolomitiche di grattaceli non più urli di sirene non più guardie a presiedere le porte non più selve di ciminiere”.

Solo allora e proprio allora, l’architrave stesso della vita, il desiderio, si incaricherà di attivare un gran falò dove smaltire il vecchiume, l’inutile, l’orpello e tutto ciò che non ha mantenuto fede a ciò che pareva promettere. E in questa bonifica purificante di restituzione al Vero, al Buono, al Bello, assocerà a sé tutti e tutto: “Allora il nostro stesso desiderio avrà bruciato tutte le cose di prima e la terra arderà dentro un unico incendio e anche i cieli bruceranno in questo unico incendio e anche noi, gli uomini, saremo in quest’unico incendio”. E da dove tutto parrebbe votato a consumazione e finimento, si affaccia l’inedita vita: “invece di incenerire usciremo nuovi come zaffiri e avremo occhi di topazio”.

Desideriamo ardentemente anche noi, chiedendolo al Signore come dono del suo Natale, di poter danzare insieme, lungo il filo dei giorni che ci vengono donati, questa incontenibile, nuova e ri-creativa Ballata della speranza e poterne insegnare il passo a tanti, a tutti fino alla venuta ultima del Signore. Maranatha! Signore nostro, vieni!

Perché se, davvero, ferocemente sperassimo insieme, questo passo di ballo potrebbe diventare il passo di una ferialità finalmente illuminata dalla gioia inalterabile del Vangelo.

Non un Bambino di gesso

La Ballata della speranza, mi ha richiamata alla memoria un’altra pagina densa, luminosa, patita eppure così carica di vita, di padre Turoldo, ormai gravemente ammalato e minato dal cancro che lo condurrà alla morte. Una invocazione al Signore Gesù ormai cristallina, vera perché filtrata nel crogiolo della vita e del dolore e già tallonata dalla morte ormai visibile anche nel suo stesso corpo.

 Un’implorazione al Veniente Signore gridata dalle viscere e da ogni anfratto esistenziale; un appello lancinante inciso con parole aguzze e verbi incauti, spoglio di qualsivoglia letterarietà di maniera, tipico di chi è grandemente innamorato della vita; tipico di chi la vita l’ha assaporata e sofferta, tipico di chi è stato arroventato al fuoco di Dio senza sottrarvisi e gli ha dato carta bianca:

“Quando a uno si dice: guarda che hai un cancro, bello bello, seduto nel centro del ventre come un re sul trono, allora costui – se cerca di avere fede – fa una cosa prima di altre: comincia ad elencare ciò che conta e ciò che non conta; e cercherà di dire, con ancora più libertà di sempre, quanto si sente in dovere di dire, affinché non si appesantiscano ancor di più le sue responsabilità. E continuerà a dirsi: la Provvidenza mi lascia ancora questo tempo e io non rendo testimonianza alla verità! È dunque per queste ragioni, caro Gesù, che mi sono deciso a scriverti in questo Natale.

Non credo proprio per nulla ai nostri Natali: anzi penso che sia una profanazione di ciò che veramente il Natale significa, costellazioni di luminarie impazzano per città e paesi fino ad impedire la vista del cielo. Sono città senza cielo le nostre. Da molto tempo ormai! È un mondo senza infanzia. Siamo tutti vecchi e storditi. Da noi non nasce più nessuno: non ci sono più bambini fra noi. Siamo tutti stanchi: tutta l’Europa è stanca: un mondo intero di bianchi, vecchi e stanchi.

Il solo bambino delle nostre case saresti tu, Gesù, ma sei un bambino di gesso! Nulla più triste dei nostri presepi: in questo mondo dove nessuno più attende nessuno. L’occidente non attende più nessuno, e tanto meno te: intendo il Gesù vero, quello che realmente non troverebbe un alloggio ad accoglierlo. Perché, per te, vero Uomo Dio, cioè per il Cristo vero, quello dei “beati voi poveri e guai a voi ricchi”; quello che dice “beati coloro che hanno fame e sete di giustizia…”, per te, Gesù vero, non c’è posto nelle nostre case, nei nostri palazzi, neppure in certe chiese, anche se le tue insegne pendono da tutte le pareti… Di te abbiamo fatto un Cristo innocuo: che non faccia male e non disturbi; un Cristo riscaldato; uno che sia secondo i gusti dominanti; divenuto proprietà di tutta una borghesia bianca e consumista.

Un Cristo appena ornamentale. Non un segno di cercare oltre, un segno che almeno una chiesa creda che attendiamo ancora… Eppure tu vieni, Gesù; tu non puoi non venire… Vieni sempre, Gesù. E vieni per conto tuo, vieni perché vuoi venire. È così la legge dell’amore. E vieni non solo là dove fiorisce ancora un’umanità silenziosa e desolata, dove ci sono ancora bimbi che nascono; dove non si ammazza e non si esclude nessuno, pur nel poco che uno possiede, e insieme si divide il pane.

Ma vieni anche fra noi, nelle nostre case così ingombre di cose inutili e così spiritualmente squallide. Vieni anche nella casa del ricco, come sei entrato un giorno nella casa di Zaccheo, che pure era un corrotto della ricchezza. Vieni come vita nuova, come il vino nuovo che fa esplodere i vecchi otri. Convinto di queste cose e certo che tu comunque non ci abbandoni, così mi sono messo a cantare un giorno:

Vieni di notte,
ma nel nostro cuore è sempre notte:
e dunque vieni sempre, Signore.
Vieni in silenzio,
noi non sappiamo più cosa dirci:
e dunque vieni sempre, Signore.
Vieni in solitudine,
ma ognuno di noi è sempre più solo:
e dunque vieni sempre, Signore.
Vieni, figlio della pace,
noi ignoriamo cosa sia la pace:
e dunque vieni sempre, Signore.
Vieni a consolarci,
noi siamo sempre più tristi:
e dunque vieni sempre, Signore.
Vieni a cercarci,
noi siamo sempre più perduti:
e dunque vieni sempre, Signore”.

Non credo! O del Natale profanato

Davanti al mistero del Natale, oggi più che mai, son convinto che anche per me, anche per noi, è giunto il tempo di cominciare “ad elencare ciò che conta e ciò che non conta” e “dire con ancora più libertà di sempre” ciò che è percepito come vero irrinunciabile, senza doverlo silenziare per convenienza, per connivenza, per comodo.

Mi parrebbe del tutto ipocrita – e in questo momento storico in particolare – esimersi dal professare convintamente il medesimo “credo” del frate servita Turoldo: “Non credo proprio per nulla ai nostri Natali: anzi penso che sia una profanazione!”. Pro-fanum, significa davanti e quindi fuori dal fanum/tempio: ogni pro-fanazione è annullare o compromettere gravemente il carattere sacro, inviolabile di persone, luoghi, cose che hanno a che fare qualcosa con Dio, con la sua bellezza, con la sua trascendenza, con la sua santità. Ciò che a Lui si riferisce, resta sempre indisponibile ad ogni riduzione, contraffazione, commercializzazione, manipolazione, violazione.

Signore Gesù, per non profanare il tuo Natale, concedici la sapienza del cuore per chiamare per nome ciò che davvero conta e ciò che davvero non conta. Se ferocemente sperassimo insieme! Allora vieni a cercarci, noi siamo sempre più perduti: e dunque vieni sempre, Signore! Amen

Non credo proprio per nulla ai nostri Natali: non credo sia Natale quando, come Chiesa di Gesù, non ci accorgiamo del povero, non lo vediamo, non lo annoveriamo tra le nostre più preziose ricchezze. Non lo attendiamo perché non attendiamo più nessuno e nulla, soprattutto coloro che possono importunarci e toglierci tempo, cose, energie. Temiamo ogni venuta. Temiamo la venuta in-attesa di Gesù: il disturbo che può arrecarci, le mute richieste che può presentarci, la dispendiosa autenticità che esige il suo esserci. E così temiamo anche la venuta di tutti coloro nei quali, Gesù, si è immedesimato: affamati, assetati, svestiti, ammalati, carcerati, stranieri… E talvolta, triste dirlo, in certa prassi ecclesiale, le sorelle e i fratelli poveri, marginali, svantaggiati, possono diventare semplicemente elementi ornamentali, trofei da esibire, elementi decorativi. Di gesso. O di cristallo: invisibili, trasparenti, impalpabili. Papa Francesco continua ad indicarli, invece, come “banchieri” e “benefattori” della Chiesa e di chiunque attenda e accolga Gesù.

San Giovanni Crisostomo, in una sua Omelia sul Vangelo di Matteo (Om 50,3-4; PG 58,508-9), ci consegna una pagina difficile da dimenticare e, probabilmente, pesante da digerire: “Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non permettere che sia oggetto di disprezzo nelle sue membra, cioè nei poveri, privi di panni per coprirsi. Non onorarlo qui in chiesa con stoffe di seta, mentre fuori lo trascuri quando soffre per il freddo e la nudità. Colui che ha detto: ‘Questo è il mio corpo’, confermando il fatto con la parola, ha detto anche: ‘Mi avete visto affamato e non mi avete dato da mangiare e ogni volta che non avete fatto queste cose a uno dei più piccoli fra questi, non l’avete fatto neppure a me’. Il corpo di Cristo che sta sull’altare non ha bisogno di mantelli, ma di anime pure; mentre quello che sta fuori ha bisogno di molta cura. Impariamo dunque a pensare e a onorare Cristo come egli vuole. Infatti l’onore più gradito, che possiamo rendere a colui che vogliamo venerare, è quello che lui stesso vuole, non quello escogitato da noi. Che vantaggio può avere Cristo se la mensa del sacrificio è piena di vasi d’oro, mentre poi muore di fame nella persona del povero? Prima sazia l’affamato, e solo in seguito orna l’altare con quello che rimane. Gli offrirai un calice d’oro e non gli darai un bicchiere d’acqua? Che bisogno c’è di adornare con veli d’oro il suo altare, se poi non gli offri il vestito necessario? Che guadagno ne ricava egli? Dimmi: se vedessi uno privo del cibo necessario e, senza curartene, adornassi d’oro solo la sua mensa, credi che ti ringrazierebbe, o piuttosto non s’infurierebbe contro di te? E se vedessi uno coperto di stracci e intirizzito dal freddo, e, trascurando di vestirlo, gli innalzassi colonne dorate, dicendo che lo fai in suo onore, non si riterrebbe forse di essere beffeggiato e insultato in modo atroce? Pensa la stessa cosa di Cristo, quando va errante e pellegrino, bisognoso di un tetto. Tu rifiuti di accoglierlo nel pellegrino e adorni invece il pavimento, le pareti, le colonne e i muri dell’edificio sacro. Attacchi catene d’argento alle lampade, ma non vai a visitarlo quando lui è incatenato in carcere. Dico questo non per vietarvi di procurare tali addobbi e arredi sacri, ma per esortarvi a offrire, insieme a questi, anche il necessario aiuto ai poveri o, meglio, perché questo sia fatto prima di quello. Nessuno è mai stato condannato per non aver cooperato ad abbellire il tempio, ma chi trascura il povero è destinato alla geenna, al fuoco inestinguibile e al supplizio con i demoni. Perciò, mentre adorni l’ambiente per il culto, non chiudere il tuo cuore al fratello che soffre. Questo è il tempio vivo più prezioso di quello”.

Signore Gesù, per non profanare il tuo Natale, donaci la gioia e la grazia di prenderci cura di coloro che poni, provvidenzialmente, sul nostro cammino: chiedono solo di essere accolti e trattati come fratelli e sorelle e non come inutili e fastidiose comparse sul proscenio della vita. Se ferocemente sperassimo insieme! Allora vieni a cercarci, noi siamo sempre più perduti: e dunque vieni sempre, Signore! Amen

Non credo proprio per nulla ai nostri Natali: non credo sia Natale quando, come Chiesa di Gesù, non sappiamo più chiamare per nome i fratelli e le sorelle che Dio pone sul nostro cammino; quando la comunità cristiana smette di essere il recapito degli sconfitti, la casa dei senza casa, la tenerezza per chi amabile non è o non è più; quando Pastori e Popolo di Dio dismettono il servizio e prediligono il potere; quando la gioia dei cominciamenti e la fiducia nell’osare, cede il passo al rammarico e alla inadeguatezza (che, mai, sono frutto dello Spirito); quando l’abitudine infiacchita al Dio delle sorprese e dell’amore incontenibile, ci rende afoni di vita, liquidatori di speranza, profeti di sventura; quando cuori, porte e tasche restano sigillati a tutti coloro a cui la vita ha imbandito un banchetto dove l’unica portata abbondante è la penuria, condita da molteplici amare spezie e servita da distaccati e altezzosi camerieri; quando gli annunciatori del Vangelo, a qualsiasi livello, scaraventano maldestramente la Buona notizia sui (malcapitati) destinatari di turno – dimenticando che ogni messaggio ha sempre un aspetto di contenuto e uno di relazione –, quando, cioè, la modalità con cui l’annuncio, che è Gesù, viene ammannito con violenza, aggressività, acidità e supponenza. Quello che viene percepito e conservato in cuore dagli (sfortunati) destinatari, non è mai il contenuto del messaggio ma la prepotenza e la prevaricazione della comunicazione.

In una Lettera a Gesù, il Servo di Dio don Tonino Bello, ci consegna una luce vivida perché il nostro Natale abbia il profumo del Natale di Gesù: “Caro Gesù, voglio scrivere a te. Per tanti motivi. Prima di tutto, perché so che tu mi leggerai di sicuro e la mia lettera non rischierà di finire come le tue. Ce ne hai scritte tante, e sono tutte lettere d’amore, ma noi non le abbiamo neppure aperte. Nel migliore dei casi, le abbiamo scorse frettolosamente e con aria annoiata. Poi, perché so che tu non ti fermi a fare l’analisi estetica di ciò che ti dico. Tu vai sempre al nocciolo, o alla radice, e sei imbattibile a leggere sotto le righe. E anche stavolta, ne sono certo, sotto le righe sai scorgere il mio cuore gonfio di paure e di speranze, di preoccupazioni e di tenerezze. Poi, perché tu rispondi sempre, e non passi mai nulla sotto silenzio. Non c’è volta che tu ti rifiuti di ricambiare il saluto o di accusare ricevuta. Con gli altri, lo sai, non sempre è così. Più che la ricevuta, sembra che accusino il colpo.

Ma, soprattutto, scrivo direttamente a te, perché so che a Natale ti incontrerai con tantissime persone che verranno a salutarti. Tu le conosci a una a una. Beato te, che le puoi chiamare tutte per nome. Io non ci riesco. Dal momento, però, che passeranno a trovarti, se non nell’Eucaristia e nei sacramenti almeno nel presepe, perché non suggerisci loro, discretamente, che non te ne andrai più dalla terra e che, pur trovandoti altrove per i tuoi affari, hai un recapito fisso nella tua Chiesa, dove ti potranno incontrare ogni volta che lo vorranno?

 E, a proposito di recapito, non pensi che la tua Chiesa, il cui grembo hai deciso di abitare per sempre dopo aver abitato per nove mesi quello di tua Madre, abbia bisogno di qualche restauro? Si tratterà, caro Signore, di restauri costosi, perché da ricca deve diventare povera, da superba deve divenire umile, da troppo sicura deve imparare a condividere le ansie e le incertezze degli uomini, da riserva per aristocratici deve divenire fontana del villaggio. Chi è profano in certe faccende pensa che sia un restauro quasi senza spese, sotto costo, perché si tratta di ridurre invece che di accrescere. Invece io so che occorre uno di quegli stanziamenti fortissimi della tua grazia, perché, se no, non se ne farà nulla.

Visto che mi sono messo sulla strada delle ‘raccomandazioni’, posso approfittare dell’amicizia per fartene qualche altra?

Aiuta me e tutti i miei fratelli sacerdoti a lasciarci condurre dallo Spirito, che è Spirito di libertà e non di soggezione, Spirito di giustizia e non di dominio, Spirito di comunione e non di rivalità, Spirito di servizio e non di potere, Spirito di fratellanza e non di parte.

Dona ai laici della nostra Chiesa la gioia di te, che fai nuove tutte le cose. Ispira in essi i brividi dei cominciamenti, le freschezze del mattino, l’intuito del futuro.

Esorcizza nelle nostre comunità la paura del vuoto, l’impressione che si campi solo sulle parole, il sospetto che, di ardito, amiamo solo le metafore.

Metti nel cuore di chi sta lontano una profonda nostalgia di te.

Asciuga le lacrime segrete di tanta gente, che non ha il coraggio di piangere davanti agli altri. Entra nelle case di chi è solo, di chi non attende nessuno, di chi a Natale non riceverà neppure una cartolina e, a mezzogiorno, non avrà commensali. Gonfia di speranze il cuore degli uomini, piatto come un otre disseccato dal sole […].

Ricordati di tutti i poveri e gli infelici, i cui nomi hanno trovato accoglienza sterile solo sulla mia agenda, ma non ancora nel mio impegno di vescovo, chiamato a presiedere alla carità.

Ricordati, Signore, di chi ha tutto, e non sa che farsene: perché gli manchi tu.

Buon Natale, fratello mio Gesù, che oltre a vivere e regnare per tutti i secoli dei secoli, muori e sei disprezzato, minuto per minuto, su tutta la faccia della terra, nella vita sfigurata degli ultimi” (Don Tonino Bello, Alla finestra della speranza).

Signore Gesù, per non profanare il tuo Natale, donaci, come tua Chiesa, di diventare recapito accogliente di tutti coloro che, Tu, da sempre, chiami per nome mentre noi, distratti, non chiamiamo affatto. Coloro che tu hai già accolto nel tuo cuore e che noi, ancora, stiamo selezionando, misurando e affibbiando loro punteggi strani e pretendendo condizioni di affidabilità. Se ferocemente sperassimo insieme! Allora vieni a cercarci, noi siamo sempre più perduti: e dunque vieni sempre, Signore! Amen

Non credo proprio per nulla ai nostri Natali: non credo sia Natale quando, dismesse le diottrie degli stupefatti e disponibili pastori di Betlemme e di Beit-Sahour, i quali, in fondo, sembra che abbandonino solo le ceneri del loro bivacco e si trascinano addosso una sonnolenza antica, solo allora, accantonata tale stanchezza, smettiamo di vigilare e quindi di ascoltaree quindi di schiodarci da noi,rinunciando ad andare a Betlemme perché costretti ad abbandonare la nostra comfort zone, le palizzate rassicuranti delle mille certezze, sicurezze, garanzie e “i calcoli smaliziati della nostra sufficienza, le lusinghe di raffinatissimi patrimoni culturali, la superbia delle nostre conquiste”.

Ma sarà Natale solo se raggiungiamo Betlemme. Il nostro è un viaggio faticoso, molto più faticoso di quanto non sia stato per i pastori betlemmitani. Un viaggio faticoso per andare a trovare, in fondo, solo “un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia”.

“Vorrei essere per voi uno di quei pastori veglianti sul gregge, che nella notte del primo Natale, dopo l’apparizione degli angeli, alzò la voce e disse ai compagni: ‘Andiamo fino a Betlem, e vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere’.

Andiamo fino a Betlem. Il viaggio è lungo, lo so. Molto più lungo di quanto non sia stato per i pastori. Ai quali bastò abbassarsi, sulle orecchie avvampate dalla brace, il copricapo di lana, allacciarsi alle gambe i velli di pecora, impugnare il vincastro e scendere giù per le gole di Giudea, lungo i sentieri odorosi di sterco e profumati di menta. Per noi ci vuole molto più che una mezz’ora di strada. Dobbiamo attraversare venti secoli di storia. Dobbiamo valicare il pendio di una civiltà che, pur qualificandosi cristiana, stenta a trovare l’antico tratturo che la congiunge alla sua ricchissima sorgente: la capanna povera di Gesù.

Andiamo fino a Betlem. Il viaggio è difficile, lo so. Molto più difficile di quanto non sia stato per i pastori. Ai quali, perché si mettessero in cammino, bastarono il canto delle schiere celesti e la luce da cui furono avvolti. Per noi, disperatamente in cerca di pace, ma disorientati da sussurri e grida che annunziano salvatori da tutte le parti, e costretti ad avanzare a tentoni nelle circospezioni di infiniti egoismi, ogni passo verso Betlem sembra un salto nel buio.

Andiamo fino a Betlem. È un viaggio lungo, faticoso, difficile, lo so. Ma questo, che dobbiamo compiere all’indietro è l’unico viaggio che può farci andare avanti sulla strada della felicità. Quella felicità che stiamo inseguendo da una vita, e che cerchiamo di tradurre col linguaggio dei presepi, in cui la limpidezza dei ruscelli, o il verde intenso del muschio, o i fiocchi di neve sugli abeti sono divenuti frammenti simbolici che imprigionano non si sa bene se le nostre nostalgie di trasparenze perdute, o i sogni di un futuro riscattato dall’ipoteca della morte.

Andiamo fino a Betlem, come i pastori. L’importante è muoversi. Per Gesù Cristo vale la pena lasciare tutto: ve lo assicuro. E se, invece di un Dio glorioso, ci imbattiamo nella fragilità di un bambino, con tutte le connotazioni della miseria, non ci venga il dubbio di avere sbagliato percorso. Perché, da quella notte, le fasce della debolezza e la mangiatoia della povertà sono divenuti i simboli nuovi dell’onnipotenza di Dio. Anzi, da quel Natale, il volto spaurito degli oppressi, le membra dei sofferenti, la solitudine degli infelici, l’amarezza di tutti gli ultimi della terra, sono divenuti il luogo dove egli continua a vivere in clandestinità. A noi il compito di cercarlo. E saremo beati se sapremo riconoscere il tempo della sua visita.

Mettiamoci in cammino, senza paura. Il Natale di quest’anno ci farà trovare Gesù e, con lui, il bandolo della nostra esistenza redenta, la festa di vivere, il gusto dell’essenziale, il sapore delle cose semplici, la fontana della pace, la gioia del dialogo, il piacere della collaborazione, la voglia dell’impegno storico, lo stupore della vera libertà, la tenerezza della preghiera.

Allora, finalmente, non solo il cielo dei nostri presepi, ma anche quello della nostra anima sarà libero di smog, privo di segni di morte, e illuminato di stelle. E dal nostro cuore, non più pietrificato dalle delusioni, strariperà la speranza” (T. Bello, ibidem).

Signore Gesù, per non profanare il tuo Natale, donaci la forza di schiodarci dal sofà, di camminare con il tuo sguardo vigile, sulle strade della storia. Donaci, senza misura, il piacere della collaborazione, la passione insonne di impegnarci perché la vita, ovunque, cresca. Se ferocemente sperassimo insieme! Allora vieni a cercarci, noi siamo sempre più perduti: e dunque vieni sempre, Signore! Amen

Non credo proprio per nulla ai nostri Natali: quei Natali che affondano radici ancora nei “tempi pagani” (Lc 21,24), intrisi di conflitti idolatrici che lacerano cuore e vita. Tempi a cui il lungo e impegnativo cammino di Avvento, ha offerto la concreta possibilità di affrancarsi. Tempi da imparare a disabitare ma non da dimenticare, con il rischio assai reale di reinstallarvisi senza accorgersene. Tempi, soprattutto, pesantemente occupati da quell’immaginifico caricaturale di Dio e del suo Cristo, capace di disseccare la gioia sorgiva dell’irruzione del Regno nella nostra vita, ben prima di poterla scorgere e goderne. Il combattimento agonico, una vera guerra – che è proprio il cammino spirituale di questo tempo di Avvento/Natale – si gioca primariamente nel più intimo di noi stessi, nel cuore, appunto, dove si confrontano e affrontano quelle passioni laceranti che strattonano ogni vita, tentando di assidersi nella cabina di regia.

Come sempre, l’ascolto prolungato della Parola e la preghiera più intensa di questo periodo santo e benedetto, ci rende tutti più consapevoli che, nel complesso sistema venoso della nostra storia, funziona, e a pieno ritmo, una vena idolatrica, sempre pronta a metabolizzare e sospingere al cuore qualcuno o qualcosa da installare al posto del Dio vivo e vero.

Tante, infinite sono le contraffazioni del volto di Dio, svelato da Betlemme fino al Calvario. Solitamente e sottilmente, è una certa immagine di noi stessi che spodesta la liberante sovranità di Dio. Assai grande fu la meraviglia di Pompeo, quando nel saccheggio di Gerusalemme (63-67 a.C.), trovò completamente vuoto il “Sancta sanctorum” nel tempio. Vagheggiava tesori ingenti, per farne bottino succulento da ostentare a Roma. Anche per ogni persona umana è (troppo) faticoso tollerare quel vuoto cordiale che, invece, va non solo tollerato ma tutelato con tutte le forze e con somma attenzione, visto che è l’unica possibilità, nella vita di ciascuno, di garantire la centralità e la sovranità liberante di Dio. “Ci spaventa il modo in cui Dio viene a noi e si lascia percepire: nel vuoto, nell’assenza, nell’inattingibile. Dio è assente per permettere a noi di farci presenti in una risposta d’amore. Spesso, in noi, esiste un sogno inguaribile di grandezza che, a volte, si maschera con una dedizione più apparente che reale. E proprio quando le cose vanno male – dal punto di vista delle nostre attese, sempre condite di illusione – che si dà a Dio la possibilità di aprire uno squarcio di luce. Il Signore Gesù non solo ci sorprende, ma forse anche un po’ ci fa arrabbiare, per quanto devotamente: ‘Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina (Lc 21,28)’. Dio è vicino, ma dipende da noi fare spazio alla sua presenza, che esige la disponibilità a farci da parte e a mettere da parte le nostre strategie e i nostri trucchi, per esporci all’irruzione del Regno nella nostra storia, a cominciare dalle pieghe concrete della nostra esistenza” (M-D. Semeraro).

È nella contemplazione del Bambino a Betlemme, è nell’attardarsi sui trent’anni nazaretani privi di clamore e di riflettori del figlio del carpentiere, è nel fissare lo sguardo su Colui che è stato trafitto, che impariamo Dio. È il Padre che, nel Figlio Bambino a Betlemme e poi innalzato sulla croce in quello sperone di roccia del Golgota, frantuma la nostra malsana teo-logia, quelle idee caricaturali e distorte che coviamo in cuore e proiettiamo sul suo volto, sul volto degli altri e, tristemente, sul nostro stesso volto. La sporadicità accidiosa nell’accostamento alla Parola, la durezza del cuore, il ripiegamento su noi stessi, le nostre personali paure, i bisogni, i pallini, le segrete rivalse, le inconfessabili velleità, le delusioni, i risentimenti, le nostalgie di grandezza, le amarezze, le nostre ferite, l’uso dis-ordinato della libertà e… tanto altro, ci co-stringono a guardare Dio con diottrie insufficienti e contraffattrici. E il volto di Dio ne viene deturpato, mascherato, camuffato e i suoi tratti distorti e traditi, dando vita, così, ai nostri stanchi, fotocopiati Natali.

Quando il cuore è ripulito dalle variegate immagini contraffatte di Dio, iniziamo a comprendere che egli ci vede grandi nella nostra piccolezza, mentre non riesce a scorgerci quando siamo satolli della nostra supponenza e del nostro strabordare. E quando decidiamo in cuore, con la grazia di Dio che mai manca, di rinunciare ad ogni falsa immagine di noi stessi, per poter vivere nella liberante verità di sé, allora fa irruzione, inattesa e luminosissima la festa del Natale, proprio quello di Gesù. Per questo, l’at-tendere nell’Avvento, già offre la gioia anticipata del Natale di Gesù: “Chi attende, nel senso più elevato, non è poi così lontano da ciò che attende. Chi attende con una serietà assoluta è già toccato da ciò che attende. Chi attende nella pazienza ha già avuto la potenza di ciò che attende. La divina risposta a questo sforzo è il vuoto assoluto. Il tempo è attesa in sé, attesa non di un altro tempo, ma di ciò che è eterno” (P. Tillich).

Signore Gesù, per non profanare il tuo Natale, consegnaci il tuo stesso coraggio di Bambino inerme e di re Crocifisso, per detronizzarci da quell’angolo inaccessibile del cuore, dove solo Tu, sempre Tu, sempre più Tu, vuoi e devi abitare e regnare. Se ferocemente sperassimo insieme! Allora vieni a cercarci, noi siamo sempre più perduti: e dunque vieni sempre, Signore! Amen

Non credo proprio per nulla ai nostri Natali: quando, dicendo “Natale”, si scivola quasi in automatico in un fraintendimento colossale e di proporzioni, ora, difficili da comprendere e da sanare: l’impazzimento generale in ogni tipo di compra-vendita, il dilagare di luminarie, di traffici di ogni tipo, l’ostentazione di ricchezza e lo sciupìo di beni (secondo dati statistici, il 30% dei prodotti da noi acquistati risulterebbero contraffatti, di cui il 68% (!) di questi, comprati come regalo dei nostri Natali…) e il tutto a fronte di quell’immane dolore umano urlato da ogni tipo di povertà, di guerra, di oppressione e di morte.

Prima della pandemia, nel Natale 2018, vi scrivevo che la festa del Natale è accessibile solo attraverso la fede: quella fede che è di Maria, nell’Annunciazione e nel suo custodire e meditare nel cuore il ricordo degli avvenimenti; quella stessa dei pastori, che accorrono colmi di stupore per vedere ciò che è accaduto ed è stato loro rivelato; la fede di Giuseppe, giusto che fa la cosa giusta, fidandosi della spiegazione ricevuta; la fede dei Magi, che preferiscono dare credito alle brillanti stelle del cielo piuttosto che a quella opaca e sinistra stella che sedeva in trono a Gerusalemme, Erode il Grande.

Chi non accoglie nella fede la nascita del Figlio di Dio, della sua Parola-per-me, che fissa un inizio inedito della storia umana, dando vita ad un prodigioso evento creativo, perché nasce una nuova umanità intrisa della misteriosa Presenza divina, non può far festa. Non riesce a far festa. Non ha alcun motivo di fare vera festa. Non esiste forzatura più forzata di questa: far festa senza motivo, far festa senza festeggiato. Con Gesù… sloggiato, la festa stessa diventa insulsa perché non si sa chi sia il festeggiato.

Chiunque non abbia fede o non abbia accolto la testimonianza dei Vangeli e tramandata dopo l’incontro con il Risorto, può solo sorridere di questi eventi, o leggerli come l’infantile favola di Gesù Bambino (favola, preferibilmente, da non raccontarsi neppure ai piccini). Se il Natale non attinge più il suo significato dall’autentico annuncio evangelico non può più essere motivo per quella festa.

Molti tra noi “cristiani”, non avendo come Maria “meditato dentro di sé” i fatti accaduti alla luce della Parola annunciata da Gesù e confermata dalla sua morte e risurrezione, non riescono a vivere il Natale come festa, come nuova Presenza di Dio nelle proprie vicende di vita, Presenza capace di dare una spinta decisiva e positiva al peregrinare nei sentieri del tempo.

Che festa può esserci quando non riesce più a sfiorarci lo sconcerto per l’interscambio pacifico (!) tra gli “attesi”: che sia Babbo Natale con la quadriga delle sue renne o la Parola unica e ultima del Padre per un’umanità sfinita che attende altro dai pacchetti scintillanti, cosa cambia?

Che festa può esserci quando i simboli della festa sono totalmente slegati da Colui che i simboli simboleggiano, richiamano, indicano, invocano?

Che festa può esserci quando ciò che tanto ci avvolge è solo un ingenuo pietismo dove il nostro animo si increspa per le tradizionali, struggenti nenie, evocative dei bei tempi che furono e di un buonismo che, proprio cronologicamente, dura da Natale a Santo Stefano?

Che festa può esserci quando, scambiandoci gli auguri di “buon Natale”, alludiamo in realtà a vacanze fuoriporta, a banchetti scassafegato, a tours esotici… È vero, i “ponti” si moltiplicano e prolungano la sospensione dal lavoro: più ferie ma più festa? Ma un “buon Natale” ci sarà se si compie l’accoglienza di Gesù Cristo, la sua persona e i suoi stili di vita.

Che festa può esserci quando l’orizzonte della vita è il proprio ombelico, i propri pallini, le proprie pretese e la trama dei giorni si accartoccia su se stessa in un esasperante, tragico autoavvitamento neppure per caso scalfito dall’ad-ventus del Signore nel suo Natale?

In una conversazione del 1986 tra padre Turoldo e Pasquale Maffeo (ma pubblicata su Avvenire solo nel dicembre 2015, ventitré anni dopo la morte di padre Turoldo), sul vero senso cristiano del Natale alla domanda dell’intervistatore “Come accogliere il Natale quest’anno?”, il servita risponde in modo scultoreo ed altrettanto semplice e illuminante anche per questo nostro oggi complesso e tormentato: “E però al di là del dubbio e del contrasto, al di là del sospetto che siamo davvero su vie sbagliate, al di là di ogni mercato, sopravviva almeno la nostalgia che la vita è un dono. Perché questo è il significato profondo del Natale: il dono del Padre a questi figli disperati e soli che siamo noi; il dono di un Figlio e di un Fratello che ci salvi dalla disperazione e dalla solitudine. E che ritorni ad apparire qualche segno di maggiore umanità nei nostri rapporti, in queste nostre città sempre più ‘senza Dio’. (Non dico atee, dico ‘senza Dio’ che è molto diverso: se non altro per quel tanto di drammatico che c’è solitamente nell’ateo; invece ‘senza Dio’ dice soprattutto indifferenza, noncuranza, non-pensiero, quando non dica addirittura cinismo) […] Che finalmente la Parola prenda carne, e cioè si realizzi nella vita quotidiana, in questo mio divenire tumultuoso e caotico, e mi salvi da una esistenza insensata e banale. Perché Natale o è incarnazione del Verbo di Dio nella nostra realtà individuale e storica, o non è Natale. Naturalmente concedendo quanto di dovere alla nostra miseria: pronti a comprendere, certo, ma non a desistere di fronte alla pazienza di Dio che tuttavia viene, che non cessa di venire […] È a questa attualizzazione e contemporaneità di Dio nella storia dell’uomo che siamo chiamati, se non altro per aprirci, comunque a rispondere. Perché è certo che egli viene, ma dove e in chi viene? Certo che viene per tutti, ma non è detto che tutti lo incontrino”.

Signore Gesù, per non profanare il tuo Natale, donaci di essere interiormente scossi dalla nostalgia che la vita è dono, puro dono, sempre dono! Se ferocemente sperassimo insieme! Allora vieni a cercarci, noi siamo sempre più perduti: e dunque vieni sempre, Signore! Amen

Credo. O del Natale santificato: compimento della nostra umanità

Oggi, nella città di Davide, è nato per noi un Salvatore che è Cristo Signore” (Lc 2,11): nella notte di Natale, sono queste le scarne e stupite parole che gli angeli consegnano ai pastori perché si facciano umili e risoluti testimoni di quella nascita che cambia la storia, rendendola, per tutti coloro che accoglieranno l’annuncio, storia di salvezza. Un oggi salvifico consegnato ad una categoria ben poco devota, ben poco considerata, ben poco affidabile in quel momento storico.

“Dio ha parlato a noi per mezzo del Figlio” (Eb 2,1.2): questa Parola di Dio, così densa, così consegnata, così accessibile da farsi carne di uomo, proprio questa è la novità che trasforma per sempre la relazione tra Dio e la persona umana e tra le persone umane stesse, perché “a quanti lo hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio” (Gv 1,12).

Nel 60° dell’inizio del Concilio Ecumenico Vaticano II, è difficile dimenticare un dettato nitido come quello di Gaudium et spes 22: “Solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo”. È l’intreccio non più scomponibile e la coniugazione priva di contrapposizione tra il manifestarsi del volto di Dio in Gesù di Nazaret e il volto dell’umano, di ogni umano: “una dinamica tra concavo e convesso, dove l’uno sostiene l’altro” (G. Osto). L’intera liturgia natalizia ci sospinge su questa strada: “O Padre, per questo misterioso scambio di doni, trasformaci nel Cristo tuo figlio”. Questa idea del “mirabile commercium”, il sorprendente scambio dei doni, ben si coniuga con il clima natalizio – anche di un Natale “ristretto”, per tanti, come questo – ma, nell’economia della salvezza, si intende, piuttosto, quella simultanea rivelazione della dignità umana congiunta, ormai, inscindibilmente, con il volto stesso di Dio che “il Figlio unigenito ha rivelato”. “Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo. Nascendo da Maria Vergine, egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato” (GS 22).

“Il Verbo stesso di Dio, colui che è prima del tempo, l’invisibile, l’incomprensibile, colui che è al di fuori della materia, il Principio che ha origine dal Principio, la Luce che nasce dalla Luce, la fonte della vita e dell’immortalità, l’espressione dell’archetipo divino, il sigillo che non conosce mutamenti, l’immagine invariata e autentica di Dio, colui che è termine del Padre e sua Parola, viene in aiuto alla sua propria immagine e si fa uomo per amore dell’uomo. Assume un corpo per salvare il corpo e per amore della mia anima accetta di unirsi a un’anima dotata di umana intelligenza. Così purifica colui al quale si è fatto simile. Ecco perché è divenuto uomo in tutto come noi, tranne che nel peccato. Fu concepito dalla Vergine, già santificata dallo Spirito Santo nell’anima e nel corpo per l’onore del suo Figlio e la gloria della verginità. Dio, in un certo senso, assumendo l’umanità, la completò quando riunì nella sua persona due realtà distanti fra loro, cioè la natura umana e la natura divina. Questa conferì la divinità e quella la ricevette. Colui che dà ad altri la ricchezza si fa povero. Chiede in elemosina la mia natura umana perché io diventi ricco della sua natura divina. E colui che è la totalità, si spoglia di sé fino all’annullamento. Si priva, infatti, anche se per breve tempo, della sua gloria, perché io partecipi della sua pienezza. O sovrabbondante ricchezza della divina bontà!” (Gregorio Nazianzeno, Oratio 45,9.22.26).

Soprattutto nella Eucarestia di mezzanotte di questo Natale 2022, la Pace irrompe nelle nostre assemblee come promessa e come dono, un affido divino da compiersi con quei “sentimenti di Gesù” che la divina liturgia ci dona e ci abilita a declinarle in scelte consapevoli e coraggiose di vita. Il Bambino di cui parla il profeta Isaia e donato ad un Israele che implora la pace che pare sideralmente irraggiungibile (9,1-6), è chiamato “Principe della pace” e proprio e solo grazie a lui, “la pace non avrà fine”.

La Pace c’è, la Pace è Lui e, come impastati di Pace, sono coloro che gli danno credito, ascolto e obbedienza. È in lui che avviene la liquidazione definitiva di ogni violenza, sopraffazione e ingiustizia: “Ogni calzatura di soldato che marciava rimbombando e ogni mantello intriso di sangue saranno bruciati”. Spariranno. La Pace è Lui, dono del Padre, ma la Pace fiorisce, insieme, dall’incessante invocazione perché continui a camminare in tutti e attraverso tutti. La Pace è un bambino che nasce e vagisce, è fragile, è tangibile, è visibile: è insieme umile e potente perché è la stessa innocenza di Dio, la stessa tenerezza di Dio umanata. Proprio per questo, la Pace, decide di essere e restare vulnerabile.

Anche a noi, in questo oggi afflitto e affliggente, carico di crude immagini belliche (ma non le uniche), martellanti e così pervasive da accompagnare anche i nostri faticosi sonni notturni, il “Principe della pace” consegna una possibilità, uno stile di vita, un dono per “vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà” (Tito 2,12: seconda lettura della notte di Natale).

È questo inatteso e insperato primo dono natalizio offertoci da colui che è “nostra Pace” (Ef 2,14), che ci abilita a dismettere “l’empietà e i desideri mondani”. Il dono è più unico che raro: ci concede di vivere come il Figlio, perché fatti “figli nel Figlio”, perché ri-creati dalla sua Parola e dal suo Corpo. Resi idonei a vivere nella “sobrietà/sophrónos”, nella “giustizia/dikáios”, nella “pietà/eusebôs”.

Dio è sobrietà. I Padri della Chiesa avevano coniato l’espressione Verbum abbreviatum, Verbum brevissimum per raccontare la totale eloquenza del Verbo nella sua stessa assoluta sobrietà e abbreviazione. L’avverbio sobriamente indica la capacità di saper gestire umanamente quel meccanismo così tipicamente nostro, indispensabile e delicatissimo, del desiderio e del desiderare che condotto invece non-sobriamente, diventa trabocchetto ingannevole, dis-ordinando la vita, rendendo incapaci di discernere tra desideri e bisogni e accendendo desideri o irrealizzabili o deleteri o mortiferi e partorendo così persone infelici invece che pacificate.

Vivere nella carne “per grazia” – ovvero per l’amore eccedente del Padre donatoci in Gesù – con “giustizia/dikáios”, ci fa partecipi del dono della sua ac-con-discendenza, del suo essere responsabile verso il proprio essere Figlio del Padre e fratello di ognuno. Anche quando la giustizia ha preteso l’apice della responsabilità e la scelta è diventata agonica e mortale (cf Lc 22, 40-46).

La “pietà/eusebôs” da praticare in questo nostro mondo è la vera risposta a Dio che ci interpella, ci parla, ci chiama. Pensati per la responsorialità, ogni non-risposta, ogni dismissione di responsabilità, ogni rimando di decisione o, ancora peggio, la decisione di non decidere nulla, di girare la faccia dall’altra parte e di scaricare sempre su altri e su altro, ci rende empi, non cor-rispondenti a Colui che ci ha pensato, invece, proprio per la cor-rispondenza e la cor-responsabilità. Dall’Incarnazione alla Risurrezione Gesù sa essere compiutamente eusebôs: offreal Padre una pienezza di adesione totalmente filiale. L’unica risposta autentica a Dio.

Nella notte santa e benedetta del Natale non profanato di Gesù, per tutti e per ciascuno, assicuro la richiesta al Padre di ogni dono perfetto, di poter gustare la gioia di “sperare ferocemente insieme”, così da incontrare non un bambino di gesso, ma il sempre Veniente Signore e Salvatore Gesù Cristo

✠ padre Mauro Maria Morfino                                                                             
vescovo di Alghero-Bosa